Cosa vuol dire raccontare la realtà? Dove sta il labile confine tra verità e finzione? Un flusso di coscienza per tentare di capirci qualcosa: ma sarà vero?
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 19 - Gente dovunque del 12 novembre 2015
Il 15 maggio, il direttore di Link mi ha scritto una mail, chiedendomi di scrivere un articolo sulla sincerità, sul ritorno alla sincerità. Perché proprio oggi?, mi chiede, alla fine della mail. La tv della realtà degli anni Dieci si piega alle regole dello storytelling, scrive. Ma il patto non è narrativo, è referenziale. “Non occorre la sospensione della tua incredulità perché quello che ti sto raccontando è successo davvero”. Mi serve che tu mi dia un quadro generale, dice. Che ne pensi?
Io accetto di scrivere, pensando che ok, non mi è chiaro, ma ho un mese per mettere tutto assieme nella mia testa, e qualcosa spunterà fuori. Lavoro sempre così. Mi sembra di non riuscire a scrivere niente, e proprio quando sono sull’orlo della disperazione mi si coagulano due idee in testa che prendono la rincorsa e corrono e, niente, io ci vado dietro. Normalmente va così.
E invece, due mesi dopo, sono seduto in fondo al divano di casa mia, alle 10.36, con il laptop sulle gambe, o forse è sul tavolo, e sono seduto sul bordo del divano, ora non ricordo. Insomma, ho faticato moltissimo a capire come attaccare l’argomento. Mi pare che vogliano un pezzo pieno di riferimenti letterari e cinematografici e televisivi e personali e legati all’alto e al basso, e in questi mesi ho fatto la persona seria e ho studiato. Ho riletto Fame di realtà di David Shields e mi sono segnato la parte in cui dice: “La parola ‘realtà’, come scriveva Nabokov, è l’unica parola che non ha più senso se non la si mette in mezzo a due virgolette”.
Mi ha risposto che non crede che le cose possano piacerci "ironicamente", ma che le cose o ci piacciono o non ci piacciono, e basta.
Ho finito di leggere i romanzi di Ben Lerner, Un uomo di passaggio e Nel mondo a venire, il primo dei quali è stato scritto da Lerner, un poeta americano che ha passato un anno in residenza a Madrid, durante la sua residenza, e parla di un poeta americano che passa un anno in residenza a Madrid; e il secondo invece parla di uno scrittore che si chiama Ben Lerner che ha scritto un primo romanzo mentre stava in residenza in Spagna dal successo inaspettato e ora si accinge a scrivere un secondo romanzo e nel romanzo va fuori a cena con il suo agente dopo aver firmato il contratto del romanzo e parla con i suoi amici di cosa dovrebbe trattare questo fatidico secondo romanzo e di cosa tenere dentro o fuori da esso, e a un certo punto dice che dovrà per forza includere il racconto del New Yorker che ha convinto la casa editrice a offrirgli il contratto per il libro e ovviamente a metà libro c’è il racconto del New Yorker scritto dall’autore Ben Lerner che è anche il protagonista del romanzo di Ben Lerner. È meta-, è ironico, forse, ma è anche molto sincero. Nei miei appunti mi sono segnato questo: credibilità / incredulità / autenticità: come se per convincerci di essere davvero lui a scrivere il libro deve dirci che sta scrivendo il libro.
Poi ho pensato che potevo scrivere questo articolo su Adventure Time, che è, ora come ora, la mia cosa preferita da guardare, una serie di animazione davvero incredibile dal punto di vista del world-building, dal sapore iper-fantasy e fantascientifica ma anche molto sincera, sebbene poi sia un costante cut-and-paste culturale, la serie che secondo me meglio incarna lo spirito “ironicamente sincero” della new sincerity, che è un movimento filosofico e/o artistico tra il serio e il faceto in risposta alla “dilagante” ironia dei primi anni Zero, movimento di cui mi ha parlato anche il direttore di Link. Perfetto, ho pensato. Quindi ho letto un articolo su The Awl di quasi settantamila battute dal meraviglioso titolo “The Hole Near The Center Of The World” – ma proprio in questo momento è saltato il tasto con la lettera “e” sul mio laptop, e ho provato a riattaccarlo, ma non riesco, e quindi ora per scrivere la lettera “e” devo schiacciare un micro-tastino bianco che sta sotto al tasto normale e nero della tastiera del mio vecchio MacBook – e (ho dovuto schiacciarlo due volte per far uscire questa “e”) mi sono segnato la seguente citazione di Finn, il ragazzino umano che è l’ultimo umano rimasto sulla terra, il protagonista della serie: “Imagination is for turbo-nerds who can’t handle how kick-butt reality is!”.
Poi ho pensato che potevo fare anche io un lavoro di cut-and-paste culturale e ho pensato di parlare anche di The Wire di Hbo, ormai unanimemente considerata la più grande serie televisiva drammatica della storia della televisione, serie che parla del disfacimento del tessuto urbano di Baltimora, di poliziotti e spacciatori e insegnanti e politici corrotti e giornalisti ed è stata scritta e creata da David Simon e da Ed Burns, un ex-giornalista di nera di Baltimora il primo ed ex-poliziotto ed ex-insegnante di Baltimora il secondo, e di quanto la serie sia stata celebrata per il suo “realismo”, concetto attribuitole, oltre che per l’evidente tentativo di esserlo, anche perché i suoi due creatori “conoscono davvero quella realtà”, si leggeva in giro. Mi sono chiesto se avremmo comunque considerato The Wire “realistica” se fosse stata scritta da due scrittori. Ho pensato di scrivere tutto questo articolo sulla tensione tra realismo e finzione esemplificata dal fantasmagorico successo di critica di The Wire, paragonato invece, per dire, a Ghost Hunters, che è un reality ed è tecnicamente “vero”, ma è un reality che parla di gente che va in giro a cacciare i fantasmi, ed è fintissimo. Poi ho pensato a The Corner, una miniserie sempre di Hbo, sempre creata da Simon e Burns, nel formato del mockumentary, girata su un angolo di strada di Baltimora usando un mix di attori e veri residenti del quartiere. Ho pensato che paragonare The Corner a The Wire sarebbe interessante, ma poi ho cancellato quello che avevo scritto. Non mi sembrava in linea con quello che mi hanno chiesto da Link.
Però ho anche pensato che magari era il caso di mettere nell’articolo anche delle storie più personali, e ho pensato a tutte le volte che mi sono scontrato con queste parole che mi fanno venire il mal di testa, come “ironia” e “sincerità” e “autenticità” e di come l’autenticità sia uno strumento di marketing e di come quindi l’unica difesa è l’ironia ma anche lei è uno strumento di marketing e quindi possiamo solo mettere tutto quello che diciamo in mezzo alle “virgolette” ironiche, e ho pensato a quel giorno a Londra undici anni fa quando la mia amica Samantha mi ha mostrato il suo tatuaggio di Kero Kero Keroppi, il personaggio ranocchio della Sanrio, e le ho chiesto se era un tatuaggio ironico, se Kero Kero Keroppi le piacesse “ironicamente” oppure se le piacesse “davvero” e lei mi ha risposto che non crede che le cose possano piacerci “ironicamente”, ma che le cose o ci piacciono o non ci piacciono, e basta. E che la stessa cosa me l’aveva detta Ken, un mio amico che girava con un portachiavi dei 5IVE e che suonava in un gruppo punk. E mentre scrivo queste frasi sono le 12.13 di notte e i due caffè che ho bevuto a stomaco vuoto iniziano a farmi venire un po’ di bruciore alla pancia e quindi mi prendo una pausa e vado in cucina e mangio due fichi abruzzesi che ho comprato questa sera all’Unes e una busta da 50g di anacardi tostati e salati che ha lasciato qui una mia amica settimana scorsa.
In cucina penso a Emily Segal, l’attuale direttrice artistica di Genius.com, che ho conosciuto qualche anno fa a New York, quando era ancora occupata a tempo pressoché pieno da K-Hole, un progetto di “trend forecasting” noto principalmente per aver coniato lo stra-abusato termine “normcore”, e che ha collaborato con ogni istituzione d’arte di New York. Sul loro sito c’è una lista intitolata “Persone famose che hanno parlato del nostro lavoro” e la lista è la seguente:
Karl Lagerfeld
Pharrell
William Gibson
Jerry Seinfeld
Stephen Colbert
Alexa Chung
Diplo
Michael Kors
Courtney Love
Katy Perry
Joss Whedon
Alla quale andrebbe aggiunta anche una voce che recita “E tutti i giornalisti del mondo”. Emily mi sembra la persona giusta con cui parlare del mal di testa che provo quando sento sia Barbara D’Urso sia Walter Benjamin usare la parola “verità”.
Scrivo a Emily su Facebook, e le dico che mi sta scoppiando la testa perché non so cosa fare con questo articolo che dovevo consegnare due mesi fa e ora sono a casa sul divano e le gatte mi chiedono le carezze ed è quasi l’una e l’ho scritto e riscritto già quattro volte, e il direttore di Link mi ammazza se non glielo mando domani, e mi serve il suo aiuto e lei mi dice “Questo è il messaggio su Facebook più stressante che abbia mai ricevuto” e poi mi manda un’emoticon sorridente. Le chiedo scusa e lei mi chiede di cosa parla l’articolo e io le rispondo “Della morte dell’ironia, ma mi pare che l’ironia muoia ogni due anni”, e lei dice “Il corso più complesso che ho seguito all’università si chiamava Irony”. Mi dice che può parlare tra cinque minuti. Ci sentiamo su Skype.
– Ho pensato che al posto di scrivere qualcosa che parla di sincerità, potrei semplicemente scrivere un articolo sincero.
– Oh, ok. Interessante.
– Quindi potrei scrivere un articolo che inizia con me che dico che il direttore di questa rivista mi ha chiesto questo articolo che mi ha messo in difficoltà e non sapevo come farlo, e poi praticamente potrei descrivere sinceramente tutti i miei processi mentali e tutto quello che ho attraversato cercando di scriverlo.
– Ah! E quindi potresti metterci questa conversazione? Ma cos’è che ti mette in difficoltà?
– È che non so come affrontarlo. Non voglio fare un trattato personale su come sia finita l’ironia e sia finita la sperimentazione e il distacco, perché non penso sia vero, ma non voglio nemmeno fare una lista di prodotti culturali che ballano sul confine tra realtà e finzione o sulla consapevolezza della finzione o della presupposta realtà, e sul boom dei documentari auto-referenziali tipo, che ne so, The Act of Killing.
– Ovvio.
– Mi sembra che da quando abbiamo inventato l’ironia c’è qualcuno che dice che l’ironia sia morta. E poi c’è la morte degli hipster e poi devi definire cos’è un hipster e devi tirare in ballo la conferenza del 2009 di n+1 su What Was the Hipster?, e io proprio non ce la faccio.
– Sono d’accordo. Dopo l’11 settembre in America non si parlava d’altro che della morte dell’ironia e subito dopo c’è stata l’esplosione del primo Vice, quindi vedi tu.
– Non penso che quello che sta succedendo nei media oggi abbia a che fare con la sincerità di per sé. Penso che come cultura abbiamo fatto talmente tanti giri di campo attorno all’ironia e al distacco e alla sincerità e all’onestà intellettuale e poi all’ironia sincera e alla sincerità ironica che ormai sono parole prive di significato. Cioè alla fine rimangono cose che sono o belle o brutte.
– Ok, Fammi pensare. Ah! Devo mandarti un po’ di articoli di Venkatesh Rao. È un ex-ingegnere aero-spaziale e blogger e rogue consultant e ha un blog che si chiama Ribbon Farm che è stato molto importante per me. Ha scritto un articolo che si chiama “Soon, We Will All Be Hipsters” per Forbes nel 2012 che ho citato per tipo due anni. Dice essenzialmente che l’ironia e l’umorismo sono sempre stati strumenti che la cultura ha usato per affrontare creativamente realtà contraddittorie. E che quindi per essere sinceri nella realtà di oggi dobbiamo avere un approccio ironico.
– Ti ricordi di Keaton Ventura, no?
– È il mio ex-ragazzo, Tim.
– Già, scusa. Mi ricordo che era ossessionato con l’idea che ci sarebbe stato uno studio che avrebbe, a breve, fatto il film di Angry Birds. E la cosa lo disgustava e lo divertiva allo stesso tempo, ma il suo modo di esprimerlo era di pensare al marketing del film, voleva fare una campagna di hashtag per promuoverlo e fare degli sticker per i parafanghi delle auto con scritto “Angry Birds The Movie: I Believe”, e ogni volta che ne parlava sorrideva come uno scemo.
– Penso che Keaton abbia un modo tutto suo di avere a che fare con queste cose. Ma è interessante che l’umorismo vada in questa direzione. Però… forse non è umorismo. Penso che Keaton sia sinceramente entusiasta dell’idea che quel film possa esistere, un giorno. È proprio l’assurdità di quel film che diventa reale a divertirlo. E pensare che quello sia “ironico” è un atteggiamento molto vecchio, pensare che un giornalista intellettuale che scrive di cinema non possa essere sinceramente emozionato dall’idea di un film su Angry Birds, che debba essere “ironico” per forza. È un modo di pensare che non appartiene alla mia generazione, penso.
– Se ragioni così è come pensare che ogni cosa sia una reazione a un’altra cosa, e questo modo di vedere le cose come azioni e reazioni è a sua volta una narrazione arbitraria e imposta dall’osservatore. Nulla è mai così lineare.
– Con il concetto di normcore – la nostra versione, non quella dell’hashtag successivo – volevamo proprio abbattere quest’idea del ciclo di azione e reazione, unire in un concetto la contraddizione intrinseca in tutto. Vero/finto. Autentico/artificiale. Genuino/costruito.
– Ma poi quella stessa parola è entrata nel ciclo di hype e di stroncatura ciclica, è stata usata sinceramente e poi ironicamente.
– Sì.
– E quindi non se ne può fuggire.
– No.
– È per questo che volevo parlare con te. Perché è iniziata come una cosa, e poi è diventata un milione di altre cose, è stata interpretata in mille modi. Modi che non erano quelli che intendevate voi inizialmente.
– Beh, c’era un articolo su Gawker titolato, “Obama è troppo normcore per battere Putin?”.
– Appunto!
– C’è un bellissimo libro di Alex Shakar, The Savage Girl, che parla di trend forecasting, in cui l’autore spiega il concetto di paradessence, l’essenza paradossale, come forza motrice di tutto il marketing, che è l’abbattimento delle contraddizioni, il concetto, per fare un esempio, che il caffè sia stimolante e rilassante allo stesso tempo. E il normcore era quello: norm-, cioè massa, cioè normale, e -core, cioè di nicchia. E far convivere i due concetti doveva, nella sua intenzione originale, essere, appunto, paradossale.
– Quindi le cose oggi, in un mondo tutto definito dal marketing, sono tutte essenzialmente paradossali. Sono ironiche e sincere, artificiali e autentiche. Se la realtà non ha senso se non la mettiamo in mezzo a virgolette, allora stiamo applicando un filtro ironico e distaccato al concetto stesso di realtà. E quindi non vale niente.
– È che in due secondi finisci a parlare di concetti immensi come “realtà” e “verità”. Ma quell’instabilità secondo me è la cosa che rende interessante oggi il mondo della cultura pop.
– E poi devi mettere anche quei concetti tra virgolette.
– Ahah. Spero davvero che non metterai ogni parola del tuo articolo tra virgolette.
E poi ho riso e l’ho salutata. E l’unica cosa che devi fare tu, lettore, è fidarti che tutto quello che ho scritto qui sopra è successo davvero. Anche se così non fosse.
Tim Small
È stato direttore di Vice Italia dal 2005 al 2012. Co-fondatore de L’Ultimo Uomo e fondatore e direttore di Prismo, ha scritto per numerose riviste e ha diretto e prodotto video e documentari.
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