Molte narrazioni contemporanee, tra cinema e piccolo schermo, sono state concepite prima della pandemia. Ma lo stesso riescono a raccontare alla perfezione lo spirito di un tempo luttuoso e bloccato.
Negli ultimi mesi sono stati pubblicati molti articoli scientifici e saggi che indagano le conseguenze della pandemia sulla salute mentale delle persone. Il Guardian per esempio ha parlato di perdita della memoria e di scarsa concentrazione – definita brain fog – che potrebbe essere una sorta di meccanismo di difesa da una situazione troppo dura da assimilare. Il New York Times ha scritto di un altro fenomeno altrettanto diffuso, denominato languishing, che consiste in una costante mancanza di stimoli, interessi e senso di vuoto: “come se ti stessi perdendo giorno dopo giorno, guardando la tua vita attraverso un parabrezza annebbiato”, scrive lo psicologo Adam Grant. Non è depressione, dunque, e neanche Ptsd (disturbo da stress post-traumatico), ma una particolare esperienza psichica, una fase che fa parte di un più generale disagio e sconforto. L’Harvard Business Review ha scritto di “lutto collettivo” per descrivere questo groviglio di sensazioni e sentimenti: un processo che passa proprio attraverso una serie di stadi – negazione, rabbia, contrattazione, tristezza, accettazione – tipici dell’elaborazione di un lutto.
Da quando è scoppiata la crisi, del resto, abbiamo dovuto affrontare tanti tipi di perdita: non solo quella delle persone a noi care, ma anche quella del lavoro, del contatto fisico, della socialità, di tutta una serie di abitudini che facevano parte di una quotidianità e “normalità” che sarà difficile se non impossibile ristabilire nel breve periodo. È un po’ come se stessimo sempre in lutto: in un continuo tentativo di scendere a patti con la realtà, sempre più respingente, dolorosa e tragica. E se la serialità televisiva non ha mancato di raccontare la nostra voglia d’evasione, non sorprende che sia riuscita a rappresentare – e in alcuni casi anticipare – anche il tema della perdita nel senso più ampio. Con titoli tanto significativi quanto catartici, a fornire gli strumenti e persino le parole giuste per esprimere i nostri sentimenti.
Elaborazione del trauma
Lo scorso anno nel Regno Unito è andata in onda la serie inglese I Hate Suzie, interpretata e co-creata da Billie Piper che veste i panni dell’attrice Suzie Pickles, protagonista di un vero e proprio breakdown a seguito della diffusione illegale di alcune foto intime che la vedono tradire il marito con un altro uomo. La serie ha tanti punti in comune con Fleabag, non solo perché mette in scena la storia di una donna a pezzi, incasinata e pasticciona, ma anche perché è la storia di una perdita. Suzie perde quasi tutto: il ruolo da protagonista in un film Disney, il rispetto del marito e l’unità familiare, la reputazione. Perde il controllo della sua vita. Ciascuno degli otto episodi corrisponde a una fase precisa – “Shock”, “Denial”, “Fear”, “Shame”, “Bargaining”, “Guilt”, “Anger” e “Acceptance” – di questa difficile elaborazione del trauma e della perdita.
“Denial”, per esempio, è quasi del tutto girato in una stanza d’hotel, e vede Suzie bere, sniffare cocaina e sballarsi nel tentativo di “lasciare fuori” la realtà, anche solo per un momento. “Quando sei nella fase di negazione, vai completamente da un’altra parte”, ha detto in un’intervista al New Yorker la co-creatrice Lucy Prebble, raccontando come ha cercato di cambiare emotivamente i vari episodi. Un altro episodio chiave è “Fear”, girato come fosse un horror, mentre “Anger” vede la protagonista esplodere di rabbia, quando si rende conto che nonostante sia lei la vittima di un reato è anche l’unica ad averne pagato le conseguenze – a differenza del collega e amante che ha mantenuto l’anonimato e “non ha perso nulla”, dice Suzie. I Hate Suzie mette in scena non solo la caduta, la crisi, ma anche la presa di coscienza, la rinascita: “Penso di aver passato così tanto tempo vivendo secondo la visione delle altre persone che credo di dover smettere”, dice al marito aggressivo e violento. Con l’accettazione, arriva un nuovo livello di consapevolezza di sé per la protagonista, che può finalmente voltare pagina e lasciare andare il senso di colpa, le paure, le aspettative e i giudizi altrui. Tutto quello che le ha impedito di realizzarsi.
Frantumazione dell’identità
Il tema della perdita, nelle sue molteplici declinazioni, è al centro di Search Party: dark comedy incentrata su un gruppo di millennial disagiati e altamente privilegiati, la cui vita va in pezzi a causa di una serie di equivoci, peripezie e misfatti. Su tutti è la protagonista Dory, in piena crisi esistenziale, a perdere ogni cosa: il fidanzato Drew, tradito e reso complice di omicidio, gli amici Portia e Elliott, la casa, la reputazione e persino la sua umanità. In poco tempo la giovane si trasforma da hipster frustrata a dark lady pericolosa, capace di mentire, manipolare e uccidere senza il minimo rimorso, per puro egoismo e spirito di sopravvivenza. Perde così tanto di sé, al punto da non riconoscersi e sprofondare in uno stato di negazione e rimozione della realtà.
In questo senso, è emblematica la quarta e ultima stagione andata su Hbo Max, ideata ben prima del lockdown ma curiosamente quasi del tutto ambientata in un mini appartamento fatto interamente di feltro, in cui Dory è reclusa perché sequestrata da uno stalker psicopatico. Proprio come chi guarda, in isolamento per la pandemia, la protagonista alterna episodi di annebbiamento, confusione, rifiuto, ad altri di rabbia, lucidità e accettazione. “Mi odio così tanto, ho paura di me stessa, di quello che potrei fare, di quello che non capisco. Non voglio più essere me”, confessa in un raro momento di sincerità. “Vorrei soltanto che tutta la mia cattiveria fosse cancellata”. Solo alla fine si scopre che la protagonista si è lasciata rapire, nell’ennesimo tentativo di fuga da se stessa.
Quella di Dory è la storia di una frantumazione e moltiplicazione dell’identità, di un’involuzione così radicale da essere paragonabile solo a Walter White/Heisenberg. E proprio come in Breaking Bad, dopo un periodo di (auto)reclusione – che segna un’altra perdita, della libertà – anche qui arriva l’ammissione dei peccati della protagonista: “Sono un pericolo”, dice agli amici dopo esser riuscita a scappare. “Volevo ringraziarvi per essere stati in grado di vedermi”, afferma in punto di morte. Tutto quello che ha fatto, del resto, non era altro che un disperato tentativo di essere vista, riconosciuta e considerata. La quarta stagione, che si chiude con il ritorno in vita di Dory, rappresenta l’ultimo passo per la rinascita e la definitiva presa di coscienza di tutto ciò che ha smarrito e distrutto, in primis se stessa.
Anticipare i tempi
Search Party, alla fine, non è altro che il racconto di una giovane che si è persa, spinta dal desiderio di un indefinito “di più”, di fare qualcosa di significativo e memorabile. Se fossimo in Big Little Lies, la madre di Perry, Mary Louise Wright, l’avrebbe definita una wanter, una di quelle persone che non si accontentano di ciò che hanno ma “semplicemente vogliono”. Il film Nomadland di Chloé Zhao non potrebbe essere più distante da questa narrazione, con le sue vite precarie, dimenticate e ai margini. Ma è interessante notare come anche la pellicola dell’anno, che ha trionfato praticamente ovunque – dal Festival di Venezia agli ultimi Oscar –, proprio come Search Party racconta una storia imperniata sulla perdita. Quella della protagonista Fern – segnata dal lutto per il marito e la propria città Empire –, ma anche quella dei vandweller che incontra lungo la strada: donne e uomini che hanno perso compagni, figli, casa, lavoro. Per i motivi più disparati, hanno perso la vita che facevano un tempo, e per scelta o necessità stanno provando a crearne una nuova, fuori dall’ordinario, in un Paese in crisi post-recessione che prende, toglie senza restituire nulla in cambio.
“Nomadland è un pellegrinaggio attraverso il lutto e la guarigione”, ha detto Zhao, nel suo discorso ai Golden Globe. Il film è stato girato nell’autunno del 2018, anticipando quel senso di perdita, smarrimento e solitudine che sta caratterizzando l’attuale periodo. Lo stesso vale per Sound of Metal di Darius Marder, girato tra l’estate e l’autunno 2018 e vincitore di due premi Oscar per montaggio e suono: anche qui tutto ruota intorno al tema della perdita e alla difficoltà di accettare l’imprevedibilità della vita e della malattia. Il batterista Ruben, diventato improvvisamente sordo, attraversa le tipiche fasi del lutto: il rigetto, la rabbia, sino alla “resa” e pacificazione con il proprio corpo e la propria disabilità, che non può essere cancellata né riparata. E qualcosa di simile è raccontato anche in Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó: il film è il ritratto di una donna a pezzi, distrutta da una tragedia ancora una volta inaspettata e irreversibile, come la morte di una figlia appena nata. Un lutto quasi innominabile, che Martha affronta in solitudine e apparente distacco, tra lunghi silenzi e improvvisi scatti d’ira, tentando a suo modo di andare avanti con la propria vita.
Sotto controllo
Come spiega David Kessler, autore di Finding Meaning. The Sixth Stage of Grief, non bisogna dimenticare che le fasi del lutto non sono lineari: sono più che altro “un’impalcatura”, un percorso tortuoso, accidentato. Fatto di alti e bassi, fermate e ripartenze in cui l’accettazione rappresenta il punto di arrivo: il luogo dove risiede il potere. Accettare la crisi pandemica, le sue conseguenze e tutte le limitazioni che ne sono derivate in questi mesi, ci ha permesso di riorganizzare le nostre vite, creare nuove routine e gestire la situazione al massimo delle nostre possibilità. Perché “nell’accettazione troviamo il controllo”, prosegue Kessler, “Posso lavarmi le mani. Posso mantenere una distanza di sicurezza. Posso imparare come lavorare virtualmente”. La perdita del controllo è un tema cruciale, e non sorprende che in WandaVision la protagonista, devastata dal lutto per la morte di Vision, decida di creare una serie dentro la serie: un mondo fittizio rigorosamente controllato dalla sua artefice, in cui può vivere una vita ordinaria e idilliaca priva di traumi e sofferenze, ispirata alle sue sitcom americane preferite.
Del resto, Wanda Maximoff aka Scarlet Witch è forse l’eroina dell’universo Marvel che ha sofferto di più, avendo perso i genitori, il fratello Pietro e infine l’amato Vision. E – sovrannaturale a parte – la sua messa in scena non è che uno dei tanti modi possibili di reagire a una perdita. Sentita come qualcosa di così intollerabile e frastornante da non poter fare altro che sopprimerla, cancellarla per rimpiazzarla con una pura fantasia. Secondo Jill Harrington, autrice del libro Superhero Grief. The Transformative Power of Loss, “per essere un prodotto di finzione, stanno dando un ritratto molto realistico di una grave perdita e del dolore”, riuscendo a stabilire “un dialogo di cui c’è bisogno”. La frase “cos’è il dolore se non l’amore che persevera”, recitata in un episodio da Paul Bettany (Vision), ha avuto grande risonanza sui social, tanto da generare una quantità infinita di meme e riflessioni.
Capro espiatorio
Anche WandaVision è stata scritta e parzialmente girata molto prima dell’emergenza coronavirus, ma è arrivata su Disney+ a gennaio, dopo circa un anno di pandemia e di lutto collettivo. Riscuotendo ampi consensi di critica e pubblico per lo stile inedito e sperimentale, le scenografie, la recitazione ma anche perché capace di creare un ponte diretto con chi guarda. E di fornire le parole giuste per esprimere il groviglio di emozioni e sentimenti, come ha spiegato sempre Harrington in un lungo articolo uscito sul sito della CNN, in cui definisce le saghe supereroistiche come la “nostra mitologia moderna” utili a personificare e capire meglio la morte. Ma se c’è una serie riuscita a rappresentare al meglio la perdita e il dolore collettivo di una comunità intera è l’inglese It’s a Sin, creata da Russell T. Davies e incentrata sul dramma di un’altra pandemia, quella dell’hiv. Seguendo le vicende di un gruppo di amici gay londinesi, tra anni Ottanta e Novanta, esplora il lutto, la solitudine ma anche l’omertà e la paura verso un male sconosciuto e una malattia considerata come un peccato, qualcosa da nascondere e di cui vergognarsi.
“Ecco che cosa fa la vergogna. Gli ha fatto credere di meritarselo. Gli ospedali sono pieni di uomini che pensano di esserselo meritato”, afferma Jill nell’ultimo episodio, dopo aver scoperto che l’amico Ritchie è morto senza avere nessuno accanto. “Stanno morendo, e una piccola parte di loro pensa che sì, è giusto così”. Tuttora l’Aids resta una malattia fortemente stigmatizzata – lo stesso creatore ha rivelato di aver avuto molte difficoltà a fare la serie – ma guardando le vite spezzate di questi giovani ragazzi, vittime di omofobia, è facile ripensare alle prime settimane della pandemia da coronavirus, quando la comunità cinese veniva osteggiata e insultata. Alla ricerca di un colpevole e di risposte – per quanto sbagliate, assurde o irrazionali – che dessero un senso a una crisi del tutto inaspettata.
Proprio Ritchie, per esempio, aspirante attore e cantante, amante di feste e sesso, sarà tra gli ultimi a prendere sul serio le voci sull’Aids: “È una truffa, un trucco delle aziende farmaceutiche per fare soldi”, afferma poco prima di iniziare a ballare e baciare sconosciuti, elencando le tante teorie diffuse in quegli anni. Non così dissimili da quelle che sono circolate in questi mesi. Del resto, anche l’ostinazione – se non ossessione – nel trovare un capro espiatorio è una delle tante possibili reazioni all’imprevedibilità di una tragedia. Un altro modo per rifugiarsi nella negazione. Perché come dimostrano It’s a Sin e tutte queste storie, nella finzione e nella realtà, a volte è più facile credere, immaginare o persino inventare qualcosa di implausibile ma consolatorio piuttosto che accettare le tante conseguenze di una perdita.
Manuela Stacca
Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.
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