A vent’anni di distanza da The Wire, i due autori della serie ritornano a Baltimora con We Own This City. A segnare il tempo che passa, ma anche una continuità profonda di sguardo.
Due dei più rilevanti autori di serie tv degli ultimi vent’anni, David Simon (nato nel 1960) e George Pelecanos (nato nel 1957), in questo 2022 sono tornati ufficialmente a collaborare. L’uscita, la scorsa primavera, di We Own This City, miniserie Hbo di una stagione, ha fatto seguito alle quattro stagioni di Treme (2010-2013), alle tre di The Deuce (2017-2019) e, soprattutto, ha segnato il ritorno dei due a Baltimora vent’anni dopo la prima collaborazione, The Wire, composta da cinque stagioni. Osservando in superficie questo percorso congiunto, il primo dato a emergere è una progressiva tensione verso la sintesi narrativa. È indicativo, per esempio, il diverso trattamento del tempo in The Deuce e in We Own This City: nel primo caso le tre stagioni si svolgono rispettivamente nel 1971, nel 1977 e nel 1984 e, nonostante le ellissi lascino allo spettatore alcune deduzioni, c’è una linearità temporale e un racconto sviluppato in venticinque episodi; nel secondo caso ci sono continui flashback che spostano la messa in scena tra il 2003 e il 2017 e tutto è concentrato in appena sei puntate. Questa tendenza ha influito anche sulla scrittura, e soprattutto dal raffronto tra la prima e l’ultima collaborazione tra i due emergono i punti fermi e i cambiamenti nel loro stile.
Percorsi paralleli
Se Treme – inedita in Italia – è ambientata a New Orleans durante la ricostruzione seguita all’uragano Katrina, e The Deuce introduce al mondo della prostituzione e della pornografia nella New York notturna degli anni Settanta e Ottanta, We Own This City si concentra sulla corruzione morale e materiale dei poliziotti di Baltimora e il parallelo con The Wire è immediato. Quest’ultima, uscita nel 2002, per quanto non abbia ottenuto grandi riscontri di pubblico (negli anni, la sua fama è cresciuta), è considerata quasi all’unanimità dalla critica una delle serie tv più importanti di sempre, soprattutto per come la sceneggiatura dà forma a un quadro sociopolitico articolato e, di fondo, ci sia un approccio realistico piuttosto credibile. The Wire ha preso forma dal lavoro giornalistico di Simon, nato a Washington D.C. ma diventato un baltimorean acquisito da quando, un anno prima di laurearsi, è entrato nella redazione del quotidiano Baltimore Sun, dove ha lavorato come reporter specializzato in cronaca nera per tredici anni, prendendosi due pause: nel 1988 per seguire dall’interno la squadra omicidi della polizia di Baltimora e nel 1993 per insediarsi, grazie a un tossicodipendente, nell’ambiente dello spaccio di droga dei quartieri più malfamati della città. Queste esperienze gli hanno permesso di scrivere due libri-reportage da cui sono state tratte altrettante serie tv: Homicide e The Corner. E poi The Wire ha rappresentato la summa di tutte queste esperienze. Anche Pelecanos, coinvolto per scrivere varie puntate di The Wire, è di Washington D.C. e nei suoi romanzi e racconti, quasi sempre a sfondo criminale, descrive la sua città minuziosamente e con passione, creando perfetti intrecci narrativi dominati da antieroi che faticano a stare in casa a causa di un’attrazione fatale per la strada. Come Simon, inoltre, nelle sue storie privilegia gli angoli meno in vista delle città.
The Wire è una serie corale in cui alle prospettive dei due schieramenti principali – poliziotti e spacciatori – si uniscono, stagione dopo stagione, quelle di altri ambienti e categorie (per esempio i politici locali e i portuali), mentre la sua discendente We Own This City presenta quasi esclusivamente il punto di vista degli agenti di polizia che pattugliano le strade e dell’Fbi che indaga su di loro. Nella serie madre, dunque, le ambientazioni nelle strade periferiche hanno un certo rilievo mentre nella seconda, vista la presenza molto ridotta degli spacciatori, prevalgono gli uffici istituzionali. Nonostante questa differenza, le primissime immagini di We Own This City mettono subito a proprio agio gli appassionati di The Wire. La scena iniziale mostra una via laterale della città in cui le erbacce e i rifiuti avanzano verso il centro della strada, delimitata da case abbandonate, e sembra di riconoscere uno scorcio di Broadway East o Greenmount West, i quartieri dove sono state girate molte scene di The Wire. Nella sigla, inoltre, che segue a questa scena, si alternano fermoimmagine di afroamericani immortalati in mezzo alle vie di questi quartieri, le stesse predilette dalla polizia per le ronde, e subito dopo sono mostrate le azioni, spesso violente, degli agenti e alcune scene delle manifestazioni di protesta seguite all’assoluzione dei poliziotti accusati dell’omicidio di Freddie Gray, venticinquenne afroamericano morto nel 2015 a causa delle ferite riportate durante la detenzione su un furgone della polizia. Questa reunion di Simon e Pelecanos, dunque, manda subito due messaggi: l’obiettivo indiretto è puntato sulla gente che frequenta le strade quotidianamente subendo le violenze di chi dovrebbe proteggerli; dal 2002 la situazione in città non è migliorata e, nonostante Broadway East e Greenmount West, come dicono vari servizi giornalistici degli ultimi anni, si stiano un po’ riqualificando, le criticità permangono eccome.
La città reale
Baltimora attualmente ha circa 560.000 abitanti, nel 1950 erano poco meno di 1 milione, poi sono calati progressivamente, soprattutto per la deindustrializzazione innescata da discusse politiche economiche. Il numero di omicidi annuali tra il 2000 e il 2014 (compresi gli anni di The Wire, quindi) si era assestato tra i 200 e i 280 circa, dal 2015 in poi invece è stabilmente sopra i 300. La città natale di Simon e Pelecanos, Washington D.C., distante appena 64 km, in qualche modo è una sorella maggiore un po’ meno “agitata”: ci vivono poco più di 700.000 persone e gli omicidi annuali difficilmente superano i 200. We Own This City è tratta dall’omonimo libro di Justin Fenton, altro reporter di lungo corso del Baltimore Sun, e i fatti raccontati sono davvero accaduti. Nel terzo episodio, un’agente Fbi, ascoltando l’intercettazione telefonica di un poliziotto sospettato di condotta criminale, fa un commento sarcastico: “La guerra alla droga giustifica tutto”, una battuta che fa capire come i collegamenti con The Wire vadano oltre l’ambientazione. L’approccio narrativo di Simon e Pelecanos, però, è ora più realistico.
The Wire è una serie corale in cui alle prospettive dei due schieramenti principali – poliziotti e spacciatori – si uniscono, stagione dopo stagione, quelle di altri ambienti e categorie (per esempio i politici locali e i portuali), mentre la sua discendente We Own This City presenta quasi esclusivamente il punto di vista degli agenti di polizia che pattugliano le strade e dell’Fbi che indaga su di loro.
Pelecanos, nel 2019, in un’intervista per il podcast The Crime Story, ha rivelato di aver scritto le “scene di morte di molti dei personaggi più amati” di The Wire compreso uno dei più suggestivi, Omar Little, a cui non ha voluto dare “una morte nobile o che lo mitizzasse”, perché era diventato un vero “eroe popolare” nonostante non fosse proprio un santo. In questi tipi di apporto si individua il suo tocco romanzesco ma, visto che un’altra caratteristica della sua penna, condivisa con Simon, è il legame molto forte con il territorio descritto, nei lavori congiunti alla fine ha sempre prevalso l’attaccamento alla realtà, vocazione di entrambi. In quest’ultima miniserie questo tratto predominante si è acuito.
Simon ha dichiarato più volte che, mentre dava forma a The Wire, uno dei suoi primi propositi era che la gente dei quartieri dov’è ambientata la serie trovasse familiari e credibili le vicende raccontate. Pelecanos, nel podcast prodotto da Hbo per i vent’anni della prima stagione, racconta come sia stato un valore aggiunto avere interagito con molte persone del posto durante le riprese: “Per girare andavamo nei quartieri e quando ci trovavamo là fuori, di notte, la gente del quartiere stava con noi, ci parlava e non li abbiamo mai dissuasi, ascoltavamo. Questo si riflette nella serie”. In un’altra dichiarazione fatta durante un’intervista data a Npr nel 2015, ha aggiunto: “Sono cresciuto a Washington, una città che, quand’ero bambino, era per il 75% nera. Mio padre aveva una tavola calda e io ero sempre in strada, a lavorare con la gente, a fare sport, cose del genere, e ascoltavo sempre. Molto di quello che faccio ora, quando dico che ‘faccio ricerca’, è solo stare là fuori nel mondo, ascoltare le persone e cercare di rispettarle quando arrivo al punto di metterle sulla pagina”. Infine, nel suo ultimo romanzo, L’uomo che amava i libri (edito in Italia da Sem), attraverso la descrizione del protagonista Phil Ornazian, detective privato che come lui ha origini greche, completa il concetto: “Conosceva tutte le strade meno trafficate e le scorciatoie, e non gli servivano né Waze né altre app. Aveva passato tutta la vita nel Distretto”.
Entrambi gli autori hanno la propensione a evitare la spettacolarizzazione di ambienti che hanno osservato dall’interno o da molto vicino per lunghi periodi. Per esempio, la scelta di andare a New York per The Deuce è nata quando hanno conosciuto la persona che ha ispirato il protagonista della serie, ossia il reale proprietario di un bar popolato da prostitute, magnaccia e malavitosi negli anni Settanta e Ottanta. Poi, sempre per non perdere credibilità, si sono fatti aiutare dal collega newyorchese Richard Price (1949) – autore di Clockers ma anche di un’altra delle serie più lodate degli ultimi anni, The Night Of (2016) – per la descrizione della città e delle sue atmosfere, così le concessioni più evidenti alla finzione arrivano nei momenti in cui i personaggi sono mostrati nella vita privata.
Senza sconti
La storia dello scandalo nella polizia di Baltimora raccontata in We Own This City descrive un meccanismo complesso che genera una violenza di sistema, ed è scritta con un approccio quasi processuale e dunque, in apparenza, con una marcata freddezza. Questa complessità, infatti, resta circoscritta all’azione di persone che rappresentano la legge descritte in modo essenziale, senza quelle deviazioni dai fatti che potrebbero dare loro attenuanti, tanto che lo spettatore non è affatto portato a empatizzare con loro. Anche per questo sono bastate sei puntate per presentare e risolvere le vicende. Nel racconto di The Wire, sviluppato in sessanta puntate e con il coinvolgimento di molte più figure sociali, la scrittura sconfina in misura maggiore rispetto a The Deuce nella sfera personale dei personaggi, di cui sono fondamentali anche i momenti di intimità e di svago, utili allo spettatore per seguire le vicende da angolazioni meno “tecniche”.
In quest’epoca storica in cui lo scetticismo nei confronti dell’informazione ha raggiunto livelli molto alti, il grado di adesione alla realtà di queste serie, tratte da lavori giornalistici o indagini minuziose, sembra davvero prezioso. L’ultima collaborazione tra i due autori dà l’impressione di tendere la mano proprio alle persone oggi più diffidenti verso le “narrazioni ufficiali”.
Vent’anni dopo, insomma, Simon e Pelecanos potrebbero aver individuato il problema più ingombrante di Baltimora, ossia l’azione criminale dei rappresentanti della legge, e hanno sceneggiato senza orpelli una vicenda emblematica insieme al loro team di scrittura (in cui figura anche l’ex detective Ed Burns, già in The Wire). In quest’epoca storica in cui lo scetticismo nei confronti dell’informazione ha raggiunto livelli molto alti, il grado di adesione alla realtà di queste serie, tratte da lavori giornalistici o indagini minuziose, sembra davvero prezioso. L’ultima collaborazione tra i due autori dà l’impressione di tendere la mano proprio alle persone oggi più diffidenti verso le “narrazioni ufficiali”, la gente dei quartieri, vittima di ingiustizie solo perché esiste, come dice un personaggio, ex poliziotto coscienzioso. In questa intenzione si possono distinguere le mani dei due autori. Simon, da giornalista, in The Wire ha messo in discussione la deontologia della sua prima professione e ancora oggi non riesce a distaccarsi dalla sua passione per l’informazione, in un approccio alla finzione che si concentra sempre più sui fatti. Pelecanos nei suoi romanzi e racconti elegge spesso le vie laterali a strade tragicamente senza uscita: anche se in We Own This City si vedono molti uffici, l’ambientazione più rappresentativa resta quella del vicolo, dove si muore, si subisce una violenza o comunque si corre un grande pericolo, i soli momenti della serie in cui lo spettatore non può che sentirsi vicino ai personaggi, alle vittime.
Nel 2017 Simon aveva preannunciato questa direzione: “Il primo compito non è massimizzare la storia di tutti i nostri personaggi ma massimizzare la storia che raccontiamo”. Difficile prevedere se questo stile più asciutto proseguirà nei prossimi lavori di Simon e Pelecanos. Per ora, di certo, è un modo per dare una nuova fine alla storia del lato oscuro di Baltimora, quella per cui saranno sempre ricordati.
Luca Gricinella
Ha scritto due saggi per Agenzia X: il primo, Rapropos (2012), esplora il legame tra la società francese e il rap, il secondo, Cinema in rima (2013), ripercorre la storia della presenza dell'hip hop nei film, con qualche accenno alle prime serie tv in cui ci sono tracce di questa cultura. Ha collaborato con varie testate e attualmente scrive soprattutto su Rumore, Alias (Il Manifesto), CheFare e WU magazine. Lavora anche da ufficio stampa in campo musicale.
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