Le metriche hanno poco valore anche nel mondo degli influencer e dei creator. Diventano strumento di affermazione di sé, base per i litigi, misura di un fandom che si organizza per cambiarle.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 28 - Metrix. Viaggio all’ultima frontiera delle metriche del 24 marzo 2022
Nel settembre 2018 i Ferragnez convolarono a nozze e si disse che fu “il royal wedding italiano”. Ma non avendo i Ferragnez dei titoli nobiliari, cos’è che faceva dire ai loro fan e ai media tradizionali che il loro matrimonio era stato royal? Alla fine dell’evento, l’agenzia di comunicazione a cui si erano rivolti diffuse subito il report: secondo un loro algoritmo proprietario, il Media Impact Value, il matrimonio dei Ferragnez aveva generato 36 milioni di dollari, “più del doppio del valore di quello di Harry e Meghan” che si era tenuto a maggio dello stesso anno. Nel report c’era un’accurata analisi della crescita delle fanbase, i top post che avevano ricevuto più interazione, quanto tempo l’hashtag era stato nei trending topic di Twitter. Insomma, lo status di royal era dato da questo: dalle metriche social. Per gli influencer, per i content creator e per chi in generale lavora nell’imprenditoria digitale la centralità dei numeri è indiscussa: il loro valore economico, lo status sociale e la reputazione dipendono in larga maggioranza da queste metriche. Solo che, nell’epoca dell’abbondanza dei dati, nessuno ha trovato “il Sacro Graal della metrica unica”, e inoltre “il dato è sacro ma nessuno conosce davvero su cosa si basano le metriche applicate per determinarlo”, “i Kpi sono delle illusioni”, e non c’è una Cassazione che decide inderogabilmente cosa è popolare e cosa no. Il Media Impact Value usato per validare il matrimonio dei Ferragnez, per esempio, non è uno standard condiviso e oggettivo ma una formula ideata dall’agenzia di comunicazione; i 36 milioni vengono fuori dalla somma di reach ed engagement, diviso per un valore attribuito d’ufficio al totale dei canali dove il contenuto è stato condiviso, con una stima del valore in termini pubblicitari. In estrema sintesi, quei 36 milioni sono più impalpabili di un Nft ma servono ai Ferragnez per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica: il loro matrimonio, validato da una metrica praticamente inventata, diventa a quel punto effettivamente royal.
Perdita di valore
Questo per dire che nel mondo digitale dove tutto pareva essere facilmente monitorabile e calcolabile, i dati hanno perso il loro valore effettivo, la capacità di descrivere oggettivamente un fatto reale. Ne hanno guadagnato in senso umanistico: parafrasando Labatut, i dati non devono più preoccuparsi della realtà, ma di ciò che si può dire della realtà. I numeri non dimostrano più niente, ciononostante sono una parte fondamentale nell’economia del sé e una parte integrante nello storytelling dei content creator, degli influencer e degli imprenditori digitali, che li usano per: 1. guadagnare: fanno affidamento sulle metriche per giustificare le parcelle che presentano ai brand in caso di partnership; 2. legittimare, se non proprio giustificare, la loro esistenza e competenze non certificate da istituzioni convenzionali, contro le critiche che gli vengono loro rivolte; 3. stimolare i drammi online.
Il Media Impact Value usato per validare il matrimonio dei Ferragnez non è uno standard condiviso e oggettivo ma una formula ideata dall’agenzia di comunicazione; i 36 milioni sono più impalpabili di un Nft ma servono ai Ferragnez per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica: il loro matrimonio, validato da una metrica praticamente inventata, diventa a quel punto effettivamente royal.
I primi due punti sono quelli più evidenti e noti. Esistono listini di influencer che si basano su quanti follower hanno, che tipo di audience raggiungono, quante interazioni generano i loro post. Ma non sono solo gli influencer ad assegnarsi uno status e un valore sulla base delle metriche social, lo fanno anche le imprese e le start-up, mettendo quasi in secondo piano i risultati economici. Un esempio ne è Will Media, un progetto editoriale-digitale nato a gennaio 2020. A un mese dalla nascita, i suoi fondatori già concedevano interviste sottolineando i 115 mila follower raggiunti in pochissimo tempo su Instagram: crescita dovuta essenzialmente al fatto che i primi dipendenti erano già loro stessi influencer di micro o medio livello, come Imen Jane, e spingevano i follower a seguire e sostenere il progetto. Dalla fondazione a oggi, in ogni intervista e comunicato stampa, in primo piano hanno sempre messo i numeri di crescita della loro follower base e le interazioni, anche con paragoni verso media tradizionali, sottolineando come siano “cifre record” ma non specificando rispetto a quali parametri.
Dissing
Non è un caso raro, gli influencer confrontano spesso i loro numeri social con altre metriche più convenzionali, per esempio le copie vendute di un giornale o l’audience di una trasmissione televisiva, al fine di dimostrare la loro autorità su un argomento o validarsi nell’ambiente in cui operano. Lo fanno soprattutto durante i dissing o le shitstorm, per dare un boost al drama: in questo modo vogliono creare un senso delle proporzioni che torni a loro vantaggio. È quello che è successo ad esempio nel dissing tra l’imprenditrice digitale e influencer Estetista Cinica e il giornalista Michele Masneri: a un certo punto Estetista Cinica paragona i dati di una sua storia su Instagram (parlando di 350.000 “lettori”) con il numero di lettori de Il Foglio (la tiratura è a 47.000). Questa operazione è una forzatura che si piega alla narrazione: le due metriche sono difatti poco comparabili tra di loro. Intanto, non è specificato se siano le visualizzazioni o la reach di quella storia (il dato cambia), e in ogni caso bisogna fidarsi del numero elargito dalla piattaforma stessa (Instagram) e non certificato da enti terzi. Un conto, poi, è andare in edicola, comprare un giornale e poi leggerlo, un altro conto è guardare le stories sul proprio smartphone: l’attenzione che si mette nel leggere un giornale e vedere una storia è decisamente diversa.
I numeri non dimostrano più niente, ciononostante sono una parte fondamentale nell’economia del sé e una parte integrante nello storytelling dei content creator, degli influencer e degli imprenditori digitali, che li usano per: 1. guadagnare; 2. legittimare la loro esistenza; 3. stimolare i drammi online.
Tutto questo non è certo per dire che Estetista Cinica non ha un’ampia audience che vede le sue stories o non ha un reale valore reputazionale online. Ce l’ha ed è anche ben remunerato. Il punto è che le metriche prese in considerazioni sono incomparabili, non ci dicono nulla su cosa sia più o meno popolare, più o meno competente e rispetto a cosa. Non ci dicono di sicuro chi abbia ragione e chi torto: sono dati che vengono usati per creare ulteriori dinamiche dentro un drama online. Questo è solo un esempio, se ne potrebbero fare altri mille. Succede ovunque su internet, in ogni community, su ogni social, soprattutto in presenza di content creator, standom, shitstorm e trash account. Le metriche social sono i più convenienti “segnali di status” in assenza di altri affidabili “segnali di status”.
Dati-cadaveri
Se Wittgenstein chiamava “parole-cadaveri” quelle parole autoreferenziali e senza un significato concreto ora siamo di fronte a un nuovo fenomeno, quello dei “dati-cadaveri”: numeri svuotati del loro senso, inutili, autoriferiti, un modo subdolo per “produrre nebbia” e a cui si annuisce con convincimento per non fare la figura della capra in matematica. Chi prende veramente sul serio questi numeri sono i follower dei “drama creator”. Si può dire che anche questo fenomeno online è nato dalla community degli stan, per certificare agli occhi degli hater il successo dei propri idoli. L’ambito che più si presta è quello musicale, grazie all’abbondanza di metriche e strumenti per il monitoraggio messi a disposizione dalle piattaforme di streaming. Gli stan prendono le metriche social molto seriamente. Il numero di follower, le visualizzazioni e i like, quanto tempo si rimane in trending topic, gli stream e le classifiche sono una loro ossessione. Per loro il numero di visualizzazioni di un video su YouTube fa la differenza tra l’essere bravi e l’essere iconici. Il loro rapporto con i dati non è solo passivo, ma si organizzano attivamente per manipolare le chart. Il fenomeno si chiama “chart manipulation”: gli stan si organizzano per streammare senza sosta le canzoni dei propri idoli, facendo dei turni come se fosse un lavoro. Tengono d’occhio account Twitter come @chartdata o @popcrave per vedere chi sta vincendo la corsa al successo. È il motivo per cui Billboard, la tradizionale classifica musicale dell’industria discografica statunitense, ha introdotto nel 2021 la top 20 degli artisti più popolari su Twitter.
In questo senso, la prima posizione in una chart di Spotify non ci dice quasi più niente sulla validità artistica di una canzone o un gruppo, in compenso ci dice molto sull’attività degli stan che c’è intorno a quella canzone o a un gruppo. È anche il motivo per cui i Bts sono sempre ai primi posti di queste classifiche e anche il motivo per cui sono sempre trending topic su Twitter (come lo sono stati per lungo tempo gli One Direction). Probabilmente gli stan – di gruppi musicali, di trasmissioni televisive, di politici, di content creator, eccetera – sono gli unici ad aver capito veramente come funzionano i social. È inutile trovare un ordine al caos delle informazioni, quello che importa è che il gruppo preferito (o la trasmissione preferita, o la serie preferita, o la ship preferita in un reality) domini i trending topic dei vari social media, stimolando gli algoritmi attraverso dissing, shitstorm, dinamiche e drama, evitando la vergogna più temuta: che sia un flop.
Laura Fontana
Lavora da più di dieci anni come esperta di comunicazione digitale per brand nazionali e internazionali. Si occupa di società digitale e analisi del web. Scrive di internet e pop culture, influencer e creator economy su Rivista Studio e altri magazine.
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