Il piacere della scoperta e della sorpresa. Il caso e il caos. Nessun algoritmo può sostituirsi alla consapevolezza che qualcosa di bello sta accadendo altrove, proprio ora, e che basta premere un pulsante per poterlo subito raggiungere.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 25 - Contro la tv. Venticinque miti da sfatare del 06 dicembre 2019
“Nico, abbiamo aggiunto un film che ti potrebbe piacere”. È appena arrivata la mail di Netflix, puntuale come un orologio svizzero che mi sono pentito di aver acquistato. Dice la sinossi: “In questa moderna commedia di formazione le due studentesse modello Amy e Molly trascorrono una serata di ribellione spensierata prima del diploma”, e di seguito i tag: #amiche, #bizzarro, #liceo. Una serata di ribellione. Prima del diploma. Ecco come mi tratta l’algoritmo, che dovrebbe avere una visione d’insieme a me inaccessibile, conoscere le mie scelte ed esitazioni, sapere come uso il cursore, quanti titoli guardo dall’inizio alla fine e quanti ne lascio a metà come cantieri che non saranno mai terminati.
L’algoritmo, progettato per essere il mio assistente personale, il mio agevolatore, il mio arbiter, che si basa sulla freddezza, sull’assenza di emotività e di pregiudizi. E allora perché le amiche ribelli? Perché ci si mette anche Rai Play con i “video visti da utenti registrati con gusti simili ai tuoi”, ossia l’intera fictiongrafia di Beppe Fiorello? Mi hanno sedotto con la promessa del catalogo infinito e ora mi ritrovo in questo triste venerdì sera con Amy e Molly e la voglia di farla finita immantinente. Profilato e mazziato.
Ridatemi la televisione
“L’interattività restituirà il potere al popolo. La tv ha prodotto milioni di bambini ineducabili; i computer li istruiranno. I palinsesti decisi dall’alto ci hanno isolati; le reti di persone comuni torneranno a unirci”. Fa sorridere rileggere queste ironiche parole del 2002 di Jonathan Franzen sulle idee che circolavano allora a proposito di media tradizionali e digitali. Ancor più se pensiamo a come internet ci abbia effettivamente illuso, all’inizio, di poterci muovere liberamente senza imposizioni, uscendo finalmente dalla logica della ricezione passiva. Ma, a un certo punto, come ricorda Dominique Cardon, “persi tra mille e una scelte possibili, ci si è dovuti trovare altre maniere di raccapezzarsi e organizzarsi, per fare una selezione tra le abbondanti informazioni disponibili e per guidare l’utente verso le sue scelte”. Dal verticale all’orizzontale una cosa non cambierà mai: la delega a qualcuno che decide per noi.
L’ossessione algoritmica nel suggerire cose si basa su due assunti di base: il primo è che l’utente abbia davvero bisogno di consigli, senza i quali non è in grado di compiere una scelta nel mare della sovrabbondanza (e se non sceglie è più probabile che uscirà dal gioco, dal catalogo, dai social). Il secondo è che ogni preferenza espressa corrisponda a un’approvazione, a un’indicazione di gusto. Ma, come si diceva nel 2007, retweets are not endorsements. Ciò che mi spinge a guardare una serie o a cercare il giorno dopo nel catalogo un reality non segue necessariamente la freccia del pavimento dell’Ikea. Posso guardare un talk di tre ore sulle assurde vicende di una ex soubrette ormai pensionata del Bagaglino per vari motivi: perché voglio fare il pieno di indignazione per il prossimo dibattito sul declino occidentale, perché non voglio essere escluso dalle conversazioni in ufficio (“Si può sapere chi è Simone Coppi?”) o, semplicemente, perché mi diverto da morire.
La forza ineguagliata della tv risiede proprio nel raccontare una storia più ampia di quella che crediamo di vedere.
Ma se nel caso della tv tradizionale, qualunque sia la motivazione, la mia scelta rimane un numerino, nel caso della visione online essa sarà usata come base per costruire impianti di stretta causalità: siccome questo, allora quello. Il problema non è tanto il rischio dell’identico che si ripete all’infinito, quanto il volermi convincere che questo ambiente astratto sia l’unico orizzonte possibile (“Nico, tu sei Amy e Molly”). Certo, posso ribellarmi (come quando rifiuto il ten years challenge o sbaglio di proposito il codice captcha per non farmi accusare di collaborazionismo il giorno in cui le macchine vinceranno la guerra), ben sapendo però che nel mondo in cui devo dialogare costantemente con l’algoritmo il margine di movimento si è ridotto: ogni mio atto viene tracciato, registrato, usato contro di me. Non posso più fare nulla in santa pace. Non c’è più spazio per la solitudine. E allora? Che bisogna fare? Ridatemi la televisione.
Tra i vicoli della Kalsa
Non ho mai seguito un programma televisivo per intero. Con me la tiritera non cambiate canale, restate con noi non ha mai funzionato. Telecomando, disobbedienza. Ho sempre girato sul due, e poi sul tre, fino all’infinito, qualsiasi cosa stesse succedendo. L’unica fruizione immaginabile, davanti a un teleschermo, è sempre stata l’interruzione, la ricombinazione. Saltellare di canale in canale e ricominciare. Proprio come faccio con le stories di Instagram, che non guardo mai fino alla fine perché nel frattempo sono già passato a quella dopo. Il mio dito, come il telecomando che vorrebbero farmi appendere al chiodo.
Tutti i miei migliori ricordi televisivi, e dunque esistenziali, sono legati a un momento cruciale in cui ho deciso, non decidendolo, di sottrarmi alla passività di spettatore, ritrovandomi in un luogo in cui la mia presenza non era prevista. Se una sera di febbraio del 1992 non avessi cambiato canale mentre a Sanremo cantava Gatto Panceri non sarei finito sui Bellissimi di Rete 4 a vedere un film assurdo di cantanti punk e imperatori di regni immaginari: senza Labirinto di passioni di Almodóvar forse non avrei scoperto che il cinema – e non solo – era altro rispetto ai film che andavo a vedere al Tiffany con i miei compagni il sabato pomeriggio. E se qualche anno dopo non fossi finito per caso su Raidue a guardare il primo docu-reality italiano, Davvero!, nel momento in cui un gruppo di coinquilini si salutava sulle note di Ode to My Family dei Cranberries, non avrei supplicato mio padre di mandarmi a studiare lontano da Palermo (“Ma chi ti mette queste strane idee in testa?” “La tv, papà, la tv”). Zapping. Da sempre un atto tra me e la mia solitudine, quella solitudine che secondo Olivia Laing può offrire una “tregua dall’isolamento”, precondizione necessaria per lasciarsi trasportare dalle correnti della città. Come il perdersi a Belleville o tra i vicoli della Kalsa, allo stesso modo vagare senza meta apparente tra le centinaia di canali tv è un atto interpretativo, creativo. Stimola a riempire i vuoti e i collegamenti, per esempio quando si piomba a film già iniziato. Consente di creare ogni volta un macro-testo nuovo, di scoprire altri mondi, che nemmeno sapevamo di volere, che oggi c’è e domani chissà. L’ignoto ignoto di cui parla Marc Forsyth, ossia le cose che non sappiamo di non sapere e che tuttavia “sono le migliori proprio perché non le conoscevi finché non le hai avute”.
Da tutto ciò è escluso lo spettatore profilato, che si muove nell’eterno adesso del catalogo scelto per te con l’affanno del turista che deve vedere musei e paesaggi obbligati, in un bulimico binge watching di cui alla fine non si riconoscono più i sapori. Le guide turistiche e i pulman sightseeing sono come l’autoplay che alla fine di ogni episodio fa partire quello successivo senza nemmeno muovere un dito. Lo zapping è invece un fremito, che nasce dalla certezza che qualcosa di irripetibile sta succedendo altrove, e che ti dà l’illusione di possedere, per frammenti, tutte le vite che non potrai vivere. Un movimento che sta tra la flânerie di Baudelaire e la deriva di Debord: rinunciare alle sollecitazioni già conosciute e guardare il paesaggio abbandonandosi alla promessa di un senso che presto o tardi sarà rivelato. Non a caso Blob, il miglior programma della storia della tv mondiale, si definisce così: “la tv smontata, rimontata e messa a nudo attraverso il montaggio, per svelare cosa il video e i suoi protagonisti di tutti i giorni ci dicono in realtà”.
Lo zapping, in quanto espressione di un’attitudine esistenziale, può ancora essere la rottura di un ordine precostituito, lontano dalle predizioni costrittive di un oracolo algoritmico capriccioso e spesso ottuso. È necessario però che le vetrine dei palinsesti tornino a brillare, a promettere, a chiedermi di entrare: più diretta, più incertezza, più casualità.
La forza ineguagliata della tv risiede proprio nel raccontare una storia più ampia di quella che crediamo di vedere. Solo con lo zapping possiamo solleticare la presunzione di cogliere questa storia, e di poter abbracciare le altre versioni di noi che altrimenti ci perderemmo rimanendo sempre nello stesso posto, passivamente, non cambiando mai canale, casa, città. Spostarsi per essere veri spettatori, come ricorda Gianni Canova quando scrive della tv nel cinema di Nanni Moretti: “Il piacere è nel transito, nello zapping. Nell’intervallo vuoto – infinitesimale ed eterno – tra il programma che hai appena lasciato e quello che stai per raggiungere”.
L’ignoto, il dimenticato
Un viaggio che contiene miracolosamente due istanze in apparenza inconciliabili. Da un lato partire verso l’ignoto, non sapendo bene dove si sta andando. Dall’altro il movimento dell’eterno ritorno verso qualcosa che avevamo dimenticato di sapere, potere, volere. Secondo Claudio Magris il “conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere. Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro, della seduzione e dell’avventura”. Ecco perché ancora oggi prendo il telecomando in mano e parto: per andare ma anche per tornare. Televisione fa rima con ripetizione, insistenza. Un passato continuamente rimodulato dal prisma dei ricordi che cancellano le cose brutte. Nessun servizio streaming, appeso al buffering, ai cookie, alle pubblicità che si bloccano se apri un’altra finestra, potrà mai eguagliare la seduzione del partire per le lande deserte dei palinsesti del daytime o della notte fonda e ritrovare pezzi di se stessi.
Lo zapping è la colla che tiene tutto assieme: Geppi Cucciari che canta Contessa dei Decibel davanti al Mitzi invecchiato de I ragazzi del muretto; Dan Peterson e Fabio Caressa che si incontrano nel nome del tè caldo e del tè freddo; la voce di Giuppy Izzo che sbuca dall’ennesima replica; la Balivo che parla al telefono con le massaie (“Pronto, da dove chiama? Cosa ha mangiato a pranzo? Buona la cotoletta!”); le televendite dei tappeti sui canali regionali; Antonella Mosetti e Pamela Petrarolo che ballano ancora assieme sulle note di Pedro di Raffaella Carrà, come se io fossi seduto in cucina a rimandare la versione di greco; Joan As Police Woman che canta con Manuel Agnelli e Rodrigo D’Erasmo I’m Lookin’ for the Magic. Ecco la tv che si rivela, come i testi che riaffiorano da un vecchio palinsesto in papiro: Rai Pipol (Raitre) e Propaganda Live (La7) costruiscono mondi che vanno al di là dei frammenti di cui sono composti, grazie alle saette che partono in ogni direzione e restituiscono la sensazione del “noto visto per la prima volta”. All Together Now (Canale 5) non è uno show musicale calante come può sembrare a prima vista: è un programma-zapping, nel solco di Boncompagni e Beldì, che stacca continuamente e soavemente sulle molteplici facce di uno stesso racconto, un clamoroso compendio dei migliori anni della tv commerciale, Ok il prezzo è giusto!, Il gioco dei 9, Non è la Rai, Saranno famosi, L’incantevole Creamy. Molti non detti, molte allusioni. Chi vuol cogliere, colga. L’importante è farsi trovare pronti.
Eppure, negli ultimi tempi, quante volte posso dire di aver praticato la solitudine dello zapping con profitto? Qualcosa è cambiato. L’esistenza del tele-flâneur è messa in discussione, e i servizi streaming non c’entrano. Telecomando e algoritmo, palinsesto e catalogo, “regno del possibile e regno del probabile”. Tutto può coesistere. Stiamo vivendo tutto sommato un’era fortunata. Conta solamente la macchina soggettiva del desiderio, che ognuno asseconda come meglio crede. Il problema per il tele-flâneur è piuttosto il rapporto con l’inatteso. Vale anche per i lettori di libri e per gli spettatori di film e di intrattenimento in genere. Tante piccole riserve indiane che non si sorprendono più di niente.
Nel caso della tv la prima causa va cercata nelle lacrime già versate da prefiche inconsolabili e notizie fortemente esagerate sulla sua morte. Ai tempi della prima stagione di House of Cards, David Fincher dichiarò: “The world of 7:30 on Tuesday nights, that’s dead. The captive audience is gone”. Oggi sappiamo che le cose non stanno così. È vero, i numeri si sono ridotti drammaticamente, ovunque. Ma è come se l’universo si fosse semplicemente contratto: la televisione di flusso ha mantenuto il suo peso, è ancora lì a illuminare quel che resta. Continua a influenzare l’opinione pubblica, attraverso la letale triangolazione tra le home page dei siti mainstream e i social network. È ancora il terreno di conquista di chi pensa di poterla usare per trarne vantaggio: nessun mezzo può garantire numeri così compatti.
Ciononostante, sembra che la stessa tv per prima abbia creduto alla propria fine, ritirandosi in una conservazione al ribasso. A poco a poco il tele-flâneur si è trovato assediato da trasmissioni tutte uguali, buttate in padella ancora surgelate: processi e giudici ovunque, morti ammazzati, il taglia e cuci della politica h24. Se viene meno la sorpresa, la certezza che valga la pena girare l’angolo, allora è preferibile andare a surfare tra le stories di qualsiasi social e dimenticarsi, letteralmente, della televisione. Lo zapping, proprio in quanto espressione di un’attitudine esistenziale, può ancora essere la rottura di un ordine precostituito, lontano dalle predizioni costrittive di un oracolo algoritmico capriccioso e spesso ottuso. È necessario però che le vetrine dei palinsesti tornino a brillare, a promettere, a chiedermi di entrare: più diretta, più incertezza, più casualità. La questione è: la televisione è davvero disposta a differire la fine del viaggio? Nell’attesa io continuo a cambiare canale: qualcosa, come al solito, troverò.
Nico Morabito
Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.
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