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Pono e Tidal sono falliti nel giro di tre anni. Un flop fragoroso, che però ci svela le lacune dei vincitori, Apple e Spotify, e i motivi per cui anche il loro modello potrebbe non essere sostenibile.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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Di qui a qualche mese cadranno i vent’anni dal giorno in cui Napster dimostrò che era possibile mettere in circolo la musica facendo a meno di dischi, esercizi commerciali e canali di distribuzione istituzionali. Vent’anni che, se si guarda a come ascoltiamo musica oggi, paiono un secolo. I dischi (con la parziale eccezione del redivivo vinile) non torneranno, molti negozi che li vendevano hanno chiuso i battenti da un pezzo, ma gli allarmi sulla rete che avrebbe distrutto l’industria culturale sembrano essersi placati. Forse ha aiutato il provvidenziale arrivo di servizi per lo streaming e il download ad abbonamento, dove i brani si ascoltano con il beneplacito di chi ne detiene i diritti. 

Molti tra noi si sono risolti a pagare una cifra per ciò che, fino a non molti anni fa, sapevano di poter ottenere gratis e, con buona pace dei romanticismi, siamo tutti un po’ meno “pirati”, pronti anzi a riconoscere che chi detta legge in quel far west che fu la musica digitale ai tempi del p2p offre un buon servizio in cambio di un prezzo tutto sommato ragionevole. Apple e Spotify (per non citare che i maggiori protagonisti del nuovo ordine) sono “sceriffi” con un’aria assai più comprensiva rispetto a quelli che, non appena ci azzardavamo a riversare dei file su un cd vergine, ci davano dei ladri e minacciavano fior di multe. Rispetto ai toni chiassosi delle campagne antipirateria, oggi viviamo in tempi (sospettosamente) silenziosi.

Tentativi di una controrivoluzione digitale

A guastare la festa sono due teste di serie del calibro di Neil Young e Jay Z. Il settantaduenne canadese e il rapper di New York hanno poco a che spartire l’uno con l’altro se non una radicata diffidenza verso l’establishment dell’industria musicale, testimoniata dai diversi episodi riottosi che hanno costellato la carriera discografica del primo e dall’orgoglio per l’autoproduzione che il secondo eredita dalla stirpe hip-hop della East Coast. Diffidenza rinnovata in tempi recenti, quando entrambi hanno tentato un attacco alla diligenza delle grandi piattaforme digitali. Nel 2015 i due musicisti si fanno promotori rispettivamente di PonoMusic e Tidal. Il primo si presenta come un “movimento per salvare la musica dai formati compressi”, e offre un ecosistema comprensivo di piattaforma per il download di file ad alta qualità e un lettore digitale dalla singolare forma prismatica “a toblerone”. Un’ideale alternativa all’iPod e a iTunes sponsorizzata da una campagna di crowdfunding da 6.2 milioni e guidata personalmente dal veterano della canzone d’autore, protagonista di un lancio decisamente retrò. A spasso sulla sua Cadillac, Young carica a bordo colleghi e amici per offrire un ascolto di Respect di Aretha Franklin o della sua There’s a World in versione Pono. Siede accanto a lui gente come Elvis Costello, David Crosby, James Taylor, Tom Petty, Dave Matthews… non esattamente giovani di primo pelo, ma proprio per questo credibili quando si tratta di far subodorare a quell’ascoltatore che si è formato in altri tempi e con altre tecnologie un’imminente restaurazione dell’“esperienza-vinile”. 

Tidal, invece, è un servizio di streaming audio e video originariamente lanciato dalla compagnia svedese Aspiro e poi rilevato dalla statunitense Project Panther Bidco per una somma che, secondo quanto riportato dal New York Times, ammonta a 56 milioni di dollari. La sigla fa parte dell’impero imprenditoriale che cura gli interessi di Jay Z, deciso a rimettere il gioco dello streaming nelle mani dei musicisti puntando, oltre che sulla qualità loseless dell’audio, sull’esclusività dei contenuti. A firmare il contratto da azionisti e comproprietari figurano, tra gli altri, Alicia Keys, Kanye West, Jack White, Coldplay, Madonna, Nick Minaji, deadmau5 e i Daft Punk. Una sorta di incontro al vertice delle classifiche mondiali chiamato alla necessità di “prendere posizione” con un’operazione che, dicevano, “cambierà il corso della storia”.

Non andrà esattamente così. I nomi altisonanti coinvolti da ambo le parti riescono nell’intento di richiamare l’attenzione della stampa internazionale, di lì in poi puntualissima nell’annotare i passi falsi che costellano la breve vita dei due progetti. Tanto breve che già possiamo permetterci di mandare avanti veloce fino agli ingloriosi epiloghi: già a fine del 2017 Neil Young annunciava pubblicamente che l’ecosistema Pono “se n’era andato”. Colpa dei discografici che hanno preteso di far pagare un sovrapprezzo le versioni ad alta risoluzione dei brani, restringendo sensibilmente la platea di possibili utenti; colpa anche di Apple, che al possibile rivale hi-fi ha risposto “mangiandosi” la Omnifone, la società che aveva collaborato alla realizzazione della piattaforma. Young non si arrende e sta già rodando sul proprio archivio personale un servizio ad alta risoluzione chiamato Xstream, ma si tratta per l’appunto di streaming: chi aveva sostenuto la campagna di finanziamento può già rassegnarsi a riporre il proprio “toblerone” nel cassetto. 

Ancora peggio è finita con Tidal, che gli ultimi aggiornamenti riportano al centro di un’inchiesta del giornale norvegese Dagens Næringsliv. L’accusa lanciata dalla testata finanziaria è di aver falsificato i numeri di riproduzioni: gli ascolti totali riportati dalla società alle case discografiche presupporrebbero che alcuni utenti avessero ascoltato lo stesso brano da 150 volte in due settimane a 50 in un giorno solo. Cifre abbastanza inverosimili da far ipotizzare una manipolazione dei dati, che secondo l’inchiesta avrebbe avuto come secondo e poco nobile fine quello di “dopare” le royalties che spettavano a Beyoncé e Kanye West per i loro ultimi lavori. L’ipotesi è stata prontamente rispedita al mittente dai legali di Tidal, ma per un progetto che si era presentato con l’intenzione di “restituire la musica ai musicisti” anche il solo sospetto di aver favorito due soci – una dei quali, per giunta, sposata con l’amministratore – a discapito degli altri può essere fatale.

Loseless? Le ragioni di una sconfitta

Al netto di sventure e accuse di brogli, quello delle due piattaforme è un fallimento largamente annunciato. Già in tempi non sospetti, numerosi commentatori si erano presi la briga di giudicare nel merito quanto offerto da Pono e Tidal ponendosi sempre la stessa domanda: Is It Worth It?, ne vale la pena? Una domanda che in genere allude a questioni di portafoglio. Vale la pena pagare la bellezza di 20 dollari per scaricare un disco in alta definizione se iTunes lo rende disponibile alla metà? E perché mai sborsare 19 euro e 90 al mese per un abbonamento quando Spotify ne costa 10 di meno e si concede pure in versione freeware? Di fronte a un conto tanto salato, è naturale che i punti forti che dovrebbero distinguere i due progetti dalla concorrenza siano sottoposti a un severo controllo. David Pogue di Yahoo Tech ha preso alla lettera lo slogan di Pono, “You’ll Hear the Difference” e ha sottoposto a un campione di ascoltatori di diverse età a una sessione “cieca”, chiedendo loro di indicare la migliore tra le due versioni di uno stesso brano. La maggior parte dei coinvolti ha dichiarato di non percepire alcuno scarto o (inconsapevolmente) optato per quella sentita da iPhone. Sentire la differenza, ammesso che esista, è un affare dispendioso, se lo si estende a tutta l’attrezzatura che servirebbe per rendere giustizia un lettore portatile come il Pono – dalle casse dell’auto a quelle dello stereo – può divenire un vero e proprio bene di lusso. Roba per pochi eletti insomma.

Già in tempi non sospetti, numerosi commentatori si erano presi la briga di giudicare nel merito quanto offerto da Pono e Tidal ponendosi sempre la stessa domanda: Is It Worth It?, ne vale la pena? Una domanda che in genere allude a questioni di portafoglio. Vale la pena pagare la bellezza di 20 dollari per scaricare un disco in alta definizione se iTunes lo rende disponibile alla metà? E perché mai sborsare 19 euro e 90 al mese per un abbonamento quando Spotify ne costa 10 di meno e si concede pure in versione freeware?

La stessa impressione elitaria traspare dalla campagna promozionale di Tidal, in cui l’accolita di superstar radunata da Jay Z in una lussuosa hall di Manhattan brinda con calici di champagne alla “rivoluzione” (cit. Beyoncé) prossima ventura. A onor del vero, le dichiarazioni rilasciate dal rapper a Billboard rivendicavano una retribuzione più equa per di tutte le professionalità coinvolte nella filiera produttiva, dall’autore al tecnico di studio. Che però a partecipare alla proprietà dell’azienda siano di fatto i soli musicisti multimilionari di cui sopra presta il fianco a facili critiche. Come nota Eric Harvey della Weber State University, non si tratta soltanto di volti riconoscibili buoni per fare da testimonial ma di imprenditori e titolari di società che gestiscono i proventi della loro arte – un campionato del tutto diverso da quello in cui gioca chi suona o compone sotto contratto per una casa discografica, magari indipendente. Questa “rivoluzione” assomiglia a uno di quei summit internazionali dove l’un per cento di privilegiati si arroga il diritto di scegliere per il restante novantanove. Di nuovo, roba per pochi eletti. “Mascherare un servizio a scopo di lucro per un movimento sociale a favore degli artisti è ridicolo”, ribadisce Xiomara Blanco su Cnet, per poi chiosare che “dopotutto sono una consumatrice, non una filantropa e tutto quello che chiedo è che il servizio per cui pago risponda alle mie necessità”. 

For What is Worth. Le ragioni degli sconfitti

Vista superficialmente, la sfida di Pono e Tidal sembra servita soltanto a evidenziare la forza dei loro rivali. Se ciò che deve fare un servizio è “rispondere alle necessità” del consumatore pagante, come pare postulare Blanco, allora chi può dire di farlo meglio di Spotify e Apple che le nostre necessità non solo le conoscono a memoria ma addirittura imparano ad anticiparle? Gli algoritmi degli automatic recommendation system che compongono playlist con i nostri pezzi preferiti pescano da un database di altri milioni di utenti e altrettanti comportamenti di consumo, adeguatamente tracciati. È un’economia fatta di informazioni il cui valore complessivo non dipende necessariamente dalle cifre che decidiamo di sborsare: quando un dato diventa tanto più prezioso quanto più è messo in relazione ad altri, che a fornirlo sia un utente regolarmente abbonato o meno ha un’importanza relativa. La ragione per cui le due piattaforme più popolari sembrano attentare meno ai nostri risparmi e prestare più attenzione alle nostre esigenze è perché proprio su queste si impernia il loro modello di business. Non è necessario essere filantropi, vero, ma se per caso lo fossimo è probabile che i software in questione verrebbero a saperlo e saprebbero pure fornirci una colonna sonora appropriata alla nostra buona causa…

Il prezzo da pagare però va oltre le nostre finanze e, se è per questo, anche oltre le questioni di riservatezza. Proviamo a pensare cosa accadrebbe se, tirate le somme, Apple e Spotify facessero con i dati che forniamo loro un calcolo di mera convenienza economica come quello che molti utenti hanno fatto con i loro rivali. Secondo i report relativi all’anno scorso pubblicati su BuzzAngle, di 377 miliardi di riproduzioni da piattaforme di streaming nel mondo il 99% è dedicato a un decimo dei brani su catalogo. Ne consegue che la stragrande maggioranza della musica che si trova online occupa un misero 1% dei nostri ascolti. Ora, se anche questo uno per cento fosse ritenuto appannaggio di una minoranza elitaria, e come tale trascurabile, la nostra collezione digitale sarebbe letteralmente decimata. Per Damon Krukowski è solo questione di tempo: l’ex batterista del gruppo indie rock Galaxie 500 non entrerà mai nella lista di invitati ai party “rivoluzionari” di Jay Z, ma ha le sue buone ragioni per opporsi ai giganti del download e dello streaming. Attraverso una serie di articoli per Pitchfork e un volume di recente pubblicazione intitolato The New Analog (New Press, 2017) ha mosso alcune significative accuse a come i “nuovi intermediari” della musica digitale trattano i dati. Per esempio al modo in cui, rispetto alla quantità di informazioni che ci chiedono, sono incredibilmente tirchi quando si tratta di darcene qualcuna in cambio, magari su chi ha suonato sulla traccia che stiamo ascoltando o sul modo in cui questa traccia avrebbe dovuto suonare. La definizione dell’audio e quei “crediti da copertina” che, ai tempi del vinile o del cd, servivano ad attestare i nomi di tecnici, turnisti, produttori che avevano contribuito a realizzare il disco rientrano nel novero dei dati che le piattaforme possono omettere perché non strettamente funzionali ai propri interessi. 

Vista superficialmente, la sfida di Pono e Tidal sembra servita soltanto a evidenziare la forza dei loro rivali. Se ciò che deve fare un servizio è “rispondere alle necessità” del consumatore pagante, allora chi può dire di farlo meglio di Spotify e Apple che le nostre necessità non solo le conoscono a memoria ma addirittura imparano ad anticiparle?

L’attacco alla diligenza è fallito per colpa di armi spuntate e per le leggerezze di chi l’ha guidato, ma non si può dire i progetti di Neil Young e Jay Z avessero sbagliato mira: qualità del suono e distribuzione delle royalties possono anche interessare poco al fruitore medio, ma costituiscono un campo cruciale su cui i servizi di musica digitale esercitano il proprio controllo e quindi, a lungo andare, anche la stabilità del proprio potere. Decidendo a priori quali parti di un dato brano possono essere sacrificate nella compressione e quali dei nomi che hanno contribuito alla realizzazione saranno accreditati, decidono di fatto che cosa ascolteremo e non ascolteremo e quali informazioni avremo o non avremo. Microfonisti e addetti al mixer non hanno speranza di sopravvivere alla selezione, ma pure gli interpreti e gli autori riconosciuti di quel 90% di brani che costituiscono l’1% delle riproduzioni totali non se la passano benissimo: lo stesso autore di The New Analog aveva già denunciato nel 2012 che la cifra corrispostagli per 5.960 riproduzioni di un brano tra i più noti dei suoi Galaxie 500 ammontava a un totale di 1,5 dollari. Per restare nel gioco delle previsioni, un domani potrebbe essere l’artista in controllo delle proprie creazioni a chiedersi se a queste condizioni contrattuali valga la pena mettere il suo repertorio nelle mani delle grandi aziende: dalla risposta dipenderanno le sorti della nostra collezione digitale.

Da quando Napster e simili hanno fatto scivolare dalle mani delle case discografiche il loro bene primario, tre interrogativi cruciali hanno tormentato i professionisti del settore: come si sarebbe ascoltata la musica in futuro, come sarebbero stati retribuiti i professionisti e se qualcuno sarebbe stato ancora disposto a pagare per la musica su internet. iTunes e Spotify sembrano aver trovato una soluzione soprattutto all’ultimo punto, rialimentando un fatturato ridotto ai minimi storici attraverso un grado di intermediazione prima inesistente. Gli altri due nodi restano ancora da sciogliere e in questo anche i tentativi maldestri di Pono e Tidal sono stati significativi per il modo in cui hanno tentato di ricalibrare gli equilibri tra le parti. Non avranno saputo darci sufficienti ragioni per cambiare le nostre abitudini di consumatori, ma se il modello dei vincitori si rivelasse poco sostenibile sulla lunga durata, saremmo costretti a cambiarle ugualmente. È di nuovo Damon Krukowski a fare appello alla coscienza e alla responsabilità degli ascoltatori: “Se quello che volete sono i grandi nomi che queste corporation possono sostenere, i soldi per il vostro abbonamento sono ben spesi. Ma se usate lo streaming per ascoltare qualsiasi cosa che non rientri nel percentile delle tracce più suonate, allora ciò che pagate non servirà a sostenere la musica che vi piace […]. Quando il valore che conferiamo alla musica si perde in un modello su grande scala, conviene cercare un’altra via per ottenere ciò che vogliamo”. Anche per chi non è audiofilo o non fa la popstar a capo di un’impresa, provare a immaginare un modello alternativo per la musica digitale resta qualcosa che vale la pena di fare.


Simone Dotto

È assegnista di ricerca post-doc presso l’Università di Udine, dove insegna Storia e tecnica della televisione e dei nuovi media al corso di laurea triennale in DAMS. Ha collaborato per testate culturali, cinematografiche e musicali (Alias, Segnocinema, Il mucchio, Sentireascoltare) ed è autore di saggi e curatele sulla teoria e la storia del cinema, dei media sonori e delle culture dell’ascolto.

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