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Non è la solita commedia all’italiana!

Che fine ha fatto la lunga tradizione italiana dei film che fanno ridere un pubblico ampio? Fughe, smarginamenti, ibridazioni, rilocazioni della risata cinematografica nazionale: una ricognizione.

“Abbiamo ben visto che con le nostre commedie tutte uguali non stiamo andando da nessuna parte, soprattutto contro la concorrenza dei blockbuster americani”. Lo ha dichiarato di recente in più occasioni Christian De Sica che, per Sono solo fantasmi, il suo nuovo film anche da regista (dopo l’exploit nostalgico del Natale 2018 di Amici come prima con il dioscuro Boldi, 8,2 milioni), ha optato per una curiosa commedia horror tratta da un soggetto originale dei Guaglianone&Menotti di Lo chiamavano JeegRobot, in cui peraltro si indovina il tocco del figlio Brando dietro la mdp (e, se si considera il sincero e sentito omaggio a papà Vittorio, c’è dentro tutta la dinasty De Sica ieri oggi e domani). Magari non è il Ghostbusters all’italiana che molti dicono – anzi, lo stesso regista-attore rifiuta l’etichetta – e certo rimane la perversa curiosità di immaginare cosa sarebbe stato il progetto iniziale, una versione psicotronica de L’abominevole dr. Phibes (sì, quello con Vincent Price, dagli psichedelici seventies britannici!), con De Sica e Boldi nei ruoli di due attori in declino e bolliti decisi a farla pagare ai critici di sempre, perseguitandoli e torturandoli. Però è innegabile che Medusa Film (che distribuisce Sono solo fantasmi, film griffato Indiana Production) ha puntato su un titolo curioso, lontano dalle solite commedie tutte uguali, in fuga spericolata verso altri toni, generi, sapori (anche non così immediatamente autoctoni). 

Certo, non è andata molto bene (1,2 milioni, tiratissimi, dopo un buon inizio, a significare poco o nulla passaparola), peraltro in media con l’andamento pessimo di quasi tutte le commedie nostrane nel periodo autunnale, dove l’unica eccezione che balza all’occhio è il dramedy Mio fratello rincorre i dinosauri (S. Cipani), con 2,1 milioni, bizzarro romanzo di formazione in provincia con fratello down (da un blog di successo, poi anche libro), sul quale sarebbe interessante capire il perché dell’accensione di interesse del pubblico a fine estate. Il tutto, sia detto per inciso, in una stagione, fino a Natale almeno, segnata dalla flessione degli incassi dei “soliti” divi comici, quelli per cui si sceneggiano i contratti, sicuri che tanto il pubblico ci andrebbe comunque, anche se rimanessero fermi davanti alla macchina da presa per un’ora e mezza. Stiamo parlando in particolare del Siani autunnale, Il giorno più bello del mondo, guarda caso un’altra commedia napoletan-fantastica con bambini magici (quasi dalle parti degli sceriffi extra di Bud Spencer e Michele Lupo anni Settanta-Ottanta, ma senza mazzate); e dell’Albanese novembrino, Cetto c’è senzadubbiamente (G. Manfredonia), terzo (stanco) ritorno alla saga qualunquista di Cetto LaQualunque. Entrambi film Vision (e quindi Sky) oltre la distribuzione pura e semplice, entrambi, pur se migliori risultati di stagione del nostro cinema prima delle strenne natalizie, alla fine dei conti molto al di sotto delle proiezioni e delle attese (6 milioni e 4,7 milioni rispettivamente), e soprattutto dei precedenti titoli dei loro protagonisti. Poi, per fortuna, c’è stato un Natale d’oro, oltre l’atteso Zalone (il cui Tolo Tolo è fenomenale negli incassi, ma al di sotto di Quo vado?, 45 milioni, pare, contro quei 60 e rotti di quattro anni fa), per tutti i film italiani, anche le commedie dei soliti noti, ben propiziato dal Primo Natale di Ficarra e Picone (15 milioni contro i 10 del precedente L’ora legale) e poi proseguito nel 2020 con l’ottimo esordio dei redivivi Aldo, Giovanni & Giacomo (e Massimo Venier, non va dimenticato), con Odio l’estate, ormai proiettato sui 7 milioni.

Però il problema per la commedia italiana media, oltre i titoli sopra citati (entrambi Medusa), resta. Ha quindi ragione De Sica quando dice che le nostre commedie tutte uguali non funzionano più, per un pubblico stretto tra i blockbuster statunitensi (che però sono il trionfo del deja vu, della messa in serie, della ripetizione, ormai anche come dichiarazione d’intenti, tra reboot, remake e franchise seriali) e l’imponderabile alea del film fenomeno dell’anno (nel 2019 Joker, l’anno prima Bohemian Rhapsody, quello ancora prima It. Parte prima)? Cambiare si deve, certo. Ma si può? E come? Proviamo a individuare alcune strategie e a saggiarne il funzionamento, almeno in termini di incassi, con l’ovvia premessa che al ragionamento che si tenta qui manca un dato fondamentale, cioè il budget reale di produzione dei film italiani, tenuto più segreto del Terzo segreto di Fatima…

È il cocktail, bellezza! Ovvero: commedie geneticamente modificate

La declinazione fantastica della nostra commedia recente, tentata in ultimo da Sono solo fantasmi, sembra trovare il suo precedente più evidente nell’(inatteso?) successo (quasi 8 milioni) lo scorso Natale di La befana vien di notte, Michele Soavi alla regia, Paola Cortellesi protagonista, Guaglianone alla sceneggiatura, un certo gusto di rifare roba americana new new Hollywood anni Ottanta alla Goonies/Gremlins. Un mix di commedia e fantasy, con Lucky Red e Rai Cinema dietro, che a molti osservatori è parso più un astuto colpo con scasso nei confronti di un pubblico accorso in sala probabilmente per la memoria della precedente Cortellesi da commedia intelligente (esattamente un anno prima, nel periodo natalizio 2018, aveva sbancato i botteghini in coppia con Albanese in Come un gatto in tangenziale). Salvo trovarsi poi un oggetto curioso (e non risolto) che magari sarà piaciuto ai bimbi, ma ha lasciato un retrogusto amaro in bocca agli adulti (paganti). E, difatti, qualche mese dopo, quando l’attrice si è presentata di nuovo in sala con un film – almeno in parte – più in linea con le attese (ma nascosto dietro un titolo sfuggente nella sua vaghezza, Ma cosa ci dice il cervello?, questa volta Wildside con Vision), le cose sono andate molto meno bene del previsto (“solo” 5 milioni).

Ha ragione De Sica quando dice che le nostre commedie tutte uguali non funzionano più, per un pubblico stretto tra i blockbuster statunitensi (che però sono il trionfo del deja vu, della messa in serie, della ripetizione, ormai anche come dichiarazione d’intenti, tra reboot, remake e franchise seriali) e l’imponderabile alea del film fenomeno dell’anno? Cambiare si deve, certo. Ma si può? E come?

Quindi, il fantasy è un terreno scivoloso per la nostra commedia? Dipende, perché la versione à la Massimiliano Bruno di Ritorno al futuro, spericolatamente ibridata con il cotè Romanzo criminale dietro, Non ci resta che il crimine, a gennaio 2019 ha fatto segnare un deciso risultato positivo (al punto da generare un sequel per il 2020). Ma qui c’è dietro la Italian International Film di Fulvio e Federica Lucisano (con Rai Cinema), da più di un decennio impegnata a tentare di svecchiare la commedia e di arricchirla di altre nuance, con i vari Bruno, Leo, Falcone. Viceversa, un’altra operazione non così distante in linea di principio, Moschettieri del re. La penultima missione (G. Veronesi, 2018), attraversata dal gusto per certa bande dessinée francofona e una tradizione avventurosa in costume all’italiana, con un colpo di coda monicelliano persino commovente, schierata da Indiana e Vision nel post-Natale 2018 contro la Befana Cortellesi, è rimasta al di sotto delle attese (5,7 milioni), pur vantando un cast di moschettieri in linea di principio appealing (Favino-Mastandrea-Papaleo-Rubini). Chissà, forse c’erano troppi ingredienti, e questi mix faticano a tollerarne più di due per volta…

Ovvio, oltre il fatto che ci si inerpichi ora per il fantastico-horror ora per l’avventuroso in costume, quelle citate finora sono tutte operazioni che hanno in comune l’idea di superare la commedia (all’)italiana, o meglio di ibridarla, arricchendola con altri generi, sia pure mantenendole una sorta di primazia concettuale. E, forse, tutti questi titoli sono figli più o meno dichiarati dell’illusione ottica indotta in tanti produttori dal successo di Smetto quando voglio (S. Sibilia, 2014). Che sarà pure stato “I soliti ignoti al tempo delle smart drug”, oltretutto rivestito della marcescenza pop cromatica di Breaking Bad, ma ha dimostrato di non reggere l’ambiziosa messa in serie secondo il principio sacro della trilogia da blockbuster, con due sequel girati back to back (poi distribuiti a sei mesi l’uno dall’altro), manco fossimo tornati ai tempi di Ritorno al futuro 2 e 3. Vai a capire se è stato perché il troppo stroppia, oppure perché il sottile percorso di superamento della commedia che animava i due sequel (Smetto quando voglio. Masterclass e Smetto quando voglio. Ad Honorem, 2017, S. Sibilia) ha allontanato troppo dal prototipo. Che era piaciuto proprio perché era una commedia all’italiana aggiornata alle sfighe del precariato…

Tu vo’ ffa’ l’americana…!

Un concept di fondo come quello che anima la trilogia di Smetto quando voglio (diventata tale in corso d’opera, è bene ricordarlo), con paragoni più o meno gratuiti con i franchise d’oltreoceano tipo Ocean’s Eleven, e più in generale l’idea di cinema delle produzioni Groenlandia di Matteo Rovere, presuppone un confronto tutt’altro che pretestuoso con i modelli americani. Ora, fare all’americana la commedia all’italiana rischia sicuramente grosso e, infatti, film come Moglie e marito (2017) e Croce e delizia (2019), entrambi con la regia di Simone Godano, entrambi prodotti da Rovere, sono interessanti tentativi di giocare con filoni e sottogeneri della commedia americana, italianizzandoli il necessario, pur senza strepiti al botteghino (2 milioni il primo, 1,1 il secondo). Anzi, il primo, con Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak che si scambiano corpi e personalità, riecheggia proprio tante commedie leggermente fantastiche anni Ottanta e Novanta (lo switch tra i protagonisti), tipo Vice versa e compagnia bella, mentre il secondo, con il complicato incrocio di famiglie agli antipodi (anche sessuali) nella stessa villa al mare, da una parte gli snobboni radical chic dall’altra i sanguigni borgatari, uniti per forza dalla passione dei due rispettivi capifamiglia, bordeggia la commedia dei sessi confusi che furoreggia nel cinema d’oltreoceano, ormai ben oltre il Sundance movie.

C’è da dire che questi film sono figli della sensibilità di tutta una generazione di registi e sceneggiatori (e produttori) che è cresciuta con il cinema americano come modello e feticcio non meno importante di quello italiano e, di conseguenza, abbastanza naturalmente, prova a mescolare i sapori. D’altronde, è un fenomeno ormai consolidato ed evidente. Con il senno di poi, Notte prima degli esami (F. Brizzi), nel 2005, era già una commedia meno italiana nel DNA di quanto ci rendessimo conto all’epoca (non a caso griffata IIF), a partire dalla hybris di provare il teen movie, vera bestia nera del cinema e della tv italiana. Peraltro, oltre Brizzi, che è sempre stato il più americano dei nostri autori di commedia (e lo dimostra pienamente il penultimo suo feel good movie Se mi vuoi bene, 2019, e pure il precedente Modalità aereo, 2018, praticamente Una poltrona per due ai tempi degli smartphone), non si può negare che la quasi totalità dei nostri registi ex pubblicitari, da Miniero&Genovese a Lucini, sogni fin dagli esordi generi e modelli poco italiani di commedia, sophisticated, screwball, gender bender, etc.

E, se può essere esagerato immaginare Ambra Angiolini quale tipo femminile alla Sex & theCity, come si è provato a fare per quasi un decennio, soprattutto nei film in tandem con il regista Max Croci (Al posto tuo, 2016; La verità, vi spiego, sull’amore, 2017), è anche vero che certi sguardi femminili, quando passano dietro la macchina da presa, rielaborano storie, ambienti, personaggi quasi più da serie tv americana che da cinema italiano della tradizione. Un nome? Michela Andreozzi, già efficace caratterista, sostenuta da Vision in questa nuova carriera, per la verità più con il film d’esordio da regista, Nove lune e mezzo (circa 800.000 euro), commedia di sorellanza con scambio di gravidanza dove Roma pare San Francisco, che con il recentissimo Brave ragazze (2019; circa 500.000), film di rapina al femminile che espropria il genere all’altro gender, con il solito gusto visivo e sonoro anni Ottanta. Infatti, proprio gli anni Ottanta sono il detonatore culturale ed emotivo di questa generazione, per l’ovvia ragione che lì è avvenuta la loro educazione all’immagine cinematografica (più americana che italiana, ovviamente), e più oltre a un immaginario tout court, come, ancora più che la Notte prima degli esami brizziana, ha definitivamente rivelato e dichiarato la maturità à rebours (appunto negli Eighties) dei protagonisti di Immaturi (P. Genovese, 2011). E proprio Brizzi, come negli ultimi anni prodotto da Luca Barbareschi con la sua Eliseo Film e distribuito da Medusa, riprova ora a tornare agli anni ’80 in un film mix tra commedia e action (cum juicio…) come La mia banda suona il pop, altro esperimento che, tra le righe, fa intravedere la passione del suo autore per un certo cinema americano eighties, tra Zemeckis e Landis.

Repetita iuvant… et siccant?

Se, quindi, il problema è quello di non sembrare troppo italiani, ma c’è il rischio di eccedere nel filo-americanismo generazionale, un altro filone della nostra commedia cerca la soluzione in una strategia non certo originalissima: il remake altrui, come garanzia per il produttore (è una storia che ha già funzionato altrove, quindi affidabile) e come fuga dalla dittatura dei protagonisti divi comici (prevalgono il concept e il meccanismo sulle “facce”) e dal provincialismo di tante storie nostrane. In Italia sono almeno due le factory ormai specializzate nella pratica, guarda caso entrambe molto vicine a Medusa Film e a Mediaset (forse perché quest’idea dei film format ha qualche attinenza con i format tv?): la Colorado Film di Totti/Usai e, più recentemente, la Picomedia di Sessa.

Questi film sono figli della sensibilità di tutta una generazione di registi e sceneggiatori (e produttori) che è cresciuta con il cinema americano come modello e feticcio non meno importante di quello italiano e, di conseguenza, abbastanza naturalmente, prova a mescolare i sapori.

I numeri hanno dato spesso ragione a chi ha puntato sulle seconde volte di storie già di successo prima altrove, anche oltre l’alpha di Benvenuti al Sud (L. Miniero, 2010, dal francese Giù al nord), secondo l’intuizione della Cattleya di Riccardo Tozzi. E, con il senno di poi, dati alla mano, in media, le commedie remake vanno meglio come incassi di quelle originali, anche se, tra successi annunciati (i due Poveri ma ricchi di Brizzi, 2016 e 2017, oltretutto film natalizi, 6,8 e 5,2 milioni) e sorprese inattese (Belli di papà, G. Chiesa, 2015, 4,2 milioni; Mamma o papà?, R. Milani, 2017, 4,5 milioni), non mancano gli esiti stentati. L’agenzia dei bugiardi (W. De Blasi, 2019), rifacimento Picomedia/Medusa del successone francese Alibi.com (P. Lacheau, 2017), che pareva una scommessa abbastanza sicura con il suo plot su un’agenzia specializzata nel fornire alibi ai fedifraghi, ha raggranellato appena 1,6 milioni. Forse anche perché mancava quel coté generazionale pop-vintage molto localizzato in Francia che in Italia non si è riusciti a replicare. Infatti, dicono all’unisono quelli di Colorado Film e Picomedia, non bisogna accontentarsi di quello che passa il convento, pardon il format, ma bisogna metterci del proprio.

L’esempio calzante è quello della recente linea di commedie familiari Colorado/Medusa con Fabio De Luigi mattatore, Ti presento Sofia (G. Chiesa, 2018, 2,9 milioni) e, soprattutto, 10 giorni senza mamma (A. Genovesi, 2019, 8,7 milioni), tutt’e due gemmate da originali argentini. Veri concept film che si possono raccontare in una frase – soprattutto il secondo (la mamma “stacca” per 10 giorni e tocca al papà, di solito sempre al lavoro, occuparsi dei tre figli e del ménage domestico), ragguardevolissimo negli incassi, anche in ragione di un abbraccio ecumenico verso tanti pubblici diversi (dal nonno al nipotino, lungo l’intera famiglia) – sono più efficaci quando superano il puro meccanismo. In 10 giorni senza mamma, infatti, e lo racconta proprio Usai, le gag più amate da questo pubblico trasversale, in primis quello dei denti rotti di De Luigi, sono un’invenzione nostrana, un’aggiunta importante. Quelle storie, universali, a diffusione amplissima, passepartout narrativi globali, alla fine hanno bisogno di qualcosa di più per convincere il pubblico italiano a varcare la soglia della sala. Devono essere italianizzate, in pratica. Mica male: si è partiti dalla necessità di essere il meno italiani possibili, di perdere quell’allure all’italiana della commedia tradizionale nostrana, e, invece, per paradosso, quando si approda al massimo del globale e del trasversale, occorre recuperarla il più possibile. Come se, in pratica, la commedia all’italiana che da un lato si caccia dalla porta, dall’altro rientri dalla finestra…


Rocco Moccagatta

Critico e studioso di cinema, televisione e new media, analista dei media e insegna Storia del cinema delle origini e classico e Modelli e scenari televisivi e crossmediali nazionali e internazionali presso l’Università IULM di Milano. Da sempre si occupa di generi popolari e di cinema italiano del passato e contemporaneo. Scrive o ha scritto su FilmTv, L’Officiel Homme, Duel/Duellanti, Segnocinema, Comunicazione politica8 ½ , Marla, Nocturno Cinema. Ha appena pubblicato un libro sul cinema dei fratelli Vanzina. È stato ribattezzato “Giancarlo Cianfrusaglie” da Maccio Capatonda e ne va orgoglioso.

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