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Trasformarsi, cambiare tutto, uccidere i padri

Solo la serialità italiana degli ultimi dieci anni è riuscita a raccontare la fantasia definitiva per tutta una grande generazione: la possibilità di cambiare il Paese, di modificare una realtà troppo statica.

La grande storia che racconta la nuova serialità italiana, quella dal look e dalle aspirazioni internazionali che parte dal pubblico italiano ambendo a una platea più ampia, è quella della lotta per il cambiamento. A prescindere da quali siano l’ambientazione e la trama, ad animare le serie italiane più ambiziose (e poi di successo) è in tantissimi casi il racconto della trasformazione come qualcosa di doloroso, difficile, fallimentare, faticoso, battagliero e, soprattutto, fisico. La storia della nuova serialità tv italiana è spesso quella di un corpo che attraversa una mutazione per poi presentarsi cambiato fuori e dentro: entra in un modo e ne esce in un altro. È la dimostrazione più potente del desiderio che queste serie intercettano nel pubblico e che provano a sublimare raccontandolo: il desiderio di cambiamento. La fantasia escapista italiana definitiva: quella di un Paese che cambia, si rinnova, diventa il suo opposto.

Si parte davvero con Gomorra

È un argomento soprattutto per le serie da piattaforma e da satellite ma (come vedremo) quando anche i canali generalisti hanno cominciato ad ambire a prodotti internazionali non sono sfuggiti al turning point della trasformazione. Tutto parte dalla prima serie italiana a trovare un vero successo all’estero: Gomorra. La trasformazione di Genny, figlio bamboccione e viziato del boss che viene mandato in Honduras e torna killer senza pietà, passando dal timore di sparare fino alla cresta di capelli e all’occhio a mezz’asta, asciugato e ingrossato. È un turning point fondamentale per la prima stagione di Gomorra. Il racconto della lotta per il potere nella famiglia Savastano diventa anche generazionale e ne nasce uno dei migliori villain mai prodotti dalla serialità italiana.

Era il 2014 quando andava in onda per la prima volta. Stefano Sollima, che di quella serie era il regista, sette anni prima aveva cominciato a cambiare il linguaggio delle serie italiane (arrivando per primo a sfruttare la possibilità data da Sky di rivolgersi a un altro pubblico, più stretto e meno largo) con le due stagioni di Romanzo criminale. La serie, scritte da Daniele Cesarano, una produzione che teneva ancora qualche piede nel mondo tradizionale, e che sebbene non contaminasse il genere criminale con tutto ciò che serve ad allargare il pubblico fino a farlo diventare generalista (dal romantico all’impegnato fino al leggero) poteva permettersi di centrare benissimo un pubblico un po’ più stretto e soddisfarlo. Dall’altra parte però quello era un racconto tradizionale, la parabola storica della Banda della Magliana romanzata. 

Non c’era niente da trasformare perché la storia non era quella di un cambio ma, anzi, come nel coevo Boris, era proprio la storia di un tentativo di cambiamento frustrato. La banda della Magliana diventa l’organizzazione criminale più potente di Roma ma alla fine soccombe ai poteri tradizionali (lo Stato, la Camorra), più forti di ogni nuova spinta giovanile. Così come Boris raccontava, in ognuna delle prime tre stagioni, il fatto che non sia possibile cambiare nulla in Italia, che le resistenze del sistema e proprio delle singole persone in ogni posto di lavoro (tutte ben identificate a livello generazionale) frustrano qualsiasi desiderio di migliorare. Ogni nuova serie “di qualità” tentata da René Ferretti finisce nel solito schifo e nella repressione dei desideri (lo stesso avverrà nel film che chiude quella prima vita di Boris).

Gomorra crea il piano regolatore per molto del futuro seriale italiano. Imposta non solo il look ma anche i temi (e in maniera più tecnica e industriale imposta anche workflow e modernizza le troupe), decidendo involontariamente che la nuova serialità italiana sarà soprattutto il racconto della lotta per il cambiamento di una generazione contro quella dei padri.

Nel 2014 lo scenario è un altro, anche perché ci sono state prima quelle due serie, e i racconti iniziano a cambiare. Gomorra crea il piano regolatore per molto del futuro seriale italiano. Imposta non solo il look ma anche i temi (e in maniera più tecnica e industriale imposta anche workflow e modernizza le troupe), decidendo involontariamente che la nuova serialità italiana sarà soprattutto il racconto della lotta per il cambiamento di una generazione contro quella dei padri. Ovviamente la trasformazione di un personaggio è un archetipo narrativo che si trova in moltissimi racconti, ed è frequente a prescindere da tendenze o sottotesti (Breaking Bad ne è l’esempio più grande), ma da nessuna parte la ricorrenza è così meccanica, da nessuna parte questa trasformazione passa sempre per il visivo, per una transizione tra look diversi di un medesimo attore o attrice o addirittura tra attore e attore.

Tensioni che si rappresentano

La grande tensione sociale emersa lungo tutti gli anni Dieci, quella tra la generazione dei figli che entrano nel mondo del lavoro e la generazione dei genitori accusati di aver creato le condizioni faticose che i primi incontrano se non proprio di non abbandonare i posti, è stata forse l’unica grande agitazione che andava davvero raccontata. Il cinema ha mancato grossolanamente quest’occasione, non vedendo come l’ondata della crisi economico-finanziaria avesse messo le generazioni le une contro le altre anche più di quanto non lo siano di solito, mentre la serialità che più parlava a quel pubblico (lavoratore, dotato di aspirazioni economiche, under 45) faceva a gara per rappresentare la rabbia.

Ci sembra pienamente formato Leonardo Notte, il pubblicitario interpretato da Stefano Accorsi in 1992 che guiderà le strategie di Forza Italia cambiando il paese, ma ben presto scopriamo che era molto diverso prima, nel passato, ed è dovuto cambiare, anche fisicamente, per non essere riconosciuto. Cambia fisicamente, perdendo un braccio, Anna, protagonista dell’omonima serie, bambina rimasta viva con altri bambini, in un mondo in cui tutti gli adulti sono morti. Si trasforma Ilia, interpretata da Marianna Fontana, la vestale di Romulus che diventa una guerriera, allenata, menata, umiliata e resa una macchina di morte, palestrata, in forma, con un altro taglio di capelli e tutto un altro sguardo: lei è parte della generazione di ragazzi che trasformerà il mondo fondando Roma.

Si trasformano in escort le liceali dei quartieri alti di Roma, per bene e pulite, di Baby, trovando in un altro trucco, altri abiti e altre acconciature un’altra identità per chi non ha nessun futuro se non quello fissato da famiglie assenti o ingombranti. Ma anche Dane DeHaan, uno dei due fratelli che deve prendere il testimone da un padre morto nel primo episodio di ZeroZeroZero, vuole cambiare a tutti i costi, diventare come Genny (il team di scrittura è lo stesso di Gomorra), prima che la scure del plot lo faccia fuori dalla storia. Sì trasforma da criminale a santo Christian, sul cui corpo compaiono i segni delle stimmate e addirittura cambia le persone intorno a lui, risveglia chi è in coma e toglie la dipendenza a una drogata, che per questo cambia fisicamente, perdendo i tratti distruttivi e assumendo connotati sani.

In anni in cui la serialità di maggiore successo della tv generalista continuava a raccontare la fissità delle strutture e dei personaggi, caratterizzati da una fedeltà incrollabile al proprio design e alla propria caratterizzazione lungo ogni episodio, custodi dell’equilibrio le cui avventure e i cui intrecci sono spesso mirati al mantenimento dell’ordine, a reprimere le devianze, curare le malattie e porsi come simbolo stesso delle istituzioni, tutte le produzioni che invece desideravano differenziarsi non potevano che inseguire il percorso opposto e pertanto raccontare gli eroi del cambiamento, quelli che non si arrendono e invece vogliono abbattere le vecchie strutture ed essere diversi.

La trasformazione della trasformazione

La trasformazione dei personaggi è stata tanto cruciale e così a lungo che anche una commedia tratta da una storia vera come Speravo de morì prima non ha resistito e nell’ultima puntata ha trasformato il suo protagonista, mostrando il passaggio dall’attore Pietro Castellitto al vero Francesco Totti. Alla stessa maniera, un prodotto Rai come L’amica geniale (di grande respiro internazionale, con una protagonista che vuole cambiare sia la propria condizione di donna in un mondo maschile, sia la sua posizione socio-economica) racconta i passaggi generazionali di una bambina, poi ragazza, poi donna napoletana lungo il Novecento e quando è stato il momento di cambiare per una seconda volta l’attrice protagonista, saltando non solo tra generazioni ma anche da un nome ignoto a un volto noto, ha usato espedienti ben evidenti per sottolineare la trasformazione da Margherita Mazzucco ad Alba Rohrwacher.

In anni in cui la serialità di maggiore successo della tv generalista continuava a raccontare la fissità delle strutture e dei personaggi, tutte le produzioni che invece desideravano differenziarsi non potevano che inseguire il percorso opposto e così raccontare gli eroi del cambiamento, quelli che non si arrendono e invece vogliono abbattere le vecchie strutture ed essere diversi.

A partire dal 2020, l’esplosione della produzione seriale in tutte le direzioni, soprattutto in quella degli ultimi arrivati, cioè i nuovi maggiorenni, il pubblico che prima non c’era, ha aperto un ventaglio di possibilità, esperimenti e tipi di racconto, diluendo la tensione generazionale come tema ricorrente e aumentando le storie teen (Zero, Luna Park, Skam Italia, Prisma). Che sembrano necessitare di altri temi. Addirittura quest’anno la quarta stagione di Boris ha posto se stessa come chiusura di un cerchio ideale, rifiutandosi di raccontare di nuovo l’impossibilità di cambiare, ma anzi mostrando non solo un progetto realmente innovativo di Ferretti che si concretizza, ma anche dichiarando esplicitamente, nel finale, che l’industria audiovisiva italiana, da sempre in Boris microcosmo del resto del paese, è cambiata (e grazie a Boris stesso, si intuisce).

Lo stesso le serie per quel segmento generazionale (ora più invecchiato) ancora nel 2022 non smettono di parlare di mutamento. Bang Bang Baby ha proposto con la protagonista Alice il tema trasformativo. Oggetto pop in mezzo a molti altri oggetti pop degli anni Ottanta milanesi, Alice è una liceale che scopre che il padre ritenuto morto è vivo, era (ed è) un gangster della ’ndrangheta, insieme a tutto quel lato della sua famiglia che non conosceva ma che ora è venuto a Milano. Per lui, per il padre perduto di cui è innamorata, diventa anche lei gangster, scoprendosi bravissima (come Genny) e mutando nel fisico, nel look, negli abiti e negli atteggiamenti. Nonostante la generazione che lamentava l’assenza di un cambiamento e vedeva di fronte a sé tutte le porte chiuse dalla precedente stia ora accedendo ai posti che desiderava, la narrazione non cambia. Già il trailer per The Bad Guy (la prima serie di due nuovi arrivati dell’industria italiana, Stasi e Fontana, 40 anni a testa) mostra Luigi Lo Cascio, magistrato incorruttibile ma incastrato e imprigionato dal crimine organizzato, costretto a compiere con la plastica facciale la stessa trasformazione del suo pubblico di riferimento: quella dal buono al cattivo della storia.


Gabriele Niola

Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.

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