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L’eterno fascino delle ragazze cattive

Nel corso degli anni, le protagoniste della dark teen comedy hanno cambiato stile e personalità, ma il loro ruolo nella rappresentazione audiovisiva è rimasto lo stesso: illuminare le contraddizioni della società occidentale e costringerci ad affrontare gli aspetti più ambigui e oscuri della nostra identità.

Quando avevo dodici anni convinsi i miei genitori a installare un piccolo televisore a tubo catodico nella mia cameretta. Non ricordo con quali argomentazioni riuscì a ottenere quel piccolo privilegio, ma non dimenticherò mai la prima notte trascorsa davanti a quella piccola tv. Isolata nel mio rifugio personale, il viso bagnato dalla luce fredda dello schermo, il corpo inclinato in avanti come a volersi fondere con le immagini: ero finalmente pronta a immergermi nel sogno proibito della seconda serata.

Ricordo nitidamente anche le prime scene del film in onda su Italia 1 che segnò l’inizio di quella libertà tanto desiderata: tre ragazze vestite come le it girl di Cosmopolitan sfrecciano a tutta velocità su una Chrysler decappottabile tra le vie di un sobborgo americano. Ridono complici, si fanno gioco della loro migliore amica Liz, che hanno appena rapito dalla sua camera da letto e rinchiuso nel portabagagli dell’auto con una caramella spaccamascella infilata nella bocca, in un perverso tentativo di realizzare il perfetto scherzo di compleanno. La stanno portando al suo diner preferito per offrirle una colazione con i fiocchi, dicono. Una volta arrivate al parcheggio del locale, però, la burla si trasforma presto in un incubo: nel baule aperto di scatto per coglierla di sorpresa, Liz è immobile, gli occhi vitrei fissano le amiche con vuoto terrore, mentre nella bocca non c’è più traccia della caramella. È scivolata in gola, soffocandola.

Quella sera, davanti al mio primo film vietato ai minori, scoprì un’immagine dell’adolescenza che non avevo mai incontrato prima, un’idea profondamente diversa da quella che mi avevano trasmesso i cartoni dopo pranzo o i primi telefilm adolescenziali che iniziavano ad affacciarsi nel palinsesto televisivo. Era una rappresentazione cruda e invitante al tempo stesso, dove il glamour si intrecciava con la violenza, il glitter con l’odio, mentre i corridoi scolastici smettevano di rappresentare il palcoscenico di nuove amicizie e primi amori per trasformarsi in teatro di malvagità, pericolo e, infine, morte.

You’re nothing, we’re everything

Quando Jawbreaker (Amiche cattive) debuttò nelle sale cinematografiche verso la fine degli anni Novanta, la reazione della critica fu decisamente meno elettrizzata di quella di una dodicenne che aveva appena scoperto il connubbio tra umorismo nero e lucidalabbra alla fragola. Con un punteggio del 22% su Metacritic e solo il 14% di approvazioni positive su Rotten Tomatoes, la storia scritta e diretta da Darren Stein venne criticata con l’accusa di essere superficiale, inutilmente spietata e derivativa. L’ultimo giudizio trova la sua spiegazione in un precedente cinematografico, a cui la sceneggiatura di Jawbreaker strizza inevitabilmente l’occhio: Heathers (Schegge di follia), che nel 1988 aveva invece conquistato pubblico e stampa per il suo ritratto cinico e sovversivo dell’adolescenza americana e dell’high school come incubatore degli aspetti più tossici della società contemporanea.

Il mondo fuori dal liceo è brutale, ma le aule scolastiche possono esserlo ancora di più, ed è qui che le dinamiche di competizione e sottomissione secondo la legge di natura della società neoliberista si fanno più istintive e feroci. Prevaricare per non essere prevaricate, umiliare per non essere umiliate, uccidere per non venire uccise.

Entrambe le pellicole vedono come protagoniste le ragazze più popolari della scuola (nel primo caso le “Flawless Four”, nel secondo caso le “Heathers”, un nome portato come una divisa) ed entrambe sfruttano gli elementi canonici della teen comedy per trasformare il liceo americano in una riproduzione in scala della vita adulta. Qui, però, la giovinezza non è un semplice catalizzatore di bellezza e joie de vivre, ma benzina sul fuoco, l’elemento che porta gli eventi a degenerare velocemente, spingendo la trama verso conseguenze grottesche il cui messaggio è chiaro come una scritta impressa col rossetto sullo specchio del bagno: il mondo fuori dal liceo è brutale, ma le aule scolastiche possono esserlo ancora di più, ed è qui che le dinamiche di competizione e sottomissione secondo la legge di natura della società neoliberista si fanno più istintive e feroci. Prevaricare per non essere prevaricate, umiliare per non essere umiliate, uccidere per non venire uccise.

Nel 2004 arriva il nipotino fortunato delle due pellicole: Mean Girls, un film che rappresenta la sintesi hegeliana dei due precursori. Crudele al punto giusto da mantenere accesa la metafora della gioventù come specchio senza filtri dei mali moderni, ma equipaggiato di una storia edulcorata dagli aspetti più cinici e violenti e un’estetica McBling talmente accattivante da essere diventato negli anni il simbolo indiscusso dell’immaginario Y2K. 

La riduzione degli aspetti più macabri in Mean Girls non può essere un caso: se Jawbreaker era stato criticato per rendere la violenza troppo glamour senza problematizzare la propria rappresentazione, anche Heathers aveva avuto problemi con il suo messaggio provocatorio, solo che le tensioni si erano risolte ancora prima dell’inizio delle riprese. Secondo il copione originale, infatti, il finale avrebbe dovuto essere molto più esplosivo e concludersi con un prom in paradiso, solo che il principale investitore pose come condizione del finanziamento la realizzazione di un lieto fine. Non dimentichiamoci che nell’America delle sparatorie di massa la violenza liceale è una metafora solo fino a un certo punto. È chiaro, quindi, che una produzione come quella di Mean Girls, in cui sono stati investiti 18 milioni di dollari a fronte dei 3 milioni dei due film precedenti, non potesse certo rischiare di imbattersi in critiche e ostacoli di questo tipo. 

Anche se travestito da reginetta di bellezza, l’orrore descritto da queste dark teen comedy è reale: l’arma più potente della società capitalista veste gli abiti di una giovane donna pronta a fare tutto per assicurare il successo della propria scalata sociale. Anzi tre, perché tutte le pellicole giocano sul conflitto sbilanciato di tre contro una: è il potere del trio, solo che queste streghe indossano abiti firmati e praticano una magia mondana; la santa trinità in zeppe e crop top, con la trousse sempre nella borsetta e la manicure affilata.

“I killed the teen dream. Deal with it.” ripete la voce registrata di Rose McGowan nel colpo di scena finale di Jawbreaker. È vero, ma solo in parte, perché questi film hanno fatto molto di più: non si sono limitati a uccidere il sogno adolescenziale, ma a reincarnarlo in una nuova rappresentazione; una riscrittura che, oggi, segue la tradizione della commedia nera liceale per mettere in luce nuovi aspetti della società.

I’m just a teenage dirtbag baby like you

Le sorti delle ragazze popolari vengono rovesciate involontariamente nella parabola di Scream Queens, la serie tv del 2015 che vede come protagonista l’irriverente trio delle “Chanel”, così irriverente che a un certo punto gli stessi fan della serie tv hanno iniziato a protestare su Twitter per la mancanza di tatto di certi dialoghi. In questo slasher satirico ambientato in un prestigioso campus universitario americano, la vera mean girl alla fine si rivela essere un’altra: non l’ape regina, ma la ragazza nerd con il collare per la scoliosi, l’apparecchio e gli outfit improponibili. Le Chanel rappresentano ancora il perfetto prototipo delle rich bitches, solo che il mondo attorno a loro sta cambiando e chiede nuove anti-eroine. Ultime rappresentanti di un immaginario in declino, vengono dichiarate obsolete, l’audience stessa è stanca della loro cattiveria.

Mentre le malefatte in mini gonna non sono più così attraenti, il linguaggio caustico dell’umorismo nero adolescenziale diventa l’espediente per creare una zona protetta in cui sospendere il giudizio e sperimentare il lato oscuro dei nostri desideri, esplorando l’area grigia in cui si confondono l’istinto, la morale e le pressioni della società.

La dark teen comedy, però, non muore con loro, anzi, rinasce dalle ceneri delle sue prime vittime, le perdenti. Due film recenti testimoniano questo fenomeno: Booksmart (La rivincita delle sfigate) del 2019 e Bottoms, uscito nel 2023. Entrambi, seppur in modi diversi, giocano con il canone della commedia anni Zero à la American Pie, dove sesso e atteggiamenti problematici abbondano indiscriminatamente, usando la volgarità come dispositivo per esplorare comicamente la dimensione del desiderio femminile incarnato nelle figure che, nell’immagine canonica della mensa liceale americana, siedono ai tavoli opposti delle ragazze popolari: le secchione e le lesbiche. Quelle che decenni di coming-of-age sardonici hanno immortalato come le unfuckables, indesiderabili. Ma cosa succede quando sono le indesiderabili a esprimere ardentemente il loro desiderio? Quando la telecamera non le inquadra più da lontano, attraverso lo sguardo dei maschi arrapati o delle reginette del ballo, ma adotta la loro prospettiva?

Le reazioni contrastanti alla rappresentazione satirica messa in scena da Bottoms sono un ottimo esempio di come questo genere di commedia adolescenziale può rappresentare molto più di una vuota manifestazione di superficialità e crudeltà, ma uno spazio di dibattito e confronto su come la narrazione audiovisiva può liberare o consolidare stereotipi e cliché. Mentre il film interpretato da Rachel Sennott e Ayo Edebiri non ha convinto molti critici, che lo hanno definito privo di tridimensionalità e di sfumature politiche, una buona fetta del pubblico LGBTQ+ lo ha invece celebrato per il suo portato rinfrescante ed emancipatore, riconoscendo proprio in quel mix surreale di grossolanità e violenza la formula segreta per regalare una storia queer fuori dallo standard drammatico, al tempo stesso in grado di riflettere sugli aspetti problematici e inconsistenti del politicamente corretto e della retorica dell’empowerment. Prendendo le mosse da pellicole meno note, come But I’m a cheerleader (1999, con una giovanissima Natasha Lyonne) e Ghost World (2001, con una giovanissima Scarlett Johansson), Bottoms indica una nuova strada per la commedia adolescenziale, trasformando questo genere in uno spazio di riflessione e divertimento senza impegno.

Mentre le malefatte in mini gonna non sono più così attraenti, il linguaggio caustico dell’umorismo nero adolescenziale diventa l’espediente per creare una zona protetta in cui sospendere il giudizio e sperimentare il lato oscuro dei nostri desideri, esplorando l’area grigia in cui si confondono l’istinto, la morale e le pressioni della società. Non si tratta, però, di un esperimento senza conseguenze: questi film non insegnano semplicemente a considerare il liceo come l’anticamera della vita adulta, ma come l’espressione più diretta e sfacciata di una parte di noi che, in quanto creature del capitalismo, desidera di essere ascoltata, e con cui dobbiamo imparare a dialogare. È quella parte egoista, crudele, ambiosa e insaziabile che continua a ricordarci che le cose non sono mai come vorremmo che fossero, perché il liceo è un inferno e la vita pure. Al tempo stesso, accettare l’esistenza di un lato oscuro, non significa lasciarlo vincere, ma imparare a guardarlo negli occhi mentre scegliamo che esseri umani vogliamo diventare. Nel lungo processo che accompagna questa decisione, potremmo anche decidere che tutto sommato quegli aspetti non ci fanno più così paura, anzi, a guardarli bene riescono anche a strapparci una risata.


Priscilla De Pace

Scrive di cultura digitale e società. È autrice della newsletter Una goccia e del saggio Al centro dei desideri. Consumo, nostalgia, estetiche digitali pubblicato per la collana Quanti di Einaudi (2023).

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