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Processo al doppiaggio

Doppiare serie tv e programmi televisivi stranieri in italiano ha ancora senso? Viaggio alla scoperta delle ragioni, delle complessità e della lunga strada della tv “tradotta”.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 8 - Che fare? La tv dopo la crisi del 01 ottobre 2009

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La torre di Babele non è crollata invano. E, in tempi di globalizzazione vera o presunta, di mercati dei media sempre più vasti, di prodotti (e diritti) che viaggiano di Paese in Paese, il tema della traduzione (e della confusione) linguistica è più urgente che mai. Basta prendere in mano i giornali italiani per accorgersi che uno stesso testo – poniamo, il discorso di investitura di Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti –, in una versione sempre dichiarata come “integrale”, appare secondo modalità molto variegate: titoli, tagli non dichiarati, scelte di traduzione differenti, scansioni in paragrafi che risentono dell’approccio della singola testata. O basta andare al cinema (o prendere un Dvd), e vedere che persino in un film premio Oscar come The Millionaire si attribuisce una battuta alle persone sbagliate, invertendo in un istante – in una scena di folla che diventa battaglia – i buoni e i cattivi. In televisione, se possibile, è tutto più complicato. Ecco alcune “prove”, testimonianze in un immaginario processo all’adattamento italiano.

Exhibit n. 1. A metà della seconda stagione di Big Bang Theory, prima per un singolo episodio e poi in modo fisso per il resto dell’annata, la voce del protagonista Sheldon Cooper muta improvvisamente. Per qualche ragione produttiva è cambiato il doppiatore (prima era Leonardo Graziano, poi diventa Emiliano Contorti). L’effetto è spiazzante, nonostante il tentativo di ricreare una stessa intonazione.

Exhibit n. 2. Nella sesta stagione di Scrubs, un episodio speciale è realizzato in forma di musical: una paziente legge la realtà come se tutti cantassero e ballassero, e l’intero staff dell’ospedale si esibisce così in alcuni numeri musicali. In Italia, questi brani sono riscritti e ricantati: niente sottotitoli, così le voci sono quelle abituali, e viene messa nuovamente in scena la produzione – quasi in un remake audio – con una ricchezza (testuale e sonora) differente ma vicina all’originale.

Exhibit n. 3. In un recente episodio dei Simpson, sedicesima stagione, si sente Homer farfugliare “shh… shh…”, o qualcosa del genere. La parola che sta provando a dire in italiano (e che dice tranquillamente in originale), resa evidente dal contesto, è “hashish”. Ma la collocazione in palinsesto del cartone, che va spesso in onda in fascia pomeridiana, porta a questo mascheramento che cerca di salvare le apparenze.

Exhibit n. 4. Esempio classico è poi quello de La tata, in originale The Nanny. I riferimenti alla Ciociaria, il pesante accento e le battute in dialetto, il nome Francesca Cacace, persino i rapporti di parentela sono invenzioni della versione italiana. L’originale è tutt’altro. Fran Drescher fa parte sì di una minoranza, ma è di origine ebraica. Mentre la “zia” Assunta è sua madre, e “zia” Yetta sua nonna.

Del resto, non c’è bisogno di scegliere esempi “estremi” come questi per dimostrare l’incidenza che una traduzione – meglio, un adattamento – finisce per avere su molta della televisione che vediamo. Nel bene e nel male. Basta andare online, leggere in qualche forum – non solo quelli dei gruppi che, pur di evitare la traduzione (e accelerare i tempi), sottotitolano le serie televisive, ma anche quelle di “semplici” fan di questo o quel prodotto – per scoprire che il doppiaggio è costantemente sotto accusa. Fa male. È il principale responsabile della rovina di certi telefilm. Il rullo compressore sotto cui si schiaccia ogni complessità semantica, ogni differenza culturale, ogni riferimento a un mondo altro, ogni inside joke. Accuse che a volte sono più che fondate (si pensi a La tata), altre molto meno (come nel caso di Scrubs). Ma che, soprattutto, interpretano il doppiaggio come un monolite, un’infernale macchina automatica che va rifiutata in blocco, senza appello. Senza tenere in considerazione le sue ragioni.

Basta andare online per scoprire che il doppiaggio è costantemente sotto accusa. Fa male. È il responsabile della rovina di certi telefilm. Il rullo compressore sotto cui si schiaccia ogni complessità semantica, ogni differenza culturale, ogni riferimento a un mondo altro, ogni inside joke. Accuse che a volte sono più che fondate, altre molto meno.

Routine e professionisti

Il processo in realtà è molto più complicato. In primo luogo, quando ci si riferisce all’edizione italiana, si intendono tutti insieme più passaggi: ognuno di questi permette di avvicinarsi a quello che sarà il prodotto finito, ognuno vede all’opera numerosi professionisti. Il primo step è quello più immediato, comune a molti altri media a partire dal libro, la traduzione: il trasferimento, cercando di restare il più “fedeli” possibile, dei significati da una lingua all’altra, dall’inglese dell’originale all’italiano della copia. Ma le versioni letterali dei dialoghi non calzano quasi mai a pennello sui volti e sulle espressioni degli attori americani (o inglesi): si apre così uno spazio per l’adattamento, fase dai contorni più confusi ma dalle conseguenze almeno altrettanto importanti. Da un lato, si cerca il sincronismo, sia esso labiale – le parole italiane devono risultare naturali sui movimenti delle labbra di un’altra lingua, con le vocali al posto giusto – o espressivo – e qui l’attenzione va ai tempi, alle pause, alle risate, ai sospiri. L’italiano della traduzione corretta va smontato, spostato, persino accorciato: nello stesso lasso di tempo, la nostra lingua dice molte meno cose dell’inglese. Dall’altro, si opera con la lingua di arrivo, ridefinendo i giochi di parole, i gerghi, i linguaggi specialistici, i dialetti e gli accenti. Da un altro lato ancora, infine, si “sistema” il programma dal punto di vista culturale: conservando i riferimenti a istituzioni, oggetti, prodotti mediali noti al pubblico previsto (dal Ringraziamento alla Pepsi); sostituendo (a dire il vero, sempre più di rado) quelli meno conosciuti con il loro corrispettivo (è così che, nei Simpson, prima stagione, si trova un immortale Marco Columbro che rimpiazza Fred Flintstone); elidendo il nome proprio e passando alla categoria generica per tutto quello che sta nel mezzo. Solo allora, fatte tutte queste scelte, si passa al doppiaggio vero e proprio, di nuovo una fase formalizzata, con l’incisione (non ordinata e non sincronica) delle tracce audio corrispondenti ai differenti personaggi, il controllo del risultato da parte del direttore di doppiaggio, la “sistemazione” tecnica e artistica di caratteristiche come l’intonazione, la grana della voce, gli effetti (che sono anche effetti di senso). Certo, a partire dall’audio originale che tutti ascoltano nelle loro cuffie. Ma con buone dosi di improvvisazione – ancora una volta, “adattamento” –, giustificata o meno dal testo di partenza. E non è finita. Dopo aver registrato tutte le tracce voce, è la volta della post-produzione. L’audio viene sincronizzato, unito ai rumori e alle canzoni della colonna sonora (originale) e mixato fino a trovare una forma definitiva. E il video, finora fuori dai giochi, subisce quelle piccole modifiche che aiutano a tradurre tutto ciò che non viene pronunciato, come i sottotitoli esplicativi di cartelli e titoli di giornali. Nei cartoni animati, si riscrivono i vari testi, in modo più o meno accurato, direttamente sull’immagine.

Alla complessità dei processi produttivi e delle routine corrisponde un gran numero di addetti ai lavori. Molti con qualche voce in capitolo (e possibilità di orientare il risultato dell’edizione italiana), tutti con obiettivi ben precisi (e talvolta divergenti). C’è il distributore internazionale, che pretende una versione accurata che non squalifichi il prodotto sul mercato italiano, e (di rado) controlla e interviene sulle scelte macro dell’adattamento. Ci sono il gruppo editoriale, la rete che manderà in onda la serie, la struttura interna al broadcaster dedicata alla realizzazione delle edizioni italiane, che hanno in mente il tipo (o i tipi) di pubblico cui si rivolgerà il programma e così cercheranno (pur indirettamente) di fare in modo che il doppiaggio si adegui (e faciliti) questo obiettivo. Ci sono i traduttori, che portano nel processo di adattamento competenze diverse, radicate nel mondo editoriale e nelle sue consuetudini. Poi ci sono i responsabili dei dialoghi italiani, consapevoli dei limiti tecnici del mezzo come delle sue potenzialità, alla ricerca della giusta quadratura tra la correttezza di un buon lavoro e un tocco “artistico”, personale. Ci sono i doppiatori che, soprattutto quando si tratta di professionisti riconosciuti, possono intervenire in sala, “in diretta”, sulle battute che stanno per pronunciare. C’è il direttore di doppiaggio, che avalla queste modifiche e può suggerirne altre, cercando di ottenere il miglior prodotto possibile (che, dal suo punto di vista, è anche quello che dà meno grane con la rete). Ci sono l’assistente di doppiaggio, che controlla con precisione i tempi di pronuncia delle battute (e può innescare il processo che porterà a decidere di accorciarle), e ancora i tecnici di post-produzione (che, per esempio, nelle modifiche sul video devono tenere conto di quanto viene pronunciato in doppiaggio, e non soltanto dell’originale).

Il doppiaggio è un bene o un male? Probabilmente, le due cose insieme. È vero che solo l’originale permette di sentire appieno la recitazione degli autori, di cogliere le sfumature e la scelta pesata delle parole. Ma è anche vero che l’adattamento serve, così da consentire a più gente possibile di accedere al programma, da permettere una visione distratta a chi magari privilegia il contenuto sullo stile, in fondo per divertire (che sarebbe poi lo scopo principale).

Pro e contro

Il monolite doppiaggio si rivela così ben più sfaccettato, con un prodotto finale – l’edizione italiana della serie – che si ottiene al termine di numerosi passaggi e con il concorso di varie figure professionali. Ma cosa succede all’episodio “originale” per tutto questo tempo? Gli estremi, come spesso accade, ci dicono poco: se non esiste la traduzione “perfetta”, è anche vero che uno degli obiettivi costanti di tutte le fasi è avvicinarsi il più possibile a questo ideale. Il testo si modifica di fase in fase, via via che passa di mano in mano. La traduzione porta inevitabilmente a delle differenze rispetto all’origine, l’adattamento – anche solo per ragioni strutturali, legate ai limiti “tecnici” del lavoro – le può approfondire. La ricerca di una comprensibilità maggiore, retaggio di una visione del grande pubblico come passivo e distratto, è alla base della maggior parte delle modifiche “giustificate” del testo. Una semplice dimenticanza può portare a tradurre in modo diverso la stessa cosa, magari a distanza di qualche stagione. E spesso i dialoghi cambiano, rispetto alla puntata in inglese, per pure e semplici ragioni produttive, interne alla logica (all’ideologia) di chi lavora nel settore: da un lato, per ottimizzare i processi quasi ogni doppiatore incide le sue battute da solo, magari in ordine sparso rispetto al senso logico delle puntate e delle stagioni, intervenendo con piccole modifiche su linee (in gergo, anelli) slegate dal contesto “naturale”; dall’altro, può accadere che, in una sorta di auto-censura “preventiva”, le battute “scomode” (come il riferimento all’hashish ne I Simpson) spariscano dall’italiano non tanto per questioni testuali o morali, quanto piuttosto per evitare di essere costretti a doppiare una seconda volta le stesse battute, magari su richiesta del broadcaster. Vanno poi tenute in considerazioni le abitudini, che sono del pubblico almeno quanto degli addetti ai lavori, e che portano spesso a dare questi processi per scontati e invisibili o, se si è contrari, inevitabili anche se dannosi. Senza contare, infine, che almeno parte del significato (e, volendo, del successo) che una serie ha in Italia prescinde dalle caratteristiche del suo adattamento, ma ha a che fare con la sua collocazione in palinsesto, con la scelta di una piattaforma, di una rete, di un orario, di un target, con il suo sfruttamento sullo schermo. Che può essere quello giusto (accade spesso, nell’indifferenza dei più) o quello sbagliato (e qui lo strepito è forte).

Messe tutte le carte in tavola, servirebbe la sintesi: il doppiaggio è un bene o un male? Probabilmente, le due cose insieme. È vero che solo l’originale permette di sentire appieno la recitazione degli autori, di cogliere le sfumature dell’intonazione e la scelta pesata delle parole, mentre l’edizione italiana è qualcosa di profondamente diverso, anche quando è precisa e accurata. Ma è anche vero che l’adattamento serve, così da consentire a più gente possibile di accedere al programma, da permettere una visione distratta e poco impegnativa a chi magari privilegia il contenuto sullo stile, in fondo per divertire (che sarebbe poi lo scopo principale). Così come è vero che le alternative hanno altrettanti difetti (e danno luogo a simili imprecisioni): Alfred Hitchcock raccontava a François Truffaut che un film perde il quindici per cento della sua forza quando è sottotitolato, il dieci per cento soltanto se è ben doppiato”, ben consapevole di quanto la lettura distragga dall’immagine, e probabilmente di quanto l’obbligata anticipazione di alcune battute rispetto ai tempi e alle esitazioni della pronuncia possa rovinare il piacere del testo. Infine, man mano che l’attenzione critica e di pubblico sulle serie tv è aumentata, è vero che sono parallelamente cresciuti l’impegno e le risorse a disposizione per l’adattamento italiano, con un rispetto quasi filologico (date le condizioni) per il testo di partenza e, più in generale, una qualità che ormai spesso supera quella del doppiaggio cinematografico.

Insomma, la soluzione all’annoso dilemma (e il verdetto di questo confuso processo) è forse una sola: non ci sono un bene e un male, basta poter scegliere. Il dvd e le piattaforme digitali, satellitari e terrestri, ormai forniscono doppio audio e sottotitoli (in doppia lingua) per gran parte della programmazione. E basta un tasto per passare da Dan Castellaneta a Tonino Accolla. Sempre vedendo gli stessi Simpson. O forse no.


Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

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