Da Nine Perfect Strangers a The Undoing, da Succession a The White Lotus, nella serialità statunitense di oggi anche i ricchi piangono. Tra tentativi malfermi di critica sociale e il fascino dello spioncino.
Lo scorso agosto è uscita la notizia che Brit Marling e Zal Batmanglij, showrunner del cult di Netflix The O.A., sarebbero tornati a lavorare insieme per una nuova serie tv dal titolo Retreat, prodotta da Fx: si tratterà di un mystery – riporta Variety – e avrà come protagonista una detective che deve risolvere un caso di omicidio avvenuto “in un luogo sperduto e strepitoso” durante un ritiro organizzato da un miliardario. È evidente che Marling e Batmanglij hanno scelto di inserirsi in un filone sempre più esplorato nella serialità televisiva – da Big Little Lies al più recente Nine Perfect Strangers –, con storie di vite privilegiate, malsane e piene di misteri, ma chissà con quale approccio e chiave di lettura.
La ricchezza, il lusso sono sempre stati al centro di molte delle serie tv più celebri e amate dal pubblico: pensiamo a Dynasty, Beverly Hills 90210, Sex and the City, The O.C., tutti titoli che ci spingono a provare empatia verso personaggi che vestono abiti firmati e vanno alle feste su costosi yacht, subendone più o meno il fascino a seconda del nostro status sociale. Si parla di “wealth voyeurism” e si basa sull’irriducibile curiosità verso le vite dell’1% della popolazione. Ma in un’epoca in cui la questione di classe è pressante, le disuguaglianze sociali crescono a dismisura e frasi come “tax the rich” o “eat the rich” diventano più mainstream, non c’è spazio per l’empatia: si fanno largo rabbia, disprezzo, odio, e soprattutto una critica sociale sempre più presente negli universi seriali. Con risultati però raramente all’altezza delle aspettative.
Lotta manichea
Lo scorso anno su Amazon Prime Video è uscito il drama Little Fires Everywhere, tratto dall’omonimo romanzo di Celeste Ng e incentrato sull’intersezione tra privilegio di classe e razzismo, che emergono dall’incontro-scontro tra due famiglie molto diverse tra loro e soprattutto tra due madri: Elena e Mia, la prima bianca e borghese, la seconda nera e nomade. Con un ruolo fin troppo simile a quello che aveva in Big Little Lies, Reese Witherspoon interpreta una donna ossessionata dalla perfezione, dalle regole e dalle apparenze, che prima veste i panni della “white savior” ma poi non esita a usare il suo privilegio contro Mia (Kerry Washington) quando quest’ultima diventa “una minaccia”. “Tu non hai fatto buone scelte, hai avuto buone scelte. Possibilità che hai avuto grazie all’essere ricca, bianca e privilegiata”, afferma Mia in un episodio, sottolineando le differenze tra lei ed Elena. “Le donne bianche vogliono sempre essere amiche della loro cameriera”, prosegue poco dopo.
L’intera serie è puntellata da discussioni, botta e risposta da manuale; e se da un lato rappresenta con precisione le tante forme di discriminazioni e aggressioni possibili, dall’altro è fin troppo didascalica, con una lotta manichea. Constance Grady su Vox scrive che Little Fires Everywhere “si allontana dalle sottigliezze e dalle sfumature del suo materiale di partenza in favore di un’amplificazione al massimo del melodramma”. Daniel D’Addario su Variety indica invece i dibattiti impostati che “finiscono in un luogo di scialba inevitabilità” in cui Elena dice sempre “qualcosa di ovviamente, stupidamente razzista o orribile”. La miniserie non ha convinto la critica, salvo il modo in cui indaga il tema della maternità.
Dead Girls
Anche The Undoing ha lasciato piuttosto fredda gran parte della critica, riscontrando maggior successo invece tra il pubblico tanto da diventare la serie più vista del 2020 su Hbo. Il merito della serie è di avere un cast di spicco come Hugh Grant e Nicole Kidman, che vestono i panni di Jonathan e Grace Fraser, marito e moglie in un classico thriller ambientato nell’elegante Upper East Side di Manhattan. Anche qui le somiglianze con Big Little Lies – il creatore è sempre David E. Kelley – sono molte, dalla famiglia ricca e all’apparenza felice, fino al delitto che fa partire le indagini e l’intera storia. Ma nonostante il palese divario di classe tra la famiglia Fraser, bianca e benestante, e la vittima Elena Alves (Matilda De Angelis), Bipoc e appartenente alla working class, la questione del privilegio non è mai affrontata ma solo toccata in superficie: “È quello che fanno le persone ricche e privilegiate quando si sentono minacciate. Nascondono le verità scomode, per proteggere se stessi”, dice in una scena l’avvocata di Jonathan. “E pensano di farla franca, perché sono ricchi”. The Undoing si limita insomma a inserire qualche dialogo, a “sbandierare” parole come “white privilege”, come scrive Ben Travers su Indiewire ma “non ha niente da dire sulle disparità di ricchezza, e non si prende il tempo di esplorare le prospettive delle vere vittime”.
The White Lotus racconta le ipocrisie, le umiliazioni, il ridicolo, il marcio che si nasconde dietro le vite di questi ricchi vacanzieri, in un vortice di azioni sempre più riprovevoli, degradanti ed esilaranti, che catturano l’attenzione di chi guarda. Per questo la serie è diventata subito un must-watch dell’estate, riscuotendo un ampio consenso nonostante alcune contraddizioni di fondo.
Il personaggio di Matilda De Angelis è l’ennesima dead girl uccisa brutalmente, la cui sola funzione è dare avvio a una storia di cui non è mai protagonista, soggetto, ma solo oggetto sessualizzato, come in quasi tutti i crime cosiddetti “dead girl show” – pensiamo a Twin Peaks e True Detective. Ciò che caratterizza Elena è perlopiù la sua bellezza e sensualità – nel primo episodio c’è anche un nudo integrale gratuito – e nella gran parte delle scene la vediamo mentre fa sesso oppure viene uccisa. “La sua lussuria sfrenata l’ha portata a far nascere la figlia di Jonathan, un’interruzione scandalosa delle norme familiari. Alla fine, lei è la sgualdrina”, sostiene Shannon Keating su BuzzFeed, “il perfetto contraltare della pallida e angelica Grace, che sembra appena uscita da un quadro di Botticelli”. L’empatia è per quest’ultima, tradita dal marito omicida, che cammina in lungo e largo per New York nei suoi cappotti chic (diventati subito un must-have); mentre il tentativo di costruire una critica più acuta e strutturata alla ricchezza fallisce.
Punti ciechi
Il fatto è che mettere alla berlina i propri protagonisti e le loro vite privilegiate non è semplice. Il rischio è di incrinare il delicato rapporto che si instaura tra personaggi e pubblico, e di respingere chi guarda al punto da abbandonare la visione. Per questo si punta più sull’identificazione, sulla fascinazione del lusso, con uno sguardo più conciliante e meno critico. Come spiega Hannah Giorgis su The Atlantic, The Undoing cade proprio in questo errore perché “non importa quanto spiacevoli siano le loro circostanze, la serie ci ricorda a ogni occasione che questi personaggi conducono comunque vite invidiabili. Finché i soldi rimangono, il mondo è loro e così la nostra attenzione”. Quest’estate però è uscita una serie tv, un po’ comedy un po’ drama, che ha evitato molte trappole tipiche di queste narrazioni, mettendo in scena una satira sociale quasi perfetta. Andata in onda in Italia su Sky Atlantic e ambientata in un resort alle Hawaii, The White Lotus ha come protagonisti dei personaggi egoisti, insensibili, odiosi e privilegiati, che continuano a prendere e pretendere sempre di più, convinti che ogni cosa spetti loro di diritto.
“Immagino non sia rubare quando pensi che sia già tutto tuo”, dice Paula all’amica bianca e benestante Olivia, con cui è in vacanza, nel tentativo di farle capire cosa significa nascere con certi privilegi, e far parte della “tribù” degli usurpatori che hanno cacciato gli abitanti del posto per costruire alberghi di lusso. La critica al capitalismo, al colonialismo e all’imperialismo in The White Lotus è così radicale che non si salva quasi nessuno. Anche chi è più consapevole come la stessa Paula, che prima mette nei guai Kai – nativo delle Hawaii e dipendente dell’albergo – spingendolo a rubare alla famiglia di Olivia, ma poi è incapace di voltare le spalle all’amica e a tutto quello che comporta stare all’interno del sistema di potere. Alla fine, infatti, nulla cambia in The White Lotus, e chi cerca di ribaltare lo status quo finisce per farsi inglobare oppure soccombere, letteralmente, come accade al direttore del resort Armond.
Lo showrunner Mike White racconta le ipocrisie, le umiliazioni, il ridicolo, il marcio che si nasconde dietro le vite di questi ricchi vacanzieri, in un vortice di azioni sempre più riprovevoli, degradanti ed esilaranti, che catturano l’attenzione di chi guarda. Per questo la serie è diventata subito un must-watch dell’estate, riscuotendo un ampio consenso nonostante alcune contraddizioni di fondo: Lorraine Ali su Los Angeles Times afferma che “The White Lotus soffre degli stessi punti ciechi verso il personale che hanno i suoi personaggi benestanti”, perché lascia in secondo piano le storie di nativi e dipendenti del resort. Tanto che alcuni di loro come Kai – arrestato dopo il furto commesso – scompaiono del tutto dalla scena. E se da un lato questa marginalizzazione potrebbe essere letta come parte della critica stessa al classismo imperante, dall’altro è evidente una certa stereotipizzazione dei locals. Sempre disponibili e accoglienti, come sottolinea Mitchell Kuga su Vox: “Quanto successo può avere un pezzo di satira se replica le stesse strutture di potere che pretende di criticare?”
Parodia scialba
Del resto, quello di Mike White è pur sempre il punto di vista di un uomo bianco americano che possiede una casa a Hanalei, un villaggio delle Hawaii: “All’inizio pensi ‘È così bello! Sono in contatto con la natura ed è così terapeutico’. Poi ti rendi conto che è stato realizzato sulle spalle di persone che hanno avuto una storia complicata proprio con persone come me”. L’esserne consapevole però non gli ha impedito di cedere a certo esotismo, tanto da inserire nel finale un “po’ di fantasia e speranza” con il personaggio di Quinn (fratello di Olivia), che abbandona la famiglia per rimanere sull’isola, ovviamente perché ha le possibilità per farlo. In ogni caso, The White Lotus resta una delle serie tv più acute sui mali del privilegio di classe mai realizzate. Non si può dire lo stesso di Nine Perfect Strangers, uscita su Amazon Prime Video a poche settimane di distanza e ambientata in una sorta di spa della California, in cui si ritrovano nove estranei – quasi tutti ricchi e bianchi – per un ritiro benessere. Lo showrunner David E. Kelley, qui insieme a John Henry Butterwort, anche stavolta adatta un romanzo di Liane Moriarty e punta su un cast di prim’ordine (su tutti, ancora Nicole Kidman). Limitandosi a qualche allusione alle storture dell’industria occidentale del benessere, con una scrittura scialba e piena di cliché.
Schitt’s Creek si diverte a ridicolizzare le stravaganze delle classi agiate, raccontando cosa succede quando una famiglia ricchissima perde tutto ed è costretta a vivere nel motel di una cittadina acquistata anni prima solo per scherzo: i Rose sono snob, egoisti, anaffettivi ma a Schitt’s Creek sono loro gli outsider che devono integrarsi nella comunità, nonché trovare nuovi modi per guadagnarsi da vivere.
Melanie McFarland su Salon scrive che Nine Perfect Strangers “non riesce a decidere se sia una parodia dell’industria del benessere o un thriller, una commedia o un dramma”; Scaachi Koul su BuzzFeed si chiede addirittura se la serie non sia “scritta da un algoritmo” perché ha molti elementi comuni ai prestige drama di successo degli ultimi anni ma in realtà è solo “robaccia in abiti prestigiosi”. In un’intervista del 2018 la scrittrice Moriarty ha dichiarato di essere affascinata da come il “desiderio di trasformare corpo e spirito sembra sia diventato la nuova religione”; un’ossessione che naturalmente solo poche persone possono permettersi. Ma diversamente da The White Lotus, la serie non ridicolizza i suoi personaggi tormentati, disposti a tutto pur di essere felici (spendere migliaia di dollari o accettare droghe sperimentali da sedicenti guru), al contrario li compatisce, nella speranza che il pubblico faccia lo stesso.
Oltre il prestige drama
Da Little Fires Everywhere a Nine Perfect Strangers, la prestige television americana (o presunta tale) sembra avere davvero una predilezione per le storie dei ricchi, nonostante la critica al privilegio di classe ormai si riscontra sempre più spesso anche in altri generi. Search Party per esempio è una dark comedy su un gruppo di amici senza arte né parte, che vanno alle feste, cercano i locali più alla moda di Brooklyn e vivono sopra le loro possibilità; sono disagiati, precari ma anche narcisisti e altamente privilegiati. La serie è una satira cinica e spietata che prende in giro questi millennial, capaci di farla franca persino dopo aver commesso un omicidio, e che mette sotto accusa l’intero sistema di giustizia americano. La satira delle élite fuori dal mondo è presente anche nella comedy canadese Schitt’s Creek (pluripremiata agli Emmy 2020), che si diverte a ridicolizzare le stravaganze delle classi agiate, raccontando cosa succede quando una famiglia ricchissima perde tutto ed è costretta a vivere nel motel di una cittadina acquistata anni prima solo per scherzo: i Rose sono snob, egoisti, anaffettivi ma a Schitt’s Creek sono loro gli outsider che devono integrarsi nella comunità, nonché trovare nuovi modi per guadagnarsi da vivere. Nella dark comedy distopica Made for Love, invece, la critica sociale passa attraverso la storia di Hazel: una donna in fuga da un matrimonio tossico e da un marito miliardario che ricorda fin troppo Elon Musk e Zach Zuckerberg. Anche qui non si fa altro che prendere in giro le stranezze e manie di grandezza dei magnati della Silicon Valley, noncuranti dei danni delle loro innovazioni, realizzate sulle spalle di chi appartiene al 99% della popolazione.
Mondo decaduto
Senza dubbio, mettere in scena una critica tagliente ed efficace allo status quo è più congeniale al registro della commedia, come dimostra anche The White Lotus. Non sorprende allora che la satira più affilata e intelligente sul privilegio sia una commedia nera travestita da prestige drama. Prendendo ispirazione dalle tante dinastie esistenti, dai Murdoch ai Trump, la pluripremiata Succession racconta i giochi di potere della famiglia Roy, senza però scadere nella fascinazione o pornografia della ricchezza. Perché se il patriarca Logan Roy è forse il più narcisista e crudele, anche i figli sono mostruosi a modo loro, divorati dall’ambizione, dall’avidità e dalla ricerca costante dell’approvazione del padre-padrone. Molte loro azioni sono infatti il frutto di un contesto familiare del tutto disfunzionale, in cui non esiste affetto, amore o comunicazione, e invidiarli o parteggiare davvero per loro è impossibile: come in The White Lotus, assistiamo a ogni tipo di bassezza e umiliazione – memorabile è la scena del “porco a terra” –, a volte proviamo compassione ma subito dopo avversione, disgusto e, divertiti, continuiamo a guardare. In attesa del prossimo disastro, che sia del secondogenito Kendall, costantemente diviso tra il desiderio di compiacere e distruggere il padre allo stesso tempo; o della sorella Siobhan, opportunista, corrotta e scaltra ma non abbastanza da sfuggire alle manipolazioni del capo famiglia.
Come scrive Jason Concepcion su The Ringer, “Succession è ben girata e ha dialoghi infuocati e un cast di talento che è uno spettacolo per gli occhi. Ma non eleva i suoi personaggi, orribili; li espone”, facendosi metafora di come “il capitalismo sfrenato finisca per divorare se stesso alla fine, o forse come il suo successo contenga i semi della sua stessa distruzione”. La parabola autodistruttiva di Kendall è forse la più emblematica: dopo la possibilità (o meglio l’illusione) di succedere al padre, è estromesso dall’azienda di famiglia, ricomincia a fare uso di droghe, rimane coinvolto in un incidente mortale ed è costretto ad accettare l’aiuto del padre, che torna così a controllarlo e usarlo a suo piacimento. E anche se il finale della seconda stagione si chiude con un nuovo tentato parricidio, è improbabile che Kendall riesca a emanciparsi o a mettere in atto un reale cambiamento all’interno della Waystar Royco. “Sono così isolati e in una tale bolla di privilegi, e si vede quanto questo li renda miopi”, ha dichiarato l’attore Jeremy Strong, “È una visione di un mondo decaduto. Se questo è l’eroe del nostro tempo, è un tempo vile”. Ed è proprio questo che manca a tutte le altre serie tv e che fa di Succession il miglior privilege drama: la rappresentazione di una rovinosa caduta, di un’inesorabile disfatta delle classi agiate. “Eat the rich”, si diceva, ma nell’attesa possiamo almeno divertirci a guardarli mentre si divorano tra loro.
Manuela Stacca
Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.
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