I mesi dell’emergenza hanno messo in evidenza i problemi del cinema nazionale, dalle produzioni dal poco appeal alla necessità di rinnovare la distribuzione. Sarà la volta buona per cambiare davvero?
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 26 - Dopo l'evento. I media e la pandemia del 09 novembre 2020
Il cinema nella fase due non c’è stato. Il ministro Franceschini si è affrettato a far inserire la possibilità di una riapertura delle sale nei primissimi decreti (già a inizio giugno), ma le sale non hanno riaperto davvero, perché non c’erano film di peso da distribuire e quindi mancava l’attrattiva. Non è una gran situazione, ma certo poteva andare peggio, poteva andare come al mondo dei concerti…
Quello dell’esercizio cinematografico rimane uno tra i settori più colpiti dalle chiusure, dalle fobie e poi, come d’abitudine, dall’estate. Da marzo a fine agosto l’anello terminale della catena dell’industria del cinema si è visto scavalcare dal primo anello dello sfruttamento successivo, quello televisivo, ovvero l’uscita in noleggio on demand sulle piattaforme. Questo significa settimane e settimane chiusi anche quando era già possibile aprire, nelle quali provare a pensare il proprio futuro. Almeno idealmente. Praticamente, sono stati mesi di lamentele e piagnistei, che poi è il business secondario dell’esercizio. C’è la richiesta di più assistenza, più film, più visibilità, finestre che li agevolino, contributi dai canali tv che fanno loro concorrenza, più vincoli alle piattaforme in streaming, spettatori migliori, una promozione fatta meglio eccetera. La lista delle richieste nella storia dei proprietari di sale cinematografiche è un infinito vittimismo, alimentato dall’affetto o forse dalla nostalgia che tutti provano per un ideale di sala cinematografica che non esiste più da tempo (né come struttura né come fruizione) e sta ormai più dentro Nuovo cinema paradiso che nella realtà.
Stasi e rinnovamento forzato
L’esercizio da par suo non ha nessuna voglia di rinnovarsi, non ha nessuna voglia di immaginarsi in maniera diversa, non ha nessuna voglia di novità. Le eccezioni sono alcuni esercenti indipendenti che sperimentano, creano poli di aggregazione e proiettano di tutto, non solo i film in uscita. Ma sono casi isolati. Il grosso dell’esercizio le novità non può che subirle, sempre. E del resto ha subito i mutamenti tecnologici, l’ingresso di nuovi media o anche solo di nuove tecnologie (anche il loro ammodernamento è stato portato a termine tra i singhiozzi), e adesso ha subito il lockdown. La grande storia di come la distribuzione cinematografica stia cambiando e dei grandi smottamenti nella fruizione di film li vede sempre come comparse, pedoni sballottati dalle mosse degli alfieri e dei re. In tanti mesi chiusi, l’unica attività degli esercenti è stata di sperare di tornare alla normalità e chiedere fondi speciali. Adesso, fondi o non fondi, un’altra volta il mondo cambierà intorno a loro. Questo è il primo elemento e il più importante nel comprendere cosa è cambiato e cosa cambierà: l’immobilismo delle sale e la convinzione che il loro lavoro possa essere solo uno, immutabile.
Perché se le sale non immaginano nulla più in là della propria cassa, i distributori invece qualche idea se la fanno venire, o giustamente la mutuano da esperienze di successo nel resto del mondo. Specie se quei distributori hanno interessi economici nel business dell’esercizio. Alcuni di questi hanno colto il lockdown per fare un deciso passo in avanti verso quel futuro che tutti sappiamo essere lì da venire, e il cui arrivo è costantemente ritardato. Quello in cui le prime visioni sono più o meno equamente divise tra i film che arrivano in sala e quelli che arrivano dritti in tv, tramite streaming o noleggio on demand. Senza che i secondi siano di qualità inferiore ai primi, come è sempre stato. Anzi. Il futuro cui ci stiamo avvicinando lentamente vede le sale riservate agli eventi, cioè ai film giganteschi, ai blockbuster la cui promozione inizia un anno prima proprio per garantire loro lo statuto di eventi, oppure ai film che si sono fatti notare ai festival, titoli piccoli ma con un buon pubblico di appassionati, spinti dall’appeal intellettuale o anche solo dalla notorietà nei circoli più ristretti di autori e attori.
Per tutto il resto c’è la televisione, ovvero una pletora di film di livello medio in cui si nasconde il gusto popolare meno becero e più colto. Questo significa che quella fetta di cui il cinema italiano abbonda ha sempre meno cittadinanza in sala. Nonostante le leggi dicano il contrario il botteghino parla chiaro. Negli Stati Uniti, dove il cinema non è assistito, quei film già sono scomparsi: non si vedono più commedie romantiche, non si vedono più thriller. Stanno tutti in tv (e vanno anche bene!). Da noi invece la resistenza continua a portare in sala commediole di rapido consumo e facile oblio, ma è una situazione destinata a finire. Molti film italiani che abbiamo etichettato come flop erano tali unicamente a un occhio miope. Il caso de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores è stato emblematico: 8 milioni di budget e 4,5 milioni di incasso, ma lo stesso ha avuto un sequel, giustificato ampiamente dal successo su Sky e nei passaggi televisivi. E non solo, anche un film come Tonno spiaggiato (pensato e scritto da Frank Matano intorno alla sua comicità) è stato in sala poco più di due settimane e ha totalizzato poco meno di 400 mila euro. In teoria un disastro, nella pratica un buon risultato perché poi in tv è stato un successo. L’elenco è lungo, e spiega tanti casi di scarso incasso che non chiudono carriere, anzi, e annuncia cosa avverrà. La stortura infatti a oggi è il passaggio forzato in sala, frutto di contributi, obblighi, leggi e gangli. Ma il lockdown ha assestato un buon colpo.
Il coronavirus ha svelato non solo la dipendenza economica della sala dal cinema americano, ma il fatto che da questa dipenda la sua stessa esistenza. Sono i film americani che spingono il pubblico al cinema e solo sull’onda di quelle visioni e di quell’attrazione il cinema italiano fa poi i suoi incassi, si fa notare, attira e coinvolge.
La distribuzione digitale che ha sostituito le pesanti pizze, così costose da trasportare, non ha ridotto i costi per portare un film in sala, o meglio lo ha fatto (adesso è inviato tramite rete sicura, è un file), ma intanto sono esplosi i costi di promozione, cioè i soldi che servono per farsi notare in un sistema dei media che non prevede più solo la propria concorrenza, ma anche quella degli altri mezzi di comunicazione. Farsi notare più degli altri film che sono proiettati nelle sale accanto, ma anche farsi notare più della nuova stagione di Better Call Saul o della pubblicità che annuncia l’imminente uscita di Last of Us II per Playstation 4. In questi mesi, molte distribuzioni hanno toccato con mano cosa accade a far saltare la sala a un film con dei talent di medio livello: ovvero che la promozione può avvenire altrove. Netflix fa pubblicità a Netflix: è nella piattaforma che un titolo è spinto più di un altro, e così vale per Sky e le piattaforme che hanno già il loro pubblico. Certo, è un pubblico che sembra infinitamente minore rispetto a quello dei cinema (un bacino di circa due milioni di utenti dichiarato da Netflix e di cinque milioni da Sky, anche se questi ultimi non necessariamente interessati al cinema). Non però se si considera che i film italiani che incassano meno del milione di euro sono la regola, e quelli sono visti da meno di 150.000 spettatori.
Le mosse dei distributori
Anche per questo, qualcuno ha sfruttato il lockdown per iniziare ad aggiustarsi al futuro. LuckyRed e BIM hanno lanciato in fretta e furia MioCinema, cambiando solo di poco livrea alla già esistente infrastruttura in streaming di Mymovies.it. Quello è il braccio armato del cambiamento. Modellato sullo spagnolo Sala Virtual De Cine (anch’essa creata da un distributore, A Contracorriente Film), è una piattaforma theatre-friendly, che si propone di dividere gli introiti delle prime visioni che arrivano dritte on demand con le sale scelte dai fruitori (la scelta può avvenire solo tra quelle che hanno aderito) e di lavorare coordinati agli esercenti per spingere i film al cinema con piccole rassegne, classici riproposti e campagne che affianchino le novità con i titoli di catalogo. Il digitale, invece di distruggere, aiuta e fa da volano all’analogico. Definirlo audace è poco, se non altro però è un inizio (oltre che un indizio) e il formato deciso ora non deve essere nemmeno per forza quello definitivo.
Il dettaglio cruciale della storia è che due distributori italiani (che non a caso possiedono una concessionaria di film, Circuito Cinema, ma questa è, fino a un certo punto, un’altra storia) abbiano ora anche una piattaforma streaming alternativa ai colossi, pensata per coltivare il pubblico delle sale. La concentrazione che è sempre stata vista come un male (distributori che possiedono una grossa società che noleggia film alle sale) gioca ora a favore dei cinema. Se per le major come Warner, Disney, 01 Distribution e tutti i più grossi la sala è indispensabile, perché lì avviene il grosso dello sfruttamento economico, lì si fanno le centinaia di milioni di dollari (o i milioni di euro in Italia), per i più piccoli la sala ha invece un senso solo se sono direttamente coinvolti. Distribuzioni come Academy Two sono proprietarie di sale, e molti altri hanno in misure diverse un coinvolgimento nell’esercizio che li tiene con un piede in due staffe. Mantenere un pubblico forte per il cinema d’autore e l’horror (le uniche tipologie che per costi, dimensione e fandom possono permettersi) è per loro obbligatorio, ora che questi sono in crisi. Altri tipi di film di forte incasso sono fuori portata: blindati i filmoni che sono delle major che li producono; troppo costosi gli indipendenti del blockbuster come Luc Besson; troppo rari i casi come Il piccolo principe (non a caso Lucky Red). Invece il colpaccio con il cinema d’autore è ancora possibile nel paese in cui Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità con Willem Dafoe ha incassato più che nel resto del mondo (e non in proporzione, in assoluto), in cui Cafarnao (un film di povertà poetica su bambini miseri che cercano una vita migliore) ha realizzato il secondo incasso del mondo occidentale e un film “con animali” (un altro grande classico del nostro botteghino) come Mia e il leone bianco ha fatto il suo miglior incasso al mondo dopo la Francia (che però è il Paese d’origine).
Quindi il periodo di lockdown ha sbloccato l’ok al digitale, ma sempre ancorato con un piede alla sala, per tenere conto del business parallelo di molte distribuzioni. Il mutamento avanza lentamente trascinando questa catena. Le distribuzioni sono così la realtà più forte che a oggi le sale hanno a cui delegare la propria sopravvivenza per tornare all’agognatissima normalità, a quella situazione dove i film di prima visione più desiderati si possono vedere per prima cosa sui loro schermi e solo poi, quando hanno finito di sfruttarli, sugli altri. Certo, se le sale saranno ancora in piedi quando ci torneremo.
La forza residuale della sala
Il secondo dato incontrovertibile a cui ci ha messo davanti il lockdown è infatti che non esistono film italiani in grado di attirare davvero il pubblico in sala. Ne esistono che possono essere scelti, e magari vincere contro alcuni americani (Pinocchio a Natale ha dimostrato una grandissima tenuta e capacità di attirare) ma non esistono “film evento”. Non che non lo sapessimo già, ma come sempre un conto è avere questa informazione nel retro del cervello, un altro è sbatterci contro platealmente come sta accadendo adesso. I nuovi focolai americani avevano costretto a posticipare l’uscita mondiale di Tenet, il filmone di Christopher Nolan che si pensa possa riportare il pubblico al cinema e far ripartire l’industria (o almeno dargli un bel calcio d’inizio), e assieme a esso anche altre possibili corazzate come Mulan e Onward, film Disney e Pixar. Questi erano i titoli per cui gli esercenti anche italiani erano disposti ad aprire. Rimandati, le sale hanno annunciato chiusura permanente fino al loro arrivo. Alternative italiane non ce n’erano. Non è che produttori o distributori italiani non abbiano avuto il coraggio di mettere i loro pesi massimi in gioco, è che non ne avevano. Il maggiore, il più pesante e il più ingombrante tra i film attesi sarebbe Freaks out di Gabriele Mainetti, un moloch dal costo stellare (per noi) e dalle ottime potenzialità. Se non fosse che non lo conosce nessuno e i pochi che cinque anni fa si erano interessati al prossimo film di “quello di Lo chiamavano Jeeg Robot” lo hanno probabilmente già dimenticato.
Due distributori italiani (che non a caso possiedono una concessionaria di film, Circuito Cinema) hanno ora anche una piattaforma streaming alternativa ai colossi, pensata per coltivare il pubblico delle sale. La concentrazione che è sempre stata vista come un male (distributori che possiedono una grossa società che noleggia film alle sale) gioca ora a favore dei cinema.
Un’altra grande problematica della sala che è stata svelata dal coronavirus pertanto non è solo la dipendenza economica dal cinema americano (quello è noto, lo dicono ogni anno i numeri), insomma, ma il fatto che da questa dipenda la sua stessa esistenza. Sono i film americani che spingono il pubblico al cinema e solo sull’onda di quelle visioni e di quell’attrazione il cinema italiano fa poi i suoi incassi, si fa notare, attira e coinvolge. Lasciato da solo non ha alcuna capacità di creare fuori dalle sale un battage che invogli, non ha capacità di sfruttare star e nomi che in tv avrebbero maturato notorietà e capacità attrattiva. La fatica nel vendere i film italiani è una novità degli ultimissimi anni, frutto dell’ennesimo ritardo tecnologico, ma il lockdown ha mostrato tutta l’inconsistenza dei rimedi parziali e artigianali messi in piedi per far sembrare che ci sia una parvenza di promozione.
L’industria culturale commercialmente più avanzata del mondo (Hollywood) pensa la sua produzione in funzione della vendita, replica titoli noti, aumenta i sequel, tira fuori dal cassetto brand conosciuti, in modo che già un anno prima si possa parlare di qualcosa che non esiste sulla base di un titolo o di una proprietà intellettuale, e così costruire, tramite l’uso della stampa, delle prime foto (anche solo paratesti come le locandine) e del lento svelamento, mattone su mattone, l’immagine di cosa possa essere il film nella testa del pubblico. Altrove invece il sistema è rimasto più o meno lo stesso di sempre.
Tutto questo aveva creato un equilibrio, più o meno, fino a qualche mese fa. Ma adesso ne serve un altro. Le sale non riaprono perché non ci sono i film americani e i distributori si buttano in business digitali paralleli in attesa del ritorno. Domani, stremati, i molti film che non sono Tenet usciranno finalmente in sala e on demand contemporaneamente, rivedendo definitivamente l’economia del settore, la sua promozione, i suoi costi e i suoi guadagni. O almeno si spera.
Gabriele Niola
Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.
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