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Sbatti il virus in prima pagina

In che modo l’informazione ha raccontato l’emergenza sanitaria? Di più, come sono cambiati priorità e linguaggi in questi mesi? Diario della crisi dalla viva voce dal backstage delle redazioni.

Titoli di giornali e telegiornali di venerdì 21 febbraio: “Conte contro Renzi”, “Conte ter”, “Scontro nel Governo”, “Maggioranza a pezzi”. Titoli di giornali e telegiornali di sabato 22 febbraio: “Italia infetta!”, “Virus: Nord nella paura”, “Fermi tutti!”. Come al solito avevamo capito tutto subito.

Gennaio

A gennaio quest’anno ci si avviava baldanzosi verso le ultime settimane di campagna elettorale per le regionali, con il solito sguardo alto rivolto all’infinito: “Rula Jebreal andrà o non andrà a Sanremo?”; “E il cerchietto di Mattia Santori?”; “Salvini mangia la mortadella”. Tutto bene, insomma, tutto al solito. E poi, come sempre, la campagna elettorale gonfia vendite e ascolti, tutti danno interviste a tutti, niente ansie da vuoto, botti piene e mogli ubriache. Certo, c’era questa cosa della Cina, ’sto virus, ma minimo parliamo di pagina 20 o degli ultimi minuti dei tg, e poi lo sanno anche gli studenti di Scienze della comunicazione che gli esteri non fanno ascolti, ora ti pare che dobbiamo metterci a star dietro al virus dei cinesi quando qui c’è tutta questa abbondanza da campagna elettorale? No, e infatti sticazzi.

Il periodo Cina

I giorni dopo le elezioni, soprattutto se come questa volta i risultati non sono stati clamorosi, sono un po’ come la fine dell’estate dei fu TheGiornalisti, “la mia malinconia è tutta colpa tua”, tua nel senso di te politico, che ora sai che noia. Si ciondola, nessuno scossone, ci si arrangia. È proprio in questa fase post elettorale depressiva che il 30 gennaio arriva la notizia: i due signori cinesi in vacanza contagiati. E dove? Al Grand Hotel Palatino, a Roma. Ce n’è abbastanza per il solito neorealismo: l’hotel blindato, i posti in cui sono stati, “io giuro che li ho visti l’altra mattina in fila al Colosseo”, inviati che aggiornano dallo Spallanzani. Insomma, già qualcosa, una mezz’ora di programma la fai. È infatti è qui che in tutte le redazioni si fa largo una voce, sempre più insistente: “serve un cinese, un sapore di Cina”.

Noi a Roma, associando subito la parola “sapore” a “ristorante”, ci siamo immediatamente precipitati davanti a quello cinese più noto, “da Sonia”, gestito dall’omonima proprietaria, Sonia Hang: una signora simpatica e pop con uno spiccato senso del marketing, che ha le sale tappezzate di foto con i registi e gli attori che abitano nel vicino Esquilino e che ha fatto pure le pubblicità per Gucci. Meglio di così era difficile da immaginare. Per una settimana Sonia conta più dell’ambasciatore cinese: parla ai tg della sera, paginate sui giornali, scherza nei programmi radiofonici di punta. A Milano invece hanno proprio il quartiere, Chinatown, troppo facile: è tutto un incedere in via Paolo Sarpi dicendo all’operatore “seguimi, seguimi” e fermando giovanotti a caso (in realtà imprenditori di successo, ma vabbè) cui far dire che i cinesi sono bravi, che amano l’Italia, che anche loro hanno paura del virus. Magari chiedendo un’opinione pure al leggendario “Johnny aggiustatutto” di via Giordano Bruno, che sai mai se poi mi cade l’iPhone nel water posso sempre chiedere lo sconto perché l’ho intervistato alla tv. Il periodo Cina coincide anche con la bullizzazione del redattore medio che, viste le sei ore di differenza di fuso e le difficoltà di comunicazione, è costretto sin dalla mattina a cercare ospiti tramite Skype, girando per i corridoi gridando “mi sentiiii?, mi vediiii?”, rivolto ai pochissimi in grado di capire l’italiano e quindi di poter intervenire nei programmi e nei telegiornali.

La “sorpresa” dei primi contagi

Tutto poi cambia all’improvviso. Cioè, all’improvviso: in realtà, appunto, qualche elementuccio per accorgersene ci sarebbe anche stato, ma vuoi mettere Renzi che minaccia di far cadere il Governo? E dunque il weekend del 22 febbraio, con i primi casi sul territorio nazionale, l’italica stampa precipita esterrefatta nell’incubo virus. Abituati agli “esclusivo!” e “ultim’ora!” solo per un video di Alessandro Di Battista dall’Iran, ci si ritrova a fronteggiare l’emergenza vera. Sorpresi come il pugile che riceve un jab che non ha visto partire, nelle redazioni i giornalisti cercano un animale in via di estinzione, ormai raro, relegato negli inserti: quello “che fa” la salute. Marginalizzato dai rampanti giovani redattori di politica, economia e tecnologie, “quello della salute” dovrebbe essere in teoria la prima firma di tutti i quotidiani e i tg, che sono visti soprattutto da over 65. Invece, sinora tollerato bonariamente con le sue paginate del weekend sull’osteoporosi e i dolori reumatici, viene immediatamente convocato per affidargli pezzi a pagina due, servizi di apertura, colonnini di commento.

Certo, c’era questa cosa della Cina, ’sto virus, ma minimo parliamo di pagina 20 o degli ultimi minuti dei tg, e poi lo sanno anche gli studenti di Scienze della comunicazione che gli esteri non fanno ascolti, ora ti pare che dobbiamo metterci a star dietro al virus dei cinesi quando qui c’è tutta questa abbondanza da campagna elettorale? No, e infatti sticazzi.

Ma subito ecco il secondo problema: chi invitiamo? Con la solita fantasia il numero del professor Michele Mirabella, conduttore highlander di Tutta salute nel daytime di Raitre (e attore insospettabile al fianco di Troisi e Verdone, e pure in Fantozzi subisce ancora), inizia a girare sugli smartphone, almeno per far fronte all’emergenza. Ma non basta ancora. Spedito un manipolo di inviati eroi (veri) nelle zone del contagio (là da più di un mese, tra l’altro, senza cambio e con la ghigliottina della quarantena) diventa una necessità impellente coprire la casella più importante, l’esperto. Ed ecco che, da subito, la voce che un mese prima chiedeva il sapore di Cina si rianima e proclama: “ecco cosa serve: serve un virologo!”.

Virologi, i nuovi influencer

Ora, sfido chiunque (prima del 21 febbraio) a indicare i nomi di almeno tre virologi. Così, a memoria, senza Google. Certo, Burioni, ma quello è già fisso da Fazio. La Capua, però vive in Florida, casino. Il tempo stringeva, “ascoltiamo gli esperti”, “facciamo parlare chi ne sa”, quindi nelle redazioni è iniziato un lavoro di scouting: “quello mi hanno detto che è bravo”, “un luminare”, “con lui vai sul sicuro”. Il primo a imporsi, complici anche il nome e l’aspetto da Clan Celentano, è stato il prof. Gianni Rezza, dolcevita e giacca, tranquillizzante, competente, serio. Direttore Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, perfetto. Il professor Rezza in un secondo parla al Tg1, si siede da Vespa, si affaccia ai talk del daytime, ha il Paese in mano. Ma con il passare dei giorni (drammatici) la narrazione impone anche un contraddittorio, il contraltare. Serve una polemica. 

E così il circo dei media rovescia le telecamere e scopre Maria Rita Gismondo, direttrice responsabile di Macrobiologia clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, dell’Istituto Sacco di Milano, punto di riferimento per il Paese e il Continente. In un momento di tranquillità la professoressa si sfoga su Facebook: “Mio bollettino del mattino. Il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni. A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri. Questa follia farà molto male, soprattutto dal punto di vista economico. I miei angeli sono stremati. Corro a portar loro la colazione. Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni! Serena domenica!”.

Già sarebbe bastato questo, quel “A me sembra una follia”, quell’ “Abbassate i toni” per farci almeno un titolo: “Coronavirus: polemica tra i virologi!”. Ma succede di più, l’impensabile: in piena pandemia Burioni, preoccupato che si veicoli un messaggio sbagliato, le risponde e la chiama “la signora del Sacco”. Figurarsi, è subito curva da stadio. Rianimate da una polemica dopo una settimana di unità nazionale, le redazioni si spaccano, la professoressa Gismondo è subito presa come editorialista dal Fatto, ci si schiera, si fa casino. Ma dura poco: Burioni si scusa in un’intervista a Gramellini, Gismondo ritratta in parte, finisce lì. E così via a cercare altri virologi, il nuovo oro degli ascolti e delle vendite: ecco il professor Lopalco, subito assoldato da Emiliano per gestire l’emergenza in Puglia. O, splendido inchiodato da mane a sera sulla sua poltrona crema, il professor Galli, che parte con Gaia Tortora e arriva alla Palombelli. Il virologo – ovviamente spinto dalla necessità sacrosanta di divulgare corrette informazioni al Paese spaventato – ben presto si accomoda, si adegua, migliora i tempi televisivi, detta condizioni (“sto solo mezz’ora e intervista singola”). E tutto questo rasserena anche un po’: prima trattavi con i portavoce dei partiti e ora con i virologi. Ogni tempo ha l’ospite che si merita.

Skype, tra soffitti e narici

Ma la novità televisiva più grande dei tempi della pandemia, dettata dalle necessità di distanziamento sociale, è l’assenza. L’assenza di ospiti in studio, l’assenza di pubblico, l’assenza delle sin qui minime regole di grammatica dello schermo. Per l’assenza di pubblico la mazzata è stata forte: assistenti di studio che facevano partire applausi ogni 30 secondi, anche per i lanci delle televendite, caduti in depressione; frasi a effetto lasciate a metà; comici persi nell’eco delle loro battute che non fanno ridere. Sull’assenza degli ospiti, subito sembra bello: vuoi mettere le infinite telefonate “ma no, sì che ce le fa, le prenoto un treno alle 6.45 e arriva in studio in tempo”. Niente: ora basta dire “la colleghiamo via Skype” ed è fatta. Il redattore medio si scontra però qui con un tema enorme del contemporaneo: l’analfabetismo digitale della classe dirigente, che Skype non lo conosce, figurarsi Zoom. 

Il virologo – ovviamente spinto dalla necessità sacrosanta di divulgare corrette informazioni al Paese spaventato – ben presto si accomoda, si adegua, migliora i tempi televisivi, detta condizioni (“sto solo mezz’ora e intervista singola”). E tutto questo rasserena anche un po’: prima trattavi con i portavoce dei partiti e ora con i virologi. Ogni tempo ha l’ospite che si merita.

Così si trasforma in doppia fatica: “onorevole mi senteee? Deve cliccare lì…”. “No, dottore, non Facebook, Skype! Quello con la S sull’applicazione, la vede?”. Un disastro. Soprattutto, una volta faticosamente connessi, l’orrore è rappresentato dalle inquadrature e dagli sfondi: librerie poche e sguarnite, il soffitto a cassettoni della casa di Andrea Orlando, il salotto di Tajani (ma ultimamente si sposta anche in terrazzo), il muro bianco tipo sequestro di Vito Crimi. Faccioni schiacciati in video, narici in primo piano, registi disperati perché non possono mandare fascioni dell’ultim’ora che altrimenti taglierebbero la bocca del malcapitato. In tutto questo un dubbio però attanaglia chi lavora nei programmi: ma se, passata la fatica iniziale di insegnargli a collegarsi, ora è così facile, senza troupe, senza scalette, senza niente, non è che domani ci diranno: grazie, ma voi non servite più?

Siamo nel plateau”

Proprio così: siamo nel plateau, nel pianoro, l’ha detto il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Brusaferro. Lui parlava del trend dei contagi, ma la definizione rende benissimo l’idea anche per le redazioni. La situazione è stabilizzata: politica inesistente, clima da unità nazionale, polemiche solo a carattere sanitario (chi ormai non ha una propria idea sull’utilità dei tamponi a tappeto?), lupi a bocca asciutta. Anzi, la categoria ha rispolverato la specialità della casa, cioè passare nel giro di due settimane da “Non ne so niente” a “Ci avrei scritto un libricino, un pamphlet, te lo posso mandare?”. Ma così non può durare. E già si sentono i primi brusii: Conte dura? ma ’sto Draghi quando arriva?


Francesco Caldarola

Inizia all'ANSA, poi ha scritto per i giornali e soprattutto programmi per la tv: La7, Mediaset, Sky e ora Rai. Porta spesso la cravatta.

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