In tempi più femministi, che spazio rimane al cinema e nelle serie tv per la femme fatale, per quella rappresentazione del femminile dalla lunga, gloriosa e perturbante storia? Qui tutto è cambiato.
Nel cinema e nelle serie tv, con l’onda del cinema post #metoo, le protagoniste femminili hanno riconquistato sempre più spazio, soprattutto in ruoli che le rendono più emancipate dalla lente dello sguardo maschile. Le final girl sono sempre più coscienti e autonome dal gioco voyeuristico, fino a diventare contemporaneamente vittime sacrificali, eroine e aguzzine, come nel progetto di Ti West (X, Pearl e MaXXXine). Ci sono vendicatrici e macchinatrici (l’Amy Dunne di Gone Girl, l’Emily Nelson di Un piccolo favore), protagoniste sadiche e scatenate (Knock Knock di Eli Roth, Spring Breakers di Harmony Korine, Assassination Nation di Sam Levison), oppure protagoniste filosofiche (l’Ava di Ex Machina, Alex Garland). E le femme fatale? Quelle sembrano sparite.
Esemplari ormai rarissimi nel panorama audiovisivo, che ne è stato di loro? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro e chiarire un equivoco di base. Chi è la femme fatale? Messa in piega peek-a-boo alla Veronica Lake (La chiave di vetro), abiti a sirena alla Ava Gardner (I gangsters), sigaretta d’ordinanza alla Rita Hayworth (Gilda), tendenzialmente di poche parole, seduttive grazie a un fare sfuggente, questa l’immagine classica che si è cristallizzata nel periodo d’oro del noir americano. Con gli anni Ottanta, nel solco del neo-noir, e poi nei Novanta, con i thrilleracci “alta tensione”, questa immagine cambia, le gonne si accorciano, le gambe si aprono, le divise d’ordinanza diventano tailleur e tubini. Ma sarebbe un errore ricondurre tutto a una mera questione di stile. Come è sbagliato identificare la femme fatale solo nell’antagonista dell’eroe maschile: Beatrix Kiddo (Kill Bill) non è una femme fatale, Cassie Thomas (Promising Young Woman) nemmeno.
Si fa presto a dire femme fatale
Quello incarnato dalle dark lady è valore, un’astrazione. Le loro motivazioni non sono mai strettamente personali, il loro obiettivo è la sopravvivenza in un ambiente ostile che non ne riconosce il valore, non la vendetta. Come dice la Marchesa Isabelle de Merteuil (Glenn Close in Le relazioni pericolose), “Sono una donna. Le donne sono obbligate ad essere molto più abili degli uomini. Potete guastarci la reputazione e la vita solo con poche parole ben scelte; quindi è chiaro che io non ho dovuto inventare solo me stessa, ma espedienti di fuga a cui nessuno aveva mai pensato. E ci sono riuscita perché io ho sempre saputo di essere nata per dominare il vostro sesso e anche il mio”.
Senza i vincoli della censura, con l’avvento del neo-noir, la logica della femme fatale viene sovvertita, da figura minacciosa ma fantasmatica, al pari della fiamma di una candela (latente, sfuggente, spettrale e destinata a estinguersi), si evolve in una figura materica e aggressiva, esplicita e diretta: manifesta.
Queste donne incarnano nello stesso corpo un’urgenza di rivalsa sociale e (quindi) una minaccia per i maschi (eterosessuali – per quelli omosessuali rappresentano invece un awakening). “La femme fatale accompagna una sorta di primordiale rivalsa della donna che non può che passare, trattandosi di un evidente tentativo di emancipazione, attraverso la distruzione della figura maschile, ribaltando, con un solo sguardo feroce, la posizione di sudditanza che per secoli ha dovuto suo malgrado accettare”, scrive Alessandro Calligaro nel suo Femmine folli. Il lato oscuro del femminile dalla Bibbia a Kill Bill. Poi, come spiega Janey Place in Women In Film Noir, “Il mito della donna forte e sessualmente aggressiva dapprima le permette di esprimere sensualmente il suo pericoloso potere e i suoi terribili risultati, ma poi la distrugge, portando così alla luce le preoccupazioni represse per la minaccia femminile della dominazione maschile”. Questo avviene perché le dark lady del cinema (e prima ancora quelle in letteratura) sono proiezioni maschili, fantasmi di paure, traumi rimossi e inquietudini. Tra gli anni Trenta e Quaranta il ruolo della donna nella società statunitense cambia in maniera tale da allungare sul maschio l’ombra di una minaccia, quella di un sovvertimento sociale: la donna ha accesso a nuovi posti di lavoro, può essere indipendente.
L’enigma della femme fatale
Al cinema, queste donne fatali sono quindi destinate a una brutta fine, perché l’equilibrio deve essere ristabilito, le loro ambizioni soppresse. Si rivelano figure sovversive solo in potenza, perché il loro destino è quello di soccombere a sé stesse. “Il fantasma della donna onnipotente la cui attrazione irresistibile rappresenta una minaccia non solo per la dominazione, ma per l’identità stessa del soggetto maschile, è il ‘fantasma fondamentale’ in rapporto al quale si definisce e si fonda l’identità simbolica maschile. La minaccia rappresentata dalla femme fatale è quindi falsa: in realtà, è un supporto fantasmatico della dominazione patriarcale, una figura nemica generata dal sistema patriarcale stesso”, come scrive Slavoj Žižek nella sua raccolta di saggi sul cinema, Una lettura perversa del film d’autore.
Quando il Codice Haynes entra in disuso la trasgressione non è più criptata, ma diventa esplicita, perdendo così il suo potere trasgressivo. Senza i vincoli della censura, con l’avvento del neo-noir, la logica della femme fatale viene sovvertita, da figura minacciosa ma fantasmatica, al pari della fiamma di una candela (latente, sfuggente, spettrale e destinata a estinguersi), si evolve in una figura materica e aggressiva, esplicita e diretta: manifesta. “Dopo un’epoca di yuppismo prevalentemente virile – spiega Pier Maria Bocchi in Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir – il maschio è ridimensionato dall’immagine stessa della femme fatale […] e finisce infine stritolato da una sessualità altra che non ammette repliche, che sfrutta il presente a proprio tornaconto e che del noir classico è insieme ricordo e cerimonia funebre […]. È infatti la femme fatale di Basic Instinct a rintrodurre sul mercato internazionale l’immagine di una sensualità i cui precedenti sono molto lontani nel tempo”. Il sesso non è più un’illusione, è un’arma, e la donna non ha paura di usarlo.
Fantasmi nascosti, tentazioni reali
Il neo-noir porta quindi alla luce questo fantasma nascosto. La nuova femme fatale riduce il partner a un oggetto sessuale senza farne mistero e qui avviene un vero corto circuito. L’uomo – di fronte alla minaccia (e all’offerta) esplicita – non vede più una figura predatoria ma una donna da salvare, da redimere: l’inganno è autoindotto e sta nella manifesta verità (torniamo alla lettera rubata di Poe). La nuova dark lady si comporta in modo opposto a quella tradizionale, realizza il desiderio (pornografico) inespresso dell’uomo, e così lo frustra, vanifica, umilia. Catherine Tramell (Basic Instinct) e Trina Gavin (Jade) giocano con la loro identità, ma si concedono con (falsa) generosità e (reale) appagamento. È l’uomo che su di loro proietta un nuovo fantasma, quello della donna da salvare, da redimere.
Gli esempi sono tanti, da Brivido caldo (Lawrence Kasdan, 1981) a L’ultima seduzione (John Dahl, 1994), da Jade (William Friedkin, 1995) a Triplo gioco (Peter Medak, 1993). Questo ribaltamento (la trasgressione diretta) spiega come la messa in scena del lato perverso nascosto – dal fantasmatico represso, sottinteso o soltanto accennato – rende il loro impatto sovversivo innocuo (a conferma della tesi freudiana per cui non è la perversione a essere sovversiva, ma la sua negazione). Come notato da Žižek, la Bridget Gregory dell’Ultima seduzione, a differenza di Brigid O’Shaughnessy (Mary Astor) di The Maltese Falcon (1941) di John Huston, “sovverte il fantasma masochistico maschile perché lo realizza direttamente e in modo brutale, mettendolo in scena nella ‘vita reale’”. Bridget è volgare, calcolatrice, anaffettiva, e non fa nulla per nasconderlo: “Who’s a girl gotta suck around here to get a drink?”, chiede entrando in un bar di provincia durante la sua fuga dal marito. Mike, il giovanotto che cade nella sua rete, cercherà per tutto il film uno spiraglio di romanticismo: “I’m trying to figure out whether you’re a total fucking bitch or not”. Lei ribadisce: “I am a total fucking bitch”. La trasgressione è messa così in atto, il sogno erotico dell’uomo si realizza e questo ne vanifica la forza disturbante. La seduzione è un gioco che la nuova dark lady ha vinto perché ha saputo cambiarne le regole, giocando d’anticipo.
In un orizzonte (post)postmoderno in cui i generi sono sempre più ibridi e i confini meno netti, con noir e thriller sempre più in crisi, scavalcati da true crime e contaminazioni invadenti, la donna fatale dopo essersi emancipata si frammenta, diventa mimetica, mutante, manifesta fino ai limiti della parodia (Jessica Rabbit) o irriconoscibile, mimetizzata, in un gioco di specchi.
La femme fatale insomma è una figura che si fa ricettacolo di istanze represse, rimosse. Lei sa. Lei è una proiezione di una conoscenza negata, non ancora rivelata. Una delle ultime femme fatale post-classiche probabilmente è la Rita Foster di Cypher (2002), interpretata da Lucy Liu. Nel noir fantascientifico di Vincenzo Natali lei è la depositaria della memoria del protagonista, diventando così una proiezione della sua coscienza. La sua è una nuova incarnazione (in uno specchiamento postmoderno), non più minaccia ma salvezza. In quest’ottica il rimosso diventa una risorsa, al di fuori della guerra tra i generi. Un anno prima un’altra Rita ha incarnato una femme fatale postmodernissima e destrutturata, quella di Laura Harring in Mulholland Drive di David Lynch. Qui, come in Femme fatale di De Palma, è mostrata la dimensione onirica in cui si muove questo topos (i sogni luogo per eccellenza del rimosso): “ci conosciamo solo nei miei sogni”, dice Rebecca Romijn, la dark lady di De Palma alla sua controparte maschile (il fotografo Banderas), in un film di immagini moltiplicate, di sguardi incrociati, destabilizzati, di subconsci alterati. Queste sono femme fatale ormai fuggite dalla logica di punizione e condanna, sono protagoniste celebrali, anche il sesso come arma viene meno.
La frammentazione della femme fatale
Al cinema, ripescando dal filone di genere giapponese (Lady Snowblood di Toshiya Fujita, 1973, per esempio), da Tarantino in poi hanno avuto sempre più spazio le vendicatrici (Il buio nell’anima di Neil Jordan, Lady Vengeance di Park Chan-wook, Confessions di Tetsuya Nakashima), fino al #metoo che nelle istanze generali di questo formato ha trovato la sua forma ideale, con un manifesto come Promising Young Woman di Emerald Fennell. Ma loro non sono femme fatale, non sono proiezioni (esplicite o fantasmatiche) del patriarcato: sono protagoniste reali, avversarie concrete.
In un orizzonte (post)postmoderno in cui i generi sono sempre più ibridi e i confini meno netti, con noir e thriller sempre più in crisi, scavalcati da true crime e contaminazioni invadenti, la donna fatale dopo essersi emancipata si frammenta, diventa mimetica, mutante, manifesta fino ai limiti della parodia (Jessica Rabbit) o irriconoscibile, mimetizzata, in un gioco di specchi volto a sconnettere tutti i tópoi del “canone” (ristabiliti o meno che sia, in finale). Chi è la dark lady di Sex Crimes (Wild Things di John McNaughton, 1998)? Denise Richards, la studentessa bionda e provocante che vuole incastrare il suo insegnante per stupro? Neve Campbell, l’outsider grunge che vive ai margini? O forse, qui, la dark lady è un uomo? Lo stesso Matt Dillon, un insegnante che fa il doppio gioco? O Kevin Bacon, il sergente che gli regge il gioco? Non si capisce più niente. Fino all’ultimo, ennesimo, colpo di scena. Anche in Diabolique 1996, remake a opera di Jeremiah S. Chechik del classico di Clouzot, in chiave lesbo-chic con Sharon Stone e Isabelle Adjani: chi vuole ingannare chi?
Nel panorama dell’audiovisivo contemporaneo la dark lady come concetto non ha vita facile. Rivive, sotto diverse spoglie (mentite e non) in American Horror Story di Ryan Murphy (le streghe, la vampira), serie antologica che gioca con gli stereotipi e gli immaginari del brivido. Olivia Pope, a suo modo, è una femme fatale, è lei a rivelarlo quando dichiara “I am the scandal!”, è lei che attenta alla famiglia presidenziale, al cuore dell’istituzione democratica statunitense, direttamente al centro del sistema valoriale di un’intera nazione. La femme fatale è simbolo di pericolo non perché portatrice di morte (vendetta, raggiro, sciagura) ma perché tradisce il “normale” senso del pudore. In questo senso, con la sua personalissima etica tutta sottosopra Olivia Pope è letteralmente “spudorata”.
Altra caratteristica comune tra le femme fatale è poi il loro passato misterioso, assente. “Le dark lady non hanno passato – scrive Rosa Teruzzi nel suo romanzo giallo/rosa Gli amanti di Brera –. Una dark lady è una fiamma che brucia di peccato. L’uomo che ha sedotto non riesce a immaginarla bambina. […] Lei vive solo nel presente del suo desiderio”. E nell’orizzonte di un personaggio col compito di sovvertire gli schemi e senza passato, Ava, l’intelligenza artificiale di Ex Machina, diventa un raro esempio, perfetto, della femme fatale contemporanea – che, al contrario della Rachel di Blade Runner, alla sua presa di coscienza (letterale) fa coincidere fuga e riscatto dall’uomo (umano).Al cinema oggi le dark lady in purezza rivivono nel solco di quei rari noir cristallizzati in dinamiche più canoniche e tradizionali, come Decision to Leave di Park Chan-wook. Il film, in concorso a Cannes, è un noir dall’impianto classicissimo con un detective che si innamora di una vedova sospettata per la morte del marito. Anche in questo caso, come nei cult degli anni Quaranta, la donna (misteriosa, letale, algida) scardina la moralità del protagonista che tradisce la moglie e si abbandona alle proprie pulsioni (con lei può fumare, abitudine che la moglie gli nega). E come da tradizione, la sua fine non è tra le migliori. Oppure, e sono i casi più rari e interessanti, in operazioni non di ribaltamento, ma di sradicamento totale. Uno degli esempi di femme fatale più letali oggi è quella portata sul grande schermo da Pablo Larraín, Ema. Lo fa sotto copertura. Anche il film è un noir in incognito. La “vittima” non è più l’uomo, l’eroe, ma l’idea e la struttura stessa di famiglia. Larraín intercetta una mutazione sociale in atto, ancora in potenza. In Ema, la sua (omonima) protagonista architetta un piano invisibile per dare forma a una nuova idea di famiglia, distraendo tutti, spettatori compresi, tra una coreografia reggaeton e l’altra. Solo sul finale, quando è troppo tardi per tornare indietro, è chiara la tela del suo intrigo.
Lorenzo Peroni
Storico dell'arte con una lunga storia d'amore per il cinema e la scrittura, non sempre corrisposto. Scrive per Artslife e Doppiozero.
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