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C’è vita dopo un epic fail?

Insieme a milioni di opportunità, il web ci hanno dato milioni di nuove occasioni per fallire. O per dare visibilità a errori che altrimenti sarebbero rimasti chiusi nella nostra cameretta.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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Jorge da Silva Santos aveva quarant’anni quando si rese conto di avere un’occasione unica: dedicare un busto a Cristiano Ronaldo, il suo idolo. Proprio come Ronaldo, Santos è nato a Madera, isola portoghese nell’oceano Atlantico, e lavorava nell’aeroporto locale per un’azienda di pulizie. Proprio al lavoro venne a sapere che la struttura stava per cambiare nome e sarebbe stata intitolata proprio a “CR7”. L’aeroporto “Cristiano Ronaldo”, pensò subito Santos, avrebbe avuto bisogno di un busto, e sarebbe stato lui, che da qualche tempo coltivava l’hobby della creta, a realizzarlo. Dopo aver ricevuto un tiepido via libera dall’amministrazione aeroportuale, si mise al lavoro.

Come qualcuno di voi avrà intuito, questa storia non va a finire bene. Santos è infatti l’autore del famigerato busto di Ronaldo diventato virale nel marzo 2017. Se lo avete visto, ve lo ricordate, con quegli occhi distanti e spalancati in uno sguardo poco convinto, le sopracciglia storte e, su tutto, il ghigno che ha reso l’opera un bersaglio dello sbeffeggio globale. A distanza di un anno dall’inaugurazione, il busto è stato commissionato a un altro artista, ma l’errore originale è rimasto scolpito nella memoria collettiva. Non importa che la colpa della smorfia finale fosse causata dalla cottura, e non dell’artista; poco importa che Santos fosse alle prime armi e che altri fattori abbiano influenzato il risultato. Un epic fail è per sempre.

Internet cambia tutto

“Fallimento” è una di quelle parole che non lasciano scampo e fuggono dalle interpretazioni. Si fallisce e basta, in modo assoluto. Tra i fallimenti peggiori, il più temuto è senz’altro quello pubblico, fenomeno che in lingua italiana indichiamo con figuraccia – o varianti più prosaiche del termine –, ma che nel nostro caso va oltre la semplice brutta figura: un fallimento pubblico, o sociale, è distruttivo, l’anticamera dello stigma che rischia di isolare una persona. Un incubo per qualsiasi essere sociale, poiché una creatura isolata è una creatura perduta – come vuole la mentalità da branco animale che ancora infesta la nostra psiche. Per questo il fallimento altrui si accompagna spesso alla risata, che rappresenta qui un moto di liberazione, un urrà per lo scampato pericolo: poteva succedere a me e invece è successo a te. Come insegna il termine tedesco schadenfreude (il “piacere provocato dalla sfortuna” altrui), poi, la stessa reazione può capitare anche di fronte alle disavventure di persone amiche, in una variante più morbosa e proibita del fenomeno.

Internet, poi, ha cambiato tutto. È online che il concetto di fail – e la sua variante mitica, l’epic fail – è passato da umile verbo inglese a categoria dello spirito; è sul web che il meme si è sviluppato e diffuso, prima sotto forma di foto contrassegnate dalla parola “FAIL” in font Impact, poi come risposta, commento, etichetta. Così il lancio di Healthcare.gov, sito voluto dall’allora presidente statunitense Obama per la sua assicurazione sanitaria pubblica, si trasformò in un epic fail con milioni di persone pronte ad accedervi bloccate da un sito brutto, lento e perlopiù “sotto”, annichilito dal traffico. Allo stesso modo il busto di Ronaldo fu un fail, così come il leggendario Jesus Fresco Fail, l’incredibile “restauro” – se così possiamo dire – dell’affresco di Gesù Cristo realizzato dell’ottantunenne Cecilia Gimenez nel 2012. Il risultato, qualcosa tra il grido di Munch e un alone dai toni autunnali, fu uno dei primi fail da social network a fare il cosiddetto “giro”: da bersaglio di critiche e sberleffi divenne un’opera a se stante, che da allora ha reso la piccola chiesa di Borja (in Spagna) un’insolita attrazione turistica. Siamo quindi al turismo del fail, nipote più piacevole del turismo dell’orrore ispirato ai fatti di cronaca nera.

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Una storia da narrare

Ci pensa poi il sito Know Your Meme a narrare la storia del Fail, il cui punto d’origine è fatto risalire al 1998. Quello è l’anno d’uscita del videogioco giapponese Blazing Star, in cui al posto del tradizionale Game Over campeggiava un messaggio bizzarro, brusco e sgrammaticato: “YOU FAIL IT! YOUR SKILL IS NOT ENOUGH- SEE YOU NEXT TIME- BYE BYE”. Grazie alla combinazione di analfabetismo e monito severissimo (“Le tue capacità non sono abbastanza”, sic), il meme del “YOU FAIL” ha cominciato un’evoluzione sotterranea su forum come Something Awful e 4chan – dove è nata gran parte della lore del primo internet – sfociando in superficie con prodotti più mainstream come FAILblog.com, blog che proponeva ogni giorno svariati… fail, appunto. Video, meme, immagini rubate, screenshot di conversazioni andate storte: prima che i gruppi Facebook e gli account Instagram divorassero tutto, la parte strana del web trovava suolo fertile in blog specializzati simili, trasformando l’epic fail in qualcosa di più di un meme: un mattoncino basilare della società moderna.

“Un rito paradossale attraverso il quale un grande slancio d’autoconvincimento arriva a essere ridicolizzato e venerato globalmente”: così lo ha definito Marc O’Connell in Epic Fail. Bad Art, Viral Fame, and the History of the Worst Thing Ever (ebook edito dal sito The Millions nel 2013), sottolineando l’importanza della sicumera nell’effetto finale del fail. Se l’autore di un “fail” lo presentasse includendo le sue insicurezze sull’opera, l’effetto comico sarebbe minore, se non nullo: tale è la differenza tra la banale figuraccia e il temibile fail. A rendere un fail diverso dal verbo da cui è originato è infatti la sicurezza dei suoi protagonisti di essere dalla parte giusta, di aver fatto un buon lavoro: è questo quello a cui reagiamo, questa la scivolosa buccia di banana che scatena la risata sadica.

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Rebecca Black

Rialzarsi dal fail

Pur essendo un fenomeno assoluto, l’epic fail è in grado di offrire occasione di rivalsa alle sue vittime. La reazione migliore a questo genere di disgrazia è infatti quella di a) aspettare il riflusso dei social network e b) rispondere con autoironia all’evento. È quello che in inglese viene definito “embrancing the meme”, ovvero accettare e abbracciare il meme, il tormentone. Non è solo un modo di trasformare un fallimento in un’opportunità di carriera o notorietà: come dimostrato dal dipinto di Gesù Cristo, potrebbe essere l’unico modo di sopravvivere al backlash di un fail. 

Prendiamo il caso di Rebecca Black, ragazzina americana che nel 2011 provò a diventare una popstar con Friday, motivetto di dubbio gusto accompagnato da un pessimo video. La parabola di Black racconta bene i rischi legati alla viralità da fail: la vocina stridula della ragazzina e le goffe coreografie l’hanno resa nota, certo, ma hanno anche attirato un’orda di commentatori e “troll” (un giorno magari rivedremo la definizione e i confini di questo termine), che l’hanno offesa, minacciata e coperta di insulti per mesi. Per anni. Dovette cambiare scuola, Rebecca, per sfuggire all’onta – onta che però la inseguiva ovunque, dilagando su scala globale. Sette anni dopo, Rebecca è una star dei social con 800mila follower su Instagram e ha ripreso a cantare, dimostrando l’esistenza di una vita d’uscita.

“Embracing the meme” non è solo un modo di trasformare un fallimento in un’opportunità: può anche essere l’unico modo di sopravvivere al backlash di un fail.

Com’è riuscita a togliersi di dosso quell’aura da ragazza fastidiosa e incapace? Forse il pubblico ha capito che prendersela con una ragazzina che vuole diventare una cantante non è un’attività nobile (forse); oppure è stata Black stessa a fare del suo epic fail il trampolino di lancio per la sua carriera “adulta”. La sua riabilitazione è stata lenta e delicata: prima è tornata sul luogo del delitto, raccontando il backlash al suo video e, allo stesso tempo, prendendosi gioco di quella Rebecca Black, in un video in cui riguarda il video molto imbarazzata. Lo stesso ha fatto Santos, che il sito sportivo Bleacher Report ha raggiunto un anno dopo il fattaccio per raccontare la sua versione, fatta di originale in creta rovinato dalla cottura, e dandogli l’opportunità di riprovarci, producendo un busto più… beh, normale.

Abbiamo tutti ricordi imbarazzanti, episodi in grado di congelarci il sangue non appena riaffiorano nella memoria. Di solito succedono quando siamo con poche persone. Ecco, a Santos e Rebecca Black sono successi davanti a tutto il mondo, su internet, il luogo dove l’informazione è creata e mai distrutta. Come detto, non c’è fuga dall’epic fail, resiste per sempre e si autoalimenta; ma ciò non vuol dire che non si possa vivere dopo un evento del genere.


Pietro Minto

Nato a Mirano, in provincia di Venezia, nel 1987; vive a Milano. Collabora con Il Foglio, Il Post e altre testate. Dal 2014 cura la newsletter Link Molto Belli.

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