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Le scienze in gioco

Gioco educativo: un ossimoro, un fremito per genitori apprensivi, spesso una noia. Ma anche una delle direzioni più innovative dei videogame, come insegnano alcuni esempi molto recenti.

Nello scorso ottobre, lo studio di sviluppo videoludico Ninja Theory ha fatto un annuncio a dir poco particolare. Ha dichiarato di aver dato vita a un progetto di ricerca e sviluppo, The Insight Project, il cui tema afferisce solo in parte al mondo dei videogiochi. Il suo scopo principale in effetti è curioso e inaspettato, soprattutto per quanti non conoscono il lavoro di questo studio. Il claim del progetto ci aiuta a chiarire di cosa si tratta: “Gaming the mind to master mental health”. Con i frutti peculiari di questo lavoro, l’intenzione è proprio quella di sviluppare nuove metodologie e modalità di gestione della sofferenza psichica, con il fine ultimo di offrire una gamma rinnovata di strumenti pratici, utili a chiunque abbia bisogno di affrontare problemi psicologici e psichiatrici.

Si tratta di un percorso pionieristico, che avrà bisogno di anni per concretizzarsi, e dovrà essere in grado di muoversi agevolmente tra la diagnostica e il puro trattamento specialistico. Il terreno su cui si muove, d’altronde, non risponde ancora a nessun tracciato stabilito; semplicemente, non ha precedenti. A cavallo della tigre tecnologica, e del suo corollario di analisi dei molteplici dati e delle necessarie componenti biometriche, The Insight Project può dunque candidarsi a diventare, in potenza, una rivoluzione. Il Professor Paul Fletcher, psichiatra e professore presso la University of Cambridge, tra i principali artefici del progetto, ne parla in questi termini: “stiamo ponendo una domanda: possiamo combinare il meglio del game design e della tecnologia con lo stato dell’arte delle neuroscienze cliniche e della psichiatria, per aiutare chi soffre di patologie mentali e promuovere la salute psichica?”. Tuttavia, le sue radici giacciono in realtà in un’opera precedente: un semplice videogioco. Ninja Theory nasce nei primi anni Duemila a Cambridge, in Inghilterra, sotto diversa ragione sociale e come sogno di tre persone. Pochi soldi, ancora meno esperienza, molto – o nulla – da perdere. Nei vent’anni successivi il suo operato si scontra con la dura realtà dell’industria e, tra alti e bassi, sforna tanto titoli di rilievo quanto insuccessi commerciali poi di culto (Heavenly Sword, Enslaved: Odyssey to the West, DmC). Inoltre, inanella una serie di collaborazioni anomale, quali quelle con Andy Serkis (attore specializzato nelle performance capture: Gollum ne Il signore degli anelli) e Alex Garland (regista/sceneggiatore, autore di Ex Machina e Annihilation).

Nel 2017, la svolta. Gli sviluppatori, sotto l’egida del direttore creativo Tameem Antoniades, creano Hellblade: Senua’s Sacrifice, videogioco dallo straordinario successo di critica e pubblico, che li porta a concretizzare una visione coraggiosa e sui generis sia dello scibile videoludico sia della rappresentazione della malattia mentale. La storia portante pare banale: la protagonista Senua è in apparenza “soltanto” una guerriera pitta costretta a un periglioso viaggio infernale, per tentare di recuperare l’anima del suo amato defunto. In realtà, nell’esperienza di gioco, e con la complicità di un comparto audiovisuale più che ragguardevole, il risultato va ben oltre quello di una normale e piacevole scampagnata videoludica.

Giocando, troviamo la nostra risposta. Ci immergiamo infatti compiutamente nella mente di una persona traumatizzata, disperata e in preda a una forte psicosi. Le innumerevoli voci che lei sente (e noi con lei), le tensioni e le illusioni saranno visualizzate, vissute, esperite e partecipate appieno dal giocatore, che finirà per fare propria questa esperienza grazie alle meccaniche e al sistema di gioco, con la furia fantasmatica delle voci urlate o bisbigliate nell’audio, le illusioni e gli spasmi visivi sullo schermo.

Antoniades stesso voleva rispondere a una sua esigenza specifica: “un mio amico aveva sofferto di un esaurimento nervoso e io ho realizzato di non conoscere assolutamente nulla di questo argomento. Più ne leggevo, più volevo sapere cosa si provasse a viverlo. Questa domanda si è trasformata in un’idea: cosa succederebbe se potessimo metterci nei panni di qualcuno che vive in una severa condizione psicotica, cosa potremmo vedere, sentire e capire attraverso i suoi sensi?”. Giocando, troviamo la nostra risposta. Ci immergiamo infatti compiutamente nella mente di una persona traumatizzata, disperata e in preda a una forte psicosi. Senua è schizofrenica e, per questo motivo, da sempre vittima di un forte stigma sociale all’interno della sua comunità. Le innumerevoli voci che lei sente (e noi con lei), le tensioni e le illusioni saranno però visualizzate, vissute, esperite e partecipate appieno dal giocatore, che finirà per fare propria questa esperienza grazie alle meccaniche e al sistema di gioco, con la furia fantasmatica delle voci urlate o bisbigliate nella traccia audio, le illusioni e gli spasmi visivi sullo schermo. Il vissuto della mente psicotica, di un corpo e un’anima vessati da una malattia mentale, diventano quindi in tutto e per tutto anche il patrimonio del giocatore che, di fatto, accompagnerà la protagonista e concorrerà ad allargare il suo ventaglio di esperienze e visioni.

Il coinvolgimento di chi prende parte a questo strano percorso di conoscenza si rivela totalizzante, una volta spento lo schermo. Perché vengono simulate in toto, grazie agli elementi inerenti al medium videoludico, le percezioni di un altro-da-sé. Si apre così il campo a una moltitudine di stimoli potenziali, oltre a spingere verso una ridiscussione completa dell’impianto concettuale che di norma applichiamo al mondo dei videogiochi e alla sua cifra e possibilità espressive. È ancora possibile considerare “divertente” un’opera interattiva dove siamo catapultati all’interno di una psiche in frantumi? Ha senso definire “gioco” un prodotto artistico e mediale di questo tipo? Come appare chiaro dalle possibili risposte, e dai contenuti esplicitati da questa feature documentaria legata allo sviluppo del gioco, l’orizzonte culturale di ciò che per comodità chiamiamo videoludico è nei fatti ben più ampio di quanto non sia dato ritenere a un livello generico e un poco superficiale. 

The inside job

Quello di Hellblade, infatti, è tutt’altro che un caso isolato. Come non è solo il territorio liquido e ambiguo della mente quello elettivo dove le più pregevoli anomalie videoludiche possono trovare un humus ideale per crescere. In questa zona ibrida di contiguità tra la pratica esperienziale dei moderni oggetti mediali e digitali, e l’istanza narrativa più spuria (quella divisa tra racconto, ri-significazione del sé o del mondo e memoria), troviamo altre vie, ulteriori sviluppi. Una legione di modi e mondi ulteriori con i quali rielaborare le nostre esistenze. E persino la nostra storia comune. Come dimostrato dal recentissimo Ancestors: The Humankind Odyssey, sviluppato da Panache Digital Games e creato da Patrice Désilets: un “simulatore evolutivo di competizione interspecifica”, per complicarci la vita. Nei fatti, un altro esempio delle potenzialità in nuce nel sentire videoludico contemporaneo. Al suo interno, vestiamo nient’altro che i panni di un primate. Un protagonista del tutto particolare. Siamo a circa dieci milioni di anni di distanza da oggi, nel passato della nostra stessa specie. E dobbiamo guidare la nostra comunità verso il futuro: l’orizzonte dell’ominide a venire. Nient’altro.

Contattato per un’intervista, Désilets ha tenuto a farci sapere che “dal punto di vista delle scelte di design, la sfida maggiore è stata quella di muoversi nella sottile linea tra il creare un’esperienza di gioco divertente e il mantenere una rappresentazione dell’evoluzione ispirata concretamente dalla scienza”, una scelta sistematica che potesse risultare al contempo verosimile e adatta alla sospensione dell’incredulità del giocatore. “Ci siamo dunque focalizzati sin dalle prime fasi di sviluppo sui sensi, visto che si tratta dei nostri fondamentali strumenti di sopravvivenza. Ma abbiamo poi dovuto trovare una maniera ingegnosa per rendere i controlli e le meccaniche di gioco comprensibili all’utente. Per questa ragione, abbiamo deciso di mappare i singoli bottoni del controller, collegando ciascuno a una specifica funzione. Un tasto per i sensi, un altro per sfruttare le capacità intellettive del nostro primate, uno per le funzioni di comunicazione e uno per quelle motorie”.

Si fa subito evidente quanto l’imprinting culturale e, in questo caso, storico abbia giocato un ruolo di primissimo piano sin dal primo istante, nelle fondamenta stesse del gioco. Un atteggiamento derivante dal fatto che “ritengo assolutamente che i videogiochi possano essere usati come strumenti educativi e penso che possano portare le persone a interessarsi davvero degli argomenti trattati. La componente interattiva dei giochi è del tutto diversa dai libri o dagli altri classici mezzi usati per l’educazione. A dirla tutta, abbiamo già ricevuto messaggi da vari insegnanti di storia o professori di paleoantropologia, che ci hanno raccontato di avere adottato Ancestors nelle loro lezioni”.

“Dal punto di vista delle scelte di design, la sfida maggiore è stata quella di muoversi nella sottile linea tra il creare un’esperienza di gioco divertente e il mantenere una rappresentazione dell’evoluzione ispirata concretamente dalla scienza. Ci siamo focalizzati sin dalle prime fasi di sviluppo sui sensi, visto che si tratta dei nostri fondamentali strumenti di sopravvivenza. Ma abbiamo poi dovuto trovare una maniera ingegnosa per rendere i controlli e le meccaniche di gioco comprensibili all’utente”.

D’altronde, Désilets non è nuovo all’approfondimento della materia storica. Se anche il suo nome non vi dice niente, è probabile che abbiate tuttavia già incontrato le sue opere. Prima di lasciare Ubisoft e creare Panache Digital Games, è stato difatti il direttore creativo dei primi capitoli della serie di Assassin’s Creed, che ha persino visto un’incarnazione cinematografica. E che ultimamente ha proposto anche una modalità espressamente educativa, il Discovery Tour, per approfondire i contenuti prettamente storici. Non suona dunque sorprendente che ci dica: “ho personalmente studiato il soggetto per i primi due anni dalla progettazione originaria. Il mio team ha poi provveduto a continuare gli studi durante l’arco di sviluppo, in particolar modo i game designer. Abbiamo studiato le varie specie identificate come nostre antenate, il loro sviluppo neurale e i neurotrasmettitori, in modo da identificare a dovere gli ingredienti che poi avremmo utilizzato nel gioco. Abbiamo studiato il clima, gli ambienti di quelle terre e tutto il resto. E a sorprendermi di più è stato quanto ancora ci manca da conoscere, quante scoperte sono fatte tutto il tempo e quante convinzioni errate ci portiamo dietro nella cultura di massa”.

Community

Le conseguenze di quest’approccio allo sviluppo e alla messa in scena del gioco si sono riverberate su due aspetti specifici che, proprio come in Hellblade, favoriscono il coinvolgimento del giocatore e operano in maniera complessa nel microcosmo individuato tra il piacere propriamente ludico, la componente spaziale e cinestetica, quella narrativa e l’affettiva: la scelta di far scomparire qualsivoglia mappa e obiettivo esplicito, e l’assenza dell’inventario e dell’HUD (il heads-up display, quell’insieme di informazioni visualizzate direttamente su schermo, con dati quali: i punti ferita del personaggio, il capitale disponibile, le munizioni, i punteggi e via dicendo). Guarda caso, proprio come nel titolo di Ninja Theory. “Si tratta di una scelta di design. Non m’interessava tanto costruire un gioco incentrato sui nostri antenati. A stimolarmi è stata la possibilità spicciola di creare un’esperienza d’immersione totale attraverso il medium dei videogiochi. È lo stesso motivo per il quale gli oggetti disponibili nell’inventario sono limitati a quello che possono portare fisicamente due singole mani. In questo modo, abbiamo potuto ridurre i menu al minimo e far immergere il giocatore a dovere nell’Africa di 10 milioni di anni fa. In più, si è rivelato utile per far gestire ed evolvere al meglio i nostri protagonisti. È anche il motivo per cui abbiamo inventato il sistema di progressione legato ai neuroni e alle sinapsi da sviluppare. D’altronde, in un gioco che racconta l’evoluzione della nostra specie, l’oggetto fondamentale del discorso rimane la mera sopravvivenza: in quanto esseri umani e animali abbiamo bisogno di mangiare, bere e dormire. Che questa meccanica, dei cosiddetti survival games, stia poi diventando un tema popolare, significa solo che è un tema a cui tutti possiamo relazionarci, in quanto patrimonio in comune nelle nostre vite”.

Un discorso che risuona al meglio con la natura comunitaria del gioco, con la sua necessità di costruire una grande e allargata famiglia, per fruttare al meglio le chance di sopravvivenza. È, in fondo, un’eco di quella forma di coinvolgimento che detta i tempi al nostro quotidiano lavorio digitale: quella sociale e condivisa. Videogiochi quali Hellblade: Senua’s Sacrifice e Ancestors: The Humankind Odyssey permettono infatti una condivisione che va oltre il semplice aspetto ludico ed esplode la preoccupazione strettamente narrativa. Non solo: finiscono per costruire uno spazio inedito di intervento culturale dove possono incontrarsi le scienze, la tecnologia, la didattica e, in ultimo, l’idea di nuovo tipo di comunità.

“Gli esseri umani sono animali sociali. Dunque, scegliendo di sviluppare un gioco sui nostri antenati, abbiamo dovuto trovare il modo di portare questo aspetto sociale all’interno. Abbiamo deciso di farlo lasciando costruire al giocatore un clan da far vivere all’interno di centinaia, migliaia o milioni d’anni. In più, avendo scelto di lasciare ai giocatori pochi aiuti o informazioni, abbiamo innescato un meccanismo d’aiuto reciproco tra gli utenti. Anche se si tratta di un gioco in single player, si è costruita un’intera comunità intorno ad Ancestors… un riflesso della nostra natura sociale. Una meraviglia”, dice Désilets. Una rivoluzione culturale e sociale che potrebbe compiutamente riuscire a farci indossare i panni dell’Altro, dunque, che si tratti di una scimmia o un individuo schizofrenico. Come testimoniato anche dal recente successo del blasonato Death Stranding di Hideo Kojima, tutto dedicato alla costruzione di legami, o dalla meraviglia di Kind Words di Popcannibal. Dalle porte socchiuse della magione videoludica spira un vento nuovo, fresco. Un’aria di casa, famiglia, comunità.


Daniele Ferriero

Ha scritto o scrive per Artribune, Esquire Italia, Fumettologica, Forbes Italia, Ludica, Rumore, VICE/Noisey Italia e altri. È anche consulente freelance tra comunicazione e agenzie digitali, editoria e industria cinematografica.

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