I concerti digitali sono il futuro. Anzi, no: sono videoclip a pagamento. I live sulle piattaforme ci sono da tempo: oltreoceano è già un modello da grandi numeri. Ma bisogna andare oltre i luoghi comuni.
In questo periodo abbiamo imparato a conoscere la musica in live streaming sulle piattaforme. Una conoscenza forzata: con la pandemia l’industria dello spettacolo dal vivo si è fermata pressoché del tutto, mettendo in crisi diversi settori, soprattutto quello musicale. Così molti cantanti hanno iniziato sistematicamente a realizzare performance digitali, per intrattenere i loro fan durante il lockdown e per trovare forme alternative di distribuzione a pagamento della loro musica. Gli ascoltatori hanno visto un numero enorme di show musicali presentati come “dal vivo”, prevalentemente sui social, abituandosi a considerare questo uno spazio quasi normale.
Le performance musicali digitali non sono nate ieri: i webcast musicali a pagamento esistono da anni. Ma con il blocco dei concerti in presenza, quelli in streaming sono diventati un tema di attualità, che genera reazioni forti e opposte. Artisti e piattaforme li presentano con enfasi, sottolineando le (presunte) innovazioni che anticipano il futuro. All’opposto, è altrettanto facile leggere commenti di fan e giornalisti che li paragonano a semplici dvd, film musicali e videoclip, solo in uno spazio digitale. “Non potranno mai sostituire il live”, si dice.
Abbiamo visto in passato queste resistenze nell’industria musicale e nei consumatori, per esempio all’avvento dello streaming nella musica registrata. Nessun operatore del settore e nessun artista può ragionevolmente pensare che lo streaming del live possa sostituire i concerti nella stessa maniera in cui Spotify etc. hanno di fatto eliminato cd e download. Ma è sbagliato sminuirli come se fossero una moda passeggera. Le performance digitali sono qui per restare, anche se non elimineranno il live tradizionale. Per capirne il futuro, oltre la situazione attuale, bisogna sgomberare il campo da alcuni miti.
Il mito della parola live
Il primo mito è proprio quello della parola live, usata come simbolo di un’esperienza musicale unica e non replicabile. Una parola che nasce nei media (si iniziò a usarla negli anni Trenta del Novecento in radio), ma che nella musica è intesa come sinonimo di “autentico”. Se è “dal vivo”, si dice, la musica è vera, è spontanea, è senza mediazioni. Live indica sostanzialmente due fattori, non sempre presenti contemporaneamente: da un lato, un intrattenimento che è messo in scena in tempo reale; dall’altro, un intrattenimento che è consumato di persona, in presenza del performer. Ma il live è anche qualcosa che vediamo/ascoltiamo a distanza: si pensi a come molte trasmissioni tv e radio lo usano come etichetta per sottolineare “siamo in diretta, è tutto vero”: dal Saturday Night Live a Barbara D’Urso.
Come per tutti i contenuti digitali, lo spettatore è disposto a pagare se pensa che ci sia del valore, dell’esclusività, se ama quell’artista e se pensa che gli stia offrendo qualcosa di irripetibile. Dai concerti in streaming a pagamento ci si deve aspettare qualità, perlomeno di contenuto e di forma.
Quanto al live come “produzione in tempo reale”, anche questa è una condizione più di facciata che di sostanza, soprattutto nella musica. Da tempo i concerti non sono quasi mai interamente live, ma fanno abbondante uso di basi pre-registrate, oltre a video ed effetti speciali. Capita non solo negli show musicali televisivi e non solo nella musica elettronica: anche nel pop e nel rock, sui palchi di mezzo mondo, cantanti e band usano – senza dichiararlo – tracce strumentali e vocali pre-incise e ri-prodotte, non prodotte sul momento. Insomma: dire che i concerti in streaming non valgono la pena perché non sono davvero live è una forzatura. Siamo già abituati sia all’intrattenimento “in diretta ma a distanza”, sia ad ascoltare performance che sono solo apparentemente “in tempo reale”.
I concerti in streaming non sono i concertini sui social
Il secondo mito è quell’equivalenza tra concerti in streaming a pagamento e performance sui social. Quello che abbiamo visto in abbondanza durante il lockdown, per intenderci. Questi “concertini” hanno avuto sicuramente diversi meriti. Hanno cambiato la nostra percezione di cosa sia una performance, e molti artisti hanno usato il formato come forma alternativa di guadagno, suonando gratis ma raccogliendo offerte libere. Le performance sui social hanno avuto soprattutto il merito di allargare il pubblico del live streaming: un recente report dell’istituto di ricerca MusicWatch dice negli Stati Uniti c’è un’audience di 110 milioni di persone per i live streams, di cui un terzo è disposto a pagare.
Pagare per cosa, però? Un artista che accende un telefono e canta in diretta su Facebook o Instagram non è abbastanza per convincere il pubblico a pensare che quel contenuto sia diverso da un video pre-registrato e gratuito su YouTube. Un esempio: Chris Martin dei Coldplay ha fatto il suo “concerto” su Instagram Live a marzo – è quello da cui è nato il progetto “One World: Together at Home”, che a sua volta ha generato un mega-evento di beneficenza ad aprile, trasmesso in streaming e in televisione. Quel “concerto” fu un flusso di coscienza senza forma, mezz’ora completamente improvvisata a bassissima qualità tecnica (uno smartphone fisso), con Martin che canticchiava, iniziava un brano, lo interrompeva, rispondeva a un commento, passava ad altro. Una cosa bella nella sua spontaneità, ma totalmente improvvisata. Come per tutti i contenuti digitali, lo spettatore è disposto a pagare se pensa che ci sia del valore, dell’esclusività, se ama quell’artista e se pensa che gli stia offrendo qualcosa di irripetibile. Dai concerti in streaming a pagamento ci si deve aspettare qualità, perlomeno di contenuto e di forma.
I concerti in streaming fanno già grandi numeri
Le performance sui social hanno sì ampliato l’audience, ma anche distorto la percezione di cosa sia un live musicale digitale: il terzo mito è proprio la percezione dei concerti digitali vs. la realtà dei dati. La percezione è ancora quella di questa vignetta del New Yorker: stare seduti in poltrona con la copertina sulle gambe a vedere un video sul computer. Non esattamente rock’n’roll. Ma la realtà è un’altra: i concerti in streaming a pagamento esistono e funzionano da anni. In America la piattaforma nugs.net vende webcast di band rock da quasi dieci anni; molte altre simili ne sono nate, nel frattempo, da DiceTV (costola dell’app di ticketing Dice) a fans.com e ad A-Live in Italia, che sarà usata dai grandi promoter nazionali di concerti. I live streaming fanno numeri importanti, laddove gli artisti hanno fanbase molto attive: nel 2020 i BTS hanno avuto 750.000 spettatori e incassato 20 milioni di dollari e hanno già programmato un nuovo concerto per ottobre, questa volta con pubblico in presenza e streaming.
Si possono fare molti altri esempi, recenti e post-lockdown: dalla cantante folk Laura Marling che ha venduto 6000 biglietti digitali suonando in una location che può contenere al massimo 900 persone reali, a Jack Savoretti da Portofino il 4 settembre (4500 spettatori + qualche centinaio in presenza), a Mika e al suo concerto per raccogliere fondi per il Libano il 19 settembre. In Italia, pure: il primo è stato Venerus a maggio, al Museo Della Scienza di Milano; poi sono arrivati i 40 artisti di “Heroes” in diretta dall’Arena di Verona: una sorta di Primo maggio a pagamento, solo in streaming, per raccogliere fondi per i lavoratori dello spettacolo; e i Lacuna Coil in diretta dall’Alcatraz di Milano l’11 settembre.
Liveness nello sport vs. liveness nella musica
L’ultimo mito è la somiglianza/differenza tra concerti e sport: entrambi vivono di liveness, di fruizione in diretta. Vediamo già le partite in diretta su tv e piattaforme, perché non anche i concerti? È un paragone che ogni tanto salta fuori, ma non è corretto. Le partite sono tutte uniche e diverse, non sappiamo mai come vanno a finire. I concerti sono fatti in serie e spesso identici uno all’altro: la serializzazione produttiva di uno show musicale è la base della sostenibilità economica e dell’industria del live. Quando vai a un concerto sai già come va a finire.
Se il mio artista preferito – uno che cambia scaletta ogni sera – viene in tour in Europa, lo vedo di persona in Italia, ma potrei comprare la diretta streaming di altre date europee, a un prezzo ragionevole. È un contenuto destinato a una nicchia, per quanto grande: quella dei fan accaniti. Ma il successo dei webcast ha dimostrato che è sostenibile e profittevole, oltre che apprezzato.
Il chitarrista della E Street Band Nils Lofgren ha recentemente provato a paragonare i concerti di Bruce Springsteen con il football: “It’s almost like every night feels like a SuperBowl. The difference is you’re playing for a hometown crowd and you’ve been guaranteed a win. And you’re just working on the point spread”. Giochi/suoni per stravincere, insomma. Musica e sport si vedono live, a distanza o in presenza, ma raccontano cose diverse: gli artisti dovranno pensare i loro show in streaming in maniera diversa dalla performance fatta in serie e uguale tutte le sere: renderli un contenuto unico.
Verso un futuro “aumentato”?
Se un artista è in grado di creare show unici, e siccome non tutti possono sempre vederli in presenza, lo streaming può essere sempre più una soluzione praticabile e interessante per l’industria musicale. Un esempio personale che mi trovo spesso a fare: se il mio artista preferito – uno che cambia scaletta ogni sera – viene in tour in Europa, lo vedo di persona in Italia, ma potrei comprare la diretta streaming di altre date europee, a un prezzo ragionevole. È un contenuto destinato a una nicchia, per quanto grande: quella dei fan accaniti. Ma il successo dei webcast di nugs.net ha dimostrato che è sostenibile e profittevole, oltre che apprezzato. I costi produttivi sono contenuti, visto che le maggior parte dei concerti già prevedono riprese e telecamere di default, e i margini potenziali di guadagno interessanti, anche per concerti sold out, per cui si può allargare la platea con uno streaming a prezzo ridotto.
Quello dei concerti in streaming è un modello che, ancora per qualche tempo, vivrà di tentativi ed errori, di entusiasmi e scetticismi, e che probabilmente nel nostro Paese sconterà un ritardo nelle infrastrutture tecnologiche e digitali, rispetto al mondo anglosassone. Ma a determinare il successo dei concerti in streaming non saranno le dirette sui social né i megaeventi come “One World Together at Home” o “Heroes” – che assomigliano più a una versione digitale di show tv che a un concerto. Né tantomeno i concerti senza pubblico in diretta o, peggio, in differita, come quello di Nick Cave dall’Alexandra Palace registrato a giugno e venduto in streaming a luglio (un mezzo flop, dal punto di vista dell’esperienza).
I concerti digitali a pagamento avranno un futuro: sarà quello di un live musicale aumentato dallo streaming, complementare e non sostitutivo? Concerti che usino tecnologia e piattaforme per coinvolgere gli spettatori anche da casa, senza sperare di replicare la fruizione in presenza che è evidentemente irripetibile. Concerti che diano qualcosa di diverso e, a suo modo, esclusivo: dettagli, riprese particolari, accesso al backstage e all’artista prima e dopo lo show, location, scalette uniche. Insomma, contenuti digitali che abbiano un valore che giustifichi il prezzo; per gli artisti un’opportunità in più di creare musica e diffonderla, e per gli ascoltatori/spettatori un modo in più di vedere i loro artisti preferiti, in un formato diverso.
Gianni Sibilla
È direttore didattico del Master in Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica di Milano. Insegna anche alla IULM ed è giornalista musicale (Rockol.it). Tra i suoi libri, I linguaggi della musica pop (2003) e Musica e media digitali (2008) e Storia leggendaria della musica rock (con Riccardo Bertoncelli, 2020).
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