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L’invasione del gender swap

Da qualche anno molto cinema, e ora anche la televisione, riprende storie del passato invertendo il genere dei protagonisti. Ma queste donne ora al centro sono solo una copertura o il segno di un vero cambiamento?

Ogni volta che si annuncia la produzione di un nuovo remake, reboot, sequel o revival, la reazione che ne segue è sempre la stessa: un misto di curiosità, eccitamento, scetticismo o indignazione, a seconda del grado di “sacralità” del titolo in questione. La notizia dell’arrivo di High Fidelity non ha avuto sorti diverse: la serie non solo è il remake dell’omonima pellicola del 2000 con John Cusack, a sua volta tratta dal romanzo di culto di Nick Hornby, ma è pure l’ultimo esempio di gender swap: un trend partito nel 2016 con il discusso reboot al femminile di Ghostbusters e che continua a produrre titoli e sostituzioni di ogni sorta, specialmente al cinema, nel tentativo di attirare un nuovo pubblico femminile e di restituire alle donne ruoli e spazi tradizionalmente dominati da maschi.

La pratica dello scambio dell’identità di genere di uno o più personaggi, però, non è certo un fenomeno nuovo. Un esempio famoso e riuscito risale al 1940, con la screwball comedy La signora del venerdì, con Cary Grant e con Rosalind Russell nei panni della reporter Hildy, che nel film originale The Front Page (1931) era un maschio. Negli anni sono seguiti il reboot Karete Kid 4 (1994), con Hilary Swank; American Psycho 2 (2002), con Mila Kunis nei panni di un’assassina arrabbiata al posto di Christian Bale; Herbie il super Maggiolino (2005), che puntava su una giovane Lindsay Lohan per proseguire la serie Disney iniziata nel 1968. Tutti esempi sporadici di remake e sequel gender swap, aumentati poi vertiginosamente in questi anni, complice la tendenza a puntare sull’“usato sicuro”, l’effetto nostalgia e la crescente attenzione per le istanze femministe. Ma, tra boicottaggi e critiche impietose, ci si chiede quanto il gender swap faccia bene all’industria dell’audiovisivo, alla rappresentazione femminile e di tutte le minoranze.

Reboot sotto attacco

Prendiamo Ghostbusters, il precursore di questa ondata di titoli. Diretto da Paul Feig, il film è il reboot del noto franchise partito nel 1984, con Bill Murray, Dan Aykroyd, Harold Ramis e Ernie Hudson nei panni di quattro acchiappafantasmi. Al loro posto, troviamo le attrici Kristen Wiig, Melissa McCarthy, Kate McKinnon e Leslie Jones, nei ruoli di due scienziate, un’ingegnera e un’operaia della metropolitana di New York, che si uniscono per combattere un’invasione di fantasmi scatenata da uno scienziato pazzo. La nuova versione, più che un film di avventura e di azione, si rivela da subito una sci-fi comedy, che tra battute e gag comiche gioca a ribaltare gli stereotipi di genere –  c’è anche Chris Hemsworth nei panni di un segretario bello e svampito –, anche se mantiene ben saldi i riferimenti all’originale – con citazioni esplicite e con i camei di Bill Murray, Dan Aykroyd e Sigourney Weaver.

I remake e sequel gender swap sono aumentati vertiginosamente in questi anni, complice la tendenza a puntare sull’“usato sicuro”, l’effetto nostalgia e la crescente attenzione per le istanze femministe. Ma, tra boicottaggi e critiche impietose, ci si chiede quanto il gender swap faccia bene all’industria dell’audiovisivo, alla rappresentazione femminile e di tutte le minoranze.

All’uscita del film, la critica è divisa: c’è chi lo considera un blockbuster estivo divertente e allegro, ma pure familiare e diverso quanto basta; e chi invece lo classifica come l’ennesimo prodotto di marketing privo di valore, e un reboot poco audace in cui le femmine si limitano a fare ciò che fanno i maschi, senza reale riscrittura dei ruoli. Ghostbusters in sostanza funziona bene come piacevole film d’intrattenimento, ma meno se si analizza la rappresentazione femminile da un punto di vista più critico e femminista. La stroncatura più sonora al nuovo Ghostbusters arriva però dal pubblico, o perlomeno da quello maschile più fanatico e misogino, che si rifiuta di vedere il “proprio” film dell’infanzia con un cast di donne: mesi prima che uscisse il reboot, era partita infatti una campagna d’odio coordinata, tanto che su IMDb il film è votato da oltre 6.000 utenti, di cui più della metà danno una sola stella su dieci senza neppure averlo visto. La battuta “Non ci sono stronze che non daranno caccia ai fantasmi” è uno dei tanti riferimenti agli haters inseriti nel film, commedia live action di maggior successo negli States nel 2016, ma ritenuta un flop a causa dell’alto budget (144 milioni di dollari), con una perdita stimata di 70 milioni di dollari.

A distanza di quattro anni, è evidente che il backlash ha pesato molto sugli esiti del film, tanto da compromettere il proseguo del franchise con le attrici, già annunciato. “Se mi dici: Mi avete rovinato l’infanzia, una frase che ho sentito spesso […], non dare la colpa a noi, perché hai dei problemi”, ha detto in un’intervista Melissa McCarthy, affermando di non capire questa “paura” per le donne. La reazione sessista del pubblico è la conseguenza di una cultura patriarcale, che da decenni si riflette sul grande schermo costringendo le donne in ruoli minoritari, noiosi e subordinati al protagonista maschio. Lo dimostrano i dati più recenti: secondo il Center of Study of Women in Television and Film, le donne nel 2019 hanno rappresentato il 37% dei personaggi principali e il 34% di quelli che parlano nei 100 film di maggior incasso; e si fermano al 20% le donne registe, sceneggiatrici, produttrici e produttrici esecutive, montatrici e direttrici di fotografia. Ghostbusters – seppur diretto da un uomo – tentava di scardinare il dominio maschile, recuperando un pilastro della cultura nerd.

Sequel gradevoli

Il sequel e spin-off gender swap Ocean’s 8, uscito nel 2018, è nato più o meno con lo stesso intento. Anche stavolta si è scelto di puntare su un franchise di successo come Ocean’s Eleven (2001), con George Clooney, Brad Pitt e Matt Damon nelle vesti di abili rapinatori, già remake del film Colpo grosso (1960). Diretto da Gary Ross, il rifacimento vede Sandra Bullock (Debbie, sorella di quel Danny Ocean interpretato da Clooney), affiancata da Cate Blanchett, Anne Hathaway, Helena Bonham Carter, Mindy Kaling e Rihanna. Come nella saga originale, anche qui il film punta tutto su un cast di prim’ordine e sul carisma delle attrici, ognuna delle quali gioca un preciso ruolo nella maxi rapina al Met Gala. A discapito di una sceneggiatura poco brillante e prevedibile e della caratterizzazione dei personaggi: il Guardian scrive che “[a Bullock], come ai membri della squadra che la circondano, non è concessa molta profondità che non sia la sua abilità di criminale. Tutte sono definite dai loro lavori piuttosto che dalle loro personalità”.

Ma se la critica appare tiepida, il pubblico, soprattutto femminile, premia il titolo, che con 41 milioni di dollari negli Stati Uniti batte anche il record d’esordio dei tre film del franchise con Clooney. Ocean’s 8 si rivolge più volte direttamente alle spettatrici, con chiaro messaggio di empowering: “Non lo state facendo per me. Non lo state facendo per voi. Da qualche parte, là fuori, c’è una bambina di 8 anni che sogna di diventare una criminale. Fatelo per lei”, afferma Bullock in una scena. Il film invade un nuovo territorio dominato dai maschi, l’heist movie, ma è interessante notare la diversa accoglienza del pubblico maschile, rispetto a Ghostbusters, che perlopiù ignora questo sequel. Puntare su attrici molto belle e pluripremiate, gradevoli anche allo sguardo maschile, si rivela una scommessa più facile rispetto alla scelta di quattro attrici comiche, lontane dagli standard di bellezza hollywoodiani. Ma come spiega l’autrice di Empowered: Popular Feminism and Popular Misogyny, Sarah Banet-Weiser, molto ha a che fare con la cultura geek e con il risentimento di chi ne fa parte: “Ci sono fan molto appassionati di questi spettacoli che spesso si trovano in un contesto lavorativo ed economico che si è trasformato da quando le donne hanno osato entrare in settori precedentemente dominati dai maschi, tipo la tecnologia”.

Remake che girano a vuoto

Ocean’s 8 è un sequel gender swap che non dà “fastidio” al pubblico, poco abituato a vedere protagoniste d’azione e in ruoli di comando. Inoffensivo è anche il film What Men Want (2018), remake loose (piuttosto libero) del popolare What Women Want (2000), con Mel Gibson nei panni di un pubblicitario narcisista e donnaiolo, capace di leggere il pensiero delle donne. Nella nuova versione troviamo Taraji P. Henson nel ruolo di Alison Davis, agente sportiva egoista e aggressiva, discriminata sul lavoro in quanto donna nera, che decide di sfruttare il potere di leggere la mente degli uomini dopo una mancata promozione. Il film, diretto da Adam Shankman, rappresenta il doppio standard di giudizio nei confronti delle donne, le disuguaglianze di genere e di etnia, ma gira a vuoto a causa di una trama confusa e troppo simile al film originale. Tanto che nel finale Alison ottiene l’agognata promozione, non prima di aver imparato a essere più comprensiva e gentile verso l’altro sesso. 

What Men Want non solo non ribalta gli stereotipi, ma li ripropone. Qualcosa di simile accade in Attenti a quelle due (2019), con Anne Hathaway e Rebel Wilson, nel ruolo di due truffatrici. Diretto da Chris Addison, il film è un remake del remake, basato sulla trama di due predecessori: Due figli di… (1988), con Michael Caine e Steve Martin, e I due seduttori (1964), con Marlon Brando e David Niven, da cui sono riprese molte scene. L’intento è di decostruire l’immagine stereotipata della donna ingenua e innocente, con la storia di due protagoniste che sfruttano la costante sottovalutazione da parte degli uomini. Anche qui, però, il gender swap non funziona: il film non reinventa o aggiunge una prospettiva femminile e femminista, ma continua a perpetrare gli stereotipi sessisti sulla donna magra e seducente (Hathaway) e su quella sovrappeso e goffa (Wilson), proponendo due personaggi-macchietta.

Donne mascolinizzate

What Men Want e Attenti a quelle due, bocciati da pubblico e critica, sono l’ennesima dimostrazione di come Hollywood continui a produrre film “usa e getta”, senza correre rischi sia creativi sia finanziari, a scapito della qualità delle storie, dell’intrattenimento e della rappresentazione femminile. Amanda Hess sul New York Times scrive: “Questi reboot richiedono alle donne di rivivere le storie degli uomini invece di forgiarle su di loro. Ci si aspetta subdolamente che aggiustino questi vecchi film, neutralizzino il loro sessismo e li infondano con il femminismo […]. Devono fare tutto ciò che hanno fatto i maschi, ma all’indietro e con gli ideali”. Con il gender swap si mascolinizzano le donne, sfruttando la moda del girl power per puro business, in nome di quote di genere che in assenza di un reale rinnovamento dell’industria cinematografica rimangono solo numeri. Ancora molto ridotti e ormai insufficienti.

Se si vuole davvero colmare il gender gap, è necessario rischiare e investire su storie originali e moderne, puntare su nuovi talenti e nuovi franchise, pensati, scritti e diretti da donne – di diversa etnia, classe, religione, identità di genere e orientamento sessuale – che conoscano in prima persona i temi di cui parlano, provando così a staccarsi dal pensiero dominante. L’articolo di Brit Marling (attrice, regista e creatrice di The O.A.) uscito lo scorso febbraio sul New York Times parlava di questo: della necessità di superare il trend della “strong female lead”, quasi sempre un personaggio femminile piatto che ripete gli schemi dei maschi. “Immagino nuove strutture e mitologie nate dalle coreografie dei corpi femminili, corpi di nessun genere, corpi di persone di colore, corpi disabili. Immagino di scavare i miei desideri e bisogni, che ho seppellito sotto quelli degli uomini”. In questo senso, la serialità ha dimostrato di riuscire a cambiare, osare e rinnovarsi più e meglio del cinema. Anche i dati sulla parità di genere nelle serie tv non sono del tutto confortanti – 45% per i personaggi femminili principali e 31% per le donne dietro le quinte nei ruoli chiave della stagione 2018-2019. Ma il crescente successo e riconoscimento dei talenti femminili (si pensi a Phoebe Waller-Bridge) testimoniano una maggiore apertura alla diversità.

Remake simili ma diversi

Non è un caso allora che l’esempio migliore di remake gender swap arrivi con High Fidelity, una serie tv distribuita da Hulu, piattaforma di streaming che forse ha sperimentato di più negli ultimi tempi (da The Handmaid’s Tale ai più recenti Pen15, Shrill e Ramy), con ottimi risultati. High Fidelity del 2000 è la storia di Rob (Cusack), proprietario di un negozio di dischi, nerd immaturo, narcisista e sessista, che tenta di capire perché è stato lasciato dalla fidanzata mentre ripercorre la sua “Top Five Most Memorable Breakups”. All’uscita la pellicola è diventata un piccolo fenomeno di culto, ma a distanza di vent’anni sembra più un inno a certa mascolinità tossica, con un finale posticcio che normalizza il comportamento molesto e disumanizzante di Rob verso le donne. La serie creata da Sarah Kucserka e Veronica West, co-autrici di Ugly Betty e Hart of Dixie, parte dalla stessa premessa per tracciare una strada inedita. La nuova Rob (Zoë Kravitz) è bisessuale e birazziale, è ancora nerd, egoista, introversa, ossessiva e sentimentalmente costipata, ma più consapevole dei suoi errori, idiosincrasie e tendenze autodistruttive che fino all’ultimo tenta di nascondere. È un personaggio a tutto tondo (molto vicino alla Fleabag di Waller-Bridge), e così lo sono il fidanzato Mac o gli amici Cherise e Simon.

“Immagino nuove strutture e mitologie nate dalle coreografie dei corpi femminili, corpi di nessun genere, corpi di persone di colore, corpi disabili. Immagino di scavare i miei desideri e bisogni, che ho seppellito sotto quelli degli uomini”.

High Fidelity è un romantic dramedy che moltiplica i punti di vista e fornisce un ritratto sincero delle angosce dei venti-trentenni di oggi, archiviando il mero girl power. Come scrive Alan Sepinwall su Rolling Stone, la serie “è abilmente a cavallo tra cover fedele e reinterpretazione radicale”; è rétro e moderna insieme, simile ma diversa, riscritta su misura per protagonisti giovani neri, queer e nerd appassionati di musica, rappresentati prima di tutto come esseri umani, con amori, sogni, dubbi, piccoli e grandi disastri, e non come quote. Solo così la pratica del gender swap può trovare senso oggi: con una riformulazione plurale, più complessa e vicina al reale, capace di lasciare un segno nella cultura pop e, forse, anche nelle nostre vite. Del resto, le storie migliori hanno sempre fatto questo. Come dice Brit Marling: “Il momento in cui immaginiamo un nuovo mondo e lo condividiamo con gli altri attraverso una storia è quello in cui il nuovo mondo può arrivare davvero”.


Manuela Stacca

Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.

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