Mentre Hbo si spinge in lande ex sovietiche con Chernobyl, anche la Russia riprende in mano il suo passato con le serie tv, a partire da Trotsky. Ma non tutto va nel verso giusto…
Quando la presentarono al Mipcom del 2017 la salle Debussy del Palais des Festivals di Cannes era pressoché deserta. A parte il sottoscritto, c’era forse una ventina di delegati della Federazione Russa e un paio di colleghi del sudest asiatico. Eppure Trotsky, prodotta da Perviy kanal (la Raiuno russa per intenderci), in collaborazione con Sreda Production, era il prodotto di punta della Russian Content Revolution. Come consuetudine, il Mipcom dedica ogni edizione a un Paese e ai suoi nuovi prodotti tv, e nel centenario della Rivoluzione di Ottobre fu il turno della Russia.
Il produttore della serie nonché amministratore delegato del canale, Konstantin Ernst, chiamò sul palco l’interprete principale, l’attore Konstantin Khabensky, definì Trotsky il produttore esecutivo della Rivoluzione Russa, augurò ai pochi presenti una buona visione e concluse la presentazione con una squallida battuta su Harvey Weinstein (si era agli albori del #MeToo). La discutibile spiritosaggine faceva riferimento al presunto appetito sessuale del rivoluzionario russo, che la serie dipinge come una via di mezzo tra Don Vito Corleone e Rocco Siffredi. In esergo al primo episodio, Lev Trotsky è impegnato in un rapporto sessuale che esegue con la stessa meccanica implacabilità della locomotiva che traina il treno su cui viaggia. Negli altri vagoni siedono i ranghi dell’Armata Rossa, la cui ricostituzione fu affidata a Trotsky dal comitato centrale quando all’indomani della rivoluzione il paese precipitò nella guerra civile tra rossi e bianchi. Stando alla versione dei creatori della serie, la strategia militare del nostro eroe è riassumibile in una sola parola: ferocia.
Didascaliche crudeltà
Quando per esempio il treno rimane senza carbone, il focoso rivoluzionario ordina di razziare le lapidi e le croci di legno di un cimitero nelle vicinanze. Sconvolti dalla noncuranza blasfema dell’Armata Rossa, gli abitanti del villaggio adiacente si scagliano contro l’esercito del popolo, che li fa fuori uno a uno. Quando un generale chiede a Trotsky cosa fare dei cadaveri, il comandante, algido, ordina di lasciarli dove sono e di procedere. La rivoluzione non aspetta. Una ripresa aerea ritrae i corpi senza vita che giacciono nel cimitero profanato, coperto di neve bianca e sangue: il candore della Russia bianca macchiato dalla crudeltà sanguinolenta dei rossi. La serie è prodiga di didascalismi un tanto al chilo.
La parabola (dis)umana e politica di Lev Davidovič Bronštejn, in arte Trotsky, è ricostruita nell’arco di otto episodi da una cinquantina di minuti ciascuno, con un budget decisamente sostanzioso e una struttura narrativa che compie continui salti temporali. Il presente nella serie è rappresentato dagli ultimi giorni dell’esilio messicano di Trotsky, quando lo zio stalinista di Christian De Sica, Ramón Mercader, si finse un giornalista canadese e fece fuori a colpi di piccozza l’incauto bolscevico dopo averne conquistato la fiducia (la loro relazione è un prodotto di sola finzione). È a partire dalle loro chiacchierate messicane che si dipana la matassa narrativa, fatta di lunghi flashback, che ricostruisce la vita del leader rivoluzionario. Un Trotsky demonico, convinto che le funzioni erettili, più di quelle politico-strategiche, siano determinanti nella lotta al capitale.
A un congresso a Bruxelles del 1903, il nostro sfodera un repertorio alla Umberto Bossi della prima ora, accusa gli intellettuali da salotto di essere degli eunuchi (nell’originale russo, “impotenti”) e scalda gli animi incitando alla violenza rivoluzionaria. Stalin ritardatario assiste solo alle ultime battute quando Trotsky insiste sulla necessità di versare il maggior numero di globuli rossi per liberare il proletariato dal giogo monarchico. Il suo futuro arci-nemico è rapito da cotanta poesia e gli tende la mano a fine comizio, Trotsky non la vede o la ignora (il campo-controcampo non è chiaro) e Stalin se la prende. Il suo sguardo, da estatico, si fa vendicativo. Per una stretta di mano non data!? Permalosi i georgiani…
Quando si rivedono a Pietrogrado nel 1917, Stalin non l’ha ancora perdonato nonostante il tempo passato e si è fatto crescere baffi davvero minacciosi. Ciò che più colpisce della serie, tanto più che si tratta pur sempre di un historical drama, è l’assenza pressoché totale della Storia. Divergenze ideologiche e snodi storici di una certa importanza, al di là delle simpatie politiche dello spettatore, sono spesso ridotti a siparietti al limite del farsesco. Durante un incontro tra il leader bolscevico e Sigmund Freud, che né gli storici né i biografi di Trotsky sarebbero in grado di confermare, il padre della psicanalisi guarda negli occhi il nostro eroe e sentenzia: “uno sguardo così l’ho visto solo nei serial killer e nei fanatici religiosi”. Trotsky è malato di mente. Per quale altra ragione uno si prenderebbe la briga di fare una rivoluzione? In ossequio alla politica così come la intende e pratica il Cremlino, una macchinazione oscura e impenetrabile, la serie ritrae ogni passaggio storico come il risultato di trame e raggiri compiuti alle spalle di un popolo sempre e rigorosamente passivo. Altro che materialismo storico, la serie trasmette una visione verticistica della storia dove la volontà del singolo è la vera forza motrice del successo (manco fosse l’American Dream…). La storia la fanno gli uomini, non viceversa.
Ciò che più colpisce della serie, tanto più che si tratta pur sempre di un historical drama, è l’assenza pressoché totale della Storia. Divergenze ideologiche e snodi storici di una certa importanza, al di là delle simpatie politiche dello spettatore, sono spesso ridotti a siparietti al limite del farsesco.
Patriarcato
E di soli uomini si tratta. Alle tante figure femminili che pure animarono in maniera significativa la rivoluzione bolscevica la serie non riserva nemmeno un cameo. Non vi è traccia alcuna di Alexandra Kollontai, l’ideologa del sesso libero, né di Inessa Armand, Aleksandra Artyukhina o Nadezhda Krupskaya, donne a cui la Storia deve l’introduzione del divorzio, dell’aborto, dei contraccettivi, nonché la decriminalizzazione dell’omosessualità. Il tutto in anticipo di qualche decennio sul democratico Occidente. Lo stesso protagonista non ha dubbi riguardo all’inferiorità congenita del gentil sesso: “le masse hanno una psiche femminile, siete passive per natura”, spiega Trotsky con fare galante alla sua futura moglie – “bisogna fottervi”, è la romantica insinuazione degli sceneggiatori.
La serie mette in scena questa concezione medievale dei rapporti di genere e le donne che vi appaiono sono infatti immancabilmente supine, in tutti i sensi. Unica eccezione: Frida Khalo, che Trotsky conobbe e, ça va sans dire, si trombò nel suo esilio messicano. Alla pittrice gli showrunner concedono un ritratto, se non tridimensionale, quantomeno proattivo. A onor del vero la tridimensionalità psicologica è negata a tutti i protagonisti, appesantiti da una recitazione quasi mai all’altezza dei personaggi. Lenin ha la stessa espressività di un burattino anche se il ruolo che la serie gli assegna è quello del burattinaio. Stalin sembra l’orco cattivo delle fiabe. Il capo della Čeka (la precorritrice del Kgb) ha le sembianze letterali di un suino bipede. L’attore, che interpreta Trotsky per la seconda volta (la prima fu nel 2005 nella serie Esenin), si distingue dagli altri per doti attoriali decisamente migliori anche se vittima anch’egli di una sceneggiatura insufficiente. Insufficiente non solo nel descrivere i tratti dei personaggi in maniera credibile, ma anche nel tessere una trama narrativa se non epica quantomeno coinvolgente.
Decenni ricchi di avvenimenti politici, colpi di scena e cambiamenti radicali si susseguono in maniera monotona. La diabolica spietatezza del protagonista è così scontata che lo spettatore comincia a prevederne ogni mossa già al terzo episodio. La necessità propagandistica di dipingere la Rivoluzione d’Ottobre come un evento catastrofico dettato esclusivamente dalla follia ideologica dei suoi protagonisti nega alla serie ogni parvenza di verisimilitudine storica.
La rilettura orientata della storia
Trotsky riflette in maniera abbastanza fedele e pedissequa la versione ufficiale del neo-zarismo putiniano, che vede nella Rivoluzione d’Ottobre un passo falso nel continuum imperiale della gloriosa Madre Russia. I capitoli di storia sovietica che il Cremlino continua a rivendicare sono quelli più muscolari, quelli insomma che ristabilirono l’orgoglio nazionale, come la resistenza nei confronti della wehrmacht di Hitler che l’armata rossa annientò per la modica cifra di 20 milioni di morti tra militari e civili (accollandosi quasi interamente il costo umano della sconfitta del nazismo, va detto). La Rivoluzione d’Ottobre invece rappresentò una rottura, un rovesciamento radicale, politico e sociale che la Russia di Putin ha esorcizzato ignorandone completamente il centenario.
In linea con il clima politico attuale, la serie dipinge i bolscevichi come un gruppo di intellettuali apolidi, privi di qualsiasi legame con il popolo russo e la sua storia. La rivoluzione è il risultato di oscuri intrighi sortiti da potenze straniere (la Germania) ai danni della Russia più che un moto popolare contro la spietatezza del regime dei Romanov, che governarono l’impero russo per 300 anni con un pugno che definire di ferro sarebbe eufemistico. Ai tempi dell’esilio parigino, quando i bolscevichi discutevano animatamente nei sontuosi caffe della capitale francese, Alexander Parvus, nella serie ritratto come un losco figuro amico dei tedeschi, foraggiò i piani rivoluzionari di Trotsky (falliti poi con la rivoluzione abortita del 1905, che costò al nostro qualche anno di Siberia). Sebbene sia storicamente appurato che Lenin rientrò in Russia grazie a un treno-copertura gentilmente offerto dal Kaiser che vedeva nella rivoluzione bolscevica il miglior modo per indebolire il nemico, da qui a ridurla a mero complotto ce ne passa. Eppure la retorica del paese accerchiato da nemici è uno dei topoi preferiti di Vladimir Putin, che i suoi sostenitori sottoscrivono con entusiasmo (come se la Russia fosse uno staterello sfigato e non una potenza imperialista a sua volta…).
La necessità propagandistica di dipingere la Rivoluzione d’Ottobre come un evento catastrofico dettato esclusivamente dalla follia ideologica dei suoi protagonisti nega alla serie ogni parvenza di verisimilitudine storica.
Un elemento narrativo decisamente in controtendenza rispetto alle narrazioni dominanti della Russia odierna è invece la rappresentazione di Stalin. Mentre il leader georgiano è stato negli ultimi anni riabilitato e trasfigurato in vera e propria icona ortodossa, come mostra il bellissimo documentario di Jessica Gorter De rode ziel (2018), nella serie Iosif Vissarionovič Džugašvili è logorato da un potere che ancora non ha, ma che brama con famelica malvagità. Altro elemento di interesse è la rappresentazione tutto sommato accurata dell’antisemitismo dilagante che imperversava nella Russia prerivoluzionaria. Trotsky in quanto ebreo ne sapeva qualcosa, anche se come ripete a più riprese nella serie ogniqualvolta gli viene rinfacciata la sua identità: “nella società che verrà non ci saranno né classi, né razze”. Le cose non andarono esattamente così, e l’antisemitismo in Unione Sovietica non scomparve da un giorno all’altro (l’Unione Sovietica di Stalin fu il primo paese a riconoscere il neonato stato di Israele nel 1948). A questo proposito il biografo americano di Trotsky, Joshua Rubenstein, ha sottolineato l’insinuazione controversa e dai contorni vagamente antisemiti che la serie fa attribuendo al protagonista la decisione di giustiziare la famiglia Romanov. In realtà, ha dichiarato Rubenstein, la decisone fu presa da Lenin e Sverdlov e addossare la responsabilità dell’assassinio dello zar a un ebreo in un paese dove la chiesa ortodossa ha canonizzato l’intera famiglia Romanov come “portatori della passione” è quantomeno problematico. Non è l’unica “inesattezza” e le bufale storiche sono numerose. Basti qui riportare il pensiero filologico dei creatori della serie Aleksandr Kott e Konstantin Statskii, e dello sceneggiatore, Oleg Malovichko: “Trotsky era una rock star. Una rock star senza chitarra”. E questo spiegherebbe i toni da commedia adolescenziale di una serie tv sgraziatamente sospesa tra il revisionismo storico, il peplum porno propagandistico e l’action movie à la Chuck Norris.
Giovanni Vimercati
Ricercatore presso l’American University of Beirut, ha scritto di cinema e tv (spesso con lo pseudonimo Celluloid Liberation Front) per Variety, The Guardian, Sight & Sound, LA Review of Books, New Statesman, Indiewire, Filmidee, Huffington Post, Cinema Scope, Film Comment, The Independent e altri. Collabora come consulente per Camera CDI, società di distribuzione in ambito televisivo.
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