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L’epoca delle meta-narrazioni pop

Il formato del video musicale si è evoluto, trascendendo la sua forma originaria per diventare il veicolo di uno storytelling artistico intimo e complesso. Nascono così le meta-narrazioni pop, nuove opere cinematiche che sfidano i confini tradizionali tra cinema e musica.

Tra i relitti culturali del Novecento che ci piace considerare obsoleti, un posto speciale per i millennial come me, cresciuti davanti a Mtv, ce l’hanno i video musicali. Dati per sorpassati almeno un paio di volte nell’ultimo decennio, a loro è stato dedicato un recente requiem anche sul Guardian che, con una raccolta di numeri e opinioni di addetti ai lavori, prova a spiegare come stia svanendo l’idea che i videoclip siano una parte fondamentale del modo in cui facciamo esperienza di un artista e della sua opera. Con il budget che una volta si investiva in un video – racconta nell’articolo la regista Olivia Rose – adesso bisogna realizzare almeno tre visualizer, quelli che nel gergo italiano sono chiamati “visual video”, vale a dire loop di immagini che servono giusto per pubblicare la canzone sulla piattaforma più frequentata di tutte (YouTube) con un background più interessante dell’artwork statico.

Forse è vero, come molti sostengono, che la riduzione della capacità di concentrazione probabilmente accelerata dalle abitudini di consumo di video short-form (TikTok, ma anche gli Shorts di YouTube) porta il pubblico a domandare contenuti differenti, e li allontana dai dispendiosi 3 minuti di un videoclip. Eppure, a ben vedere, questa forma d’arte attira ancora parecchi sguardi: negli ultimi 5 anni, le views accumulate nei primi 12 mesi dall’uscita dei 10 video musicali di maggior successo non sono né in calo né in salita; l’unico trend è la fine dell’egemonia anglofona a favore del pop latinoamericano e coreano. Insomma, almeno al vertice, il video resiste. Ma come parte di qualcosa di più grande e articolato: le meta-narrazioni pop.

L’album cinematico

Siamo nell’era… delle ere. Quello che una volta si chiamava album cycle, la “vita” di un disco che nasceva con la produzione e cresceva con la promozione tramite videoclip e tour dal vivo fino al suo naturale esaurimento, è stato rimpiazzato ai più alti livelli della musica pop da una forma più complessa e matura di racconto. Post, merch e, naturalmente, canzoni: il racconto di un’era si sviluppa in modo tortuoso e fittissimo, un impegno quotidiano che non fa che rinsaldare la posizione delle popstar come singola categoria di celebrità più seguite sulle piattaforme social. E il video non è secondario in questo panorama multimediale: i dischi sono anticipati da teaser, come fossero film; e i videoclip raramente fanno emergere nuove visioni, nuovi look e – importantissimo – nuove storyline in modo brusco. Anzi, se possibile presentano l’antefatto con tale precisione che viene da chiedersi se non ci si sia persi un “previously on…”: un esempio è il video di yes, and di Ariana Grande, introdotto da una scena che ha per protagonisti i pettegoli e gli “hater” che l’hanno – a suo dire – perseguitata nel periodo tra il precedente disco e quello nuovo, che il singolo intendeva presentare per l’appunto non come un’opera artistica in sé, ma come il capitolo di un lungo film a episodi.

Questa cura nell’iconografia pop non è del tutto nuova, ma è nuova la cura meticolosa con cui viene dipanata e l’approccio produttivo con cui si svolge. D’altronde, non è nuova nemmeno la formula di base di questo processo artistico-commerciale: l’antidoto alla distrazione è il racconto. E se il mondo della tv e del cinema sembra propenso ad accrescere distrazione e confusione nell’era delle piattaforme, provate a farvi un giro su Spotify, dove ogni giorno escono 100mila nuove tracce. Bisogna dire, anzi, che la musica ha fatto da pioniera tra le varie industrie culturali nel riformulare l’offerta per un pubblico sfuggevole e poco disposto a investire per la sua domanda di intrattenimento. I visual album iniziano, in parte, proprio così.

Il video non è più una pillola promozionale, ma il tassello di una comunicazione a tutto tondo, la chiave di volta alla quale è richiesto di sostenere il peso di un’intera stagione artistica, dallo styling ai visual dei concerti. In sostanza, l’estensione e amplificazione di ciò che la musica da sola non saprebbe dire. Ma anche un’estensione del suo metodo creativo.

Esistono illustri predecessori di questo particolare format di ampio respiro. Purple Rain di Prince nel 1984, grazie anche al suo successo, poteva dare l’impressione di aver rivitalizzato il genere del musical, e invece ad anni di distanza pare aver posto le basi per il visual album. Sicuramente contribuiva al senso di potenziamento del mezzo videoclip così come, pochi mesi prima, aveva fatto Michael Jackson con il video di Thriller diretto da John Landis. Era l’epoca hollywoodiana del videoclip che, per ragioni economiche e culturali, non poteva durare troppo. Così, mentre Prince falliva nel suo tentativo di diventare regista cinematografico (Under The Cherry Moon, 1986), il videoclip ha avuto una storia di iconografie ambiziose e lavori in economia, piuttosto che veri e propri tentativi di espanderne i limiti. Al limite, un artista poteva aspirare a far uscire una videocassetta antologica: ad esempio, CrazyVideoCool, appendice videografica per il quasi omonimo disco CrazySexyCool del trio R&B-pop delle TLC, non è altro che una raccolta dei (peraltro eccellenti) video girati per i singoli di quel disco, annodati fra loro con un sottile filo documentaristico che fa sembrare il tutto più un mini-documentario di VH1 che altro.

La convergenza di crisi della discografia e riduzione dei costi di produzione dovuti alla cinematografia digitale ha posto le basi per il visual album come lo conosciamo adesso. Artisti come Beck con The Information nel 2006, potevano permettersi di girare un video per ciascuna traccia dei loro dischi e caricarli sulle nascenti piattaforme come YouTube per far montare l’hype intorno alle loro nuove canzoni. Questo non poteva che instaurare l’idea che, con una giusta visione artistica, un album potesse trasformarsi in un lavoro cinematico.

Autobiografismi

Il disco di Beyoncé del 2013 che porta il suo nome è considerato un punto di non ritorno per i visual album: i video abbinati a ciascun brano rispondevano a un’intenzione tuttora importante per lo sviluppo delle meta-narrazioni pop (la capacità di immergersi nelle canzoni); ma, per quanto il progetto avesse un tema portante, la corrispondenza biunivoca tra capitoli e tracce dava ancora l’impressione di una proposta frammentata, piuttosto che di un racconto. Le potenzialità narrative, artistiche e commerciali di questo formato diventano palesi nel progetto successivo, Lemonade (2016), che come film ha una sua distribuzione a parte (televisiva, su HBO) e che usa le canzoni come scusa per raccontare una storia, quella di un tradimento. Una storia così personale non può non prestarsi a ulteriori sviluppi narrativi e biografici, tra speculazioni sull’identità di “Becky with the good hair” e retroscena più o meno realistici. Insomma, Beyoncé aveva creato uno spettacolo di intrattenimento che davvero non finiva con il disco e che si dispiegava in un calendario di uscite imponente e tiratissimo che contemplava anche una performance all’Half Time Show (peraltro come ospite) e un tour mondiale iniziato quattro giorni dopo l’uscita del disco/film, finendo per occupare quasi per intero il 2016, più di una stagione televisiva e con una storia di infedeltà e ricongiungimento non meno intrigante. Il video non è più una pillola promozionale, ma il tassello di una comunicazione a tutto tondo, la chiave di volta alla quale è richiesto di sostenere il peso di un’intera stagione artistica, dallo styling ai visual dei concerti. In sostanza, l’estensione e amplificazione di ciò che la musica da sola non saprebbe dire. Ma anche un’estensione del suo metodo creativo.

Il ruolo di Beyoncé in questo e nei successivi progetti (in particolare Black Is King del 2020, distribuito su Disney +) è infatti quello della direttrice creativa: proprio come nella scrittura delle canzoni e nella produzione, per cui si affida a decine di grandi professionisti, così per questi progetti collabora con registi di videoclip e film, e in entrambi i casi si riserva la guida del progetto. In questo senso, una popstar che opera al livello di Beyoncé non è diversa da un regista o da un produttore esecutivo di un progetto cinematografico o televisivo: il suo compito è tenere la barra dritta del concept, incarnarlo come attrice protagonista e guidare il lavoro di un team altamente qualificato. Quando si parla delle imprese registiche di artisti musicali, bisogna sempre prendere in considerazione questo aspetto pratico. Possiamo indagare, per esempio, i film di Franco Battiato come traduzione cinematografica di una filosofia e di una visione poetica espressa anche nelle sue canzoni; ma probabilmente il maestro non sarebbe andato oltre Perdutoamor se non avesse trasportato nel cinema la capacità di delegare e lavorare in tandem con altre persone creative. 

In questo, aver accumulato dell’esperienza nel mondo del cinema o della tv può aiutare in questo tanto quanto una sana carriera musicale, se non di più. Ad esempio, Gloria! di Margherita Vicario è il debutto da regista di un’artista che, prima di essere cantautrice pop, era già una professionista riconosciuta delle serie televisive e del cinema italiano. Eppure, le sue carriere non procedono separate, almeno se guardiamo lo specifico caso di questo film, che sicuramente segna una tappa importante del suo percorso artistico, ma anche civile. Gloria! è un film sul patriarcato, sulla libertà di espressione musicale delle donne, sull’appropriazione maschile del talento femminile, tutti argomenti che Vicario ha trattato in più di un brano (come Orango Tango), spesso in scena una storia non autobiografica (come in Romeo). La colonna sonora del film, con canzoni originali mimano la musica da camera e sacra del XVIII-XIX secolo ma anche lo stile pop irriverente di Vicario, che mescola dialoghi e riadattamenti di brani altrui (Questo corpo de La Rappresentante di Lista, la cui componente Veronica Lucchesi è anche attrice del film), è un lavoro magistrale di allargamento di immaginari, di finzione che ingloba la realtà e viceversa. Margherita Vicario è regista non solo di un film, ma di un progetto che è insieme sonoro e visivo, che si completa con il video del singolo ARIA! dove Vicario veste come le protagoniste del film, in un lavoro di identificazione e rimando chiuso alla perfezione. Che il racconto arrivi all’ascoltatore-spettatore da un personaggio in costume, da una traccia audio elettronica, da un backstage della produzione o da un videoclip non cambia il messaggio: Margherita Vicario ci sta parlando di sorellanza e di libertà. Questa è la sua meta-narrazione.

Nell’era delle meta-narrazioni pop la differenza sta tutta nell’io narrante e postante. I progetti musicali-visivi, anche quando sono pachidermici e ambiziosi come quelli di Beyoncé, anche quando sono solo parzialmente autobiografici, emanano direttamente dalla persona che li dirige, li interpreta e successivamente li posta sui propri canali.

Del resto, non mancano (e non sono mai mancati) artisti musicali che optano per una seconda carriera come registi o showrunner – Donald Glover che è allo stesso tempo Childish Gambino e l’autore-protagonista della serie Atlanta; Luciano Ligabue che è cantautore e regista di un paio di film di discreto successo. Ma nell’era delle meta-narrazioni pop la differenza sta tutta nell’io narrante e postante. I progetti musicali-visivi, anche quando sono pachidermici e ambiziosi come quelli di Beyoncé, anche quando sono solo parzialmente autobiografici, emanano direttamente dalla persona che li dirige, li interpreta e successivamente li posta sui propri canali – talvolta con il supporto di media (più) tradizionali. A questo intreccio contribuisce la naturale curiosità del pubblico per le popstar, chiamato implicitamente dal contesto a collegare i punti fra fatti e immagini, che costruisce attivamente una propria interpretazione del maxi testo audiovisivo – e vi si aggiunge, di straforo. In questo gioco, talvolta perverso e voyeuristico, l’artista che sa offrire più elementi personali nella musica parte avvantaggiato. Il che oggi non è difficile, dal momento che l’autobiografismo è la tendenza dominante nella scrittura del pop attuale.

C’era una volta Taylor

“Ogni cosa è ispirazione” (o “everything is copy”) diceva Nora Ephron. Forse non è un caso che questo mantra sia stato rivendicato più di una volta da Taylor Swift, colei che intorno alla sua figura ha costruito una specie di universo cinematografico. Chiamarlo così, con questa suggestione disneyana, non è esagerato. Alla fine del 2022 la casa di produzione Searchlight Pictures ha annunciato di aver stipulato un contratto per il debutto registico della popstar americana, che scriverà e dirigerà un lungometraggio sul quale ancora non si sa nulla. Francamente, questa notizia non ha stupito nessuno degli osservatori più attenti di Swift. Sul livello simbolico e l’intreccio meta-narrativo dei suoi testi la stampa americana riflette da almeno un decennio. In più, anche nel mezzo di un album (l’ultimo The Tortured Poets Department) che per la prima volta non ha raccolto elogi unanimi, il talento di storyteller dell’artista non è mai stato messo in discussione. Le sue canzoni, fin dagli esordi nel 2006, sono costruite con una tale attenzione per l’esposizione dinamica di fatti, che per molti anni i suoi videoclip hanno utilizzato fedelmente i suoi testi come storyboard. Con il tempo, poi, gli elementi autobiografici dei suoi brani – spesso ridotti da una critica vagamente sessista come “vendette contro gli ex fidanzati” – si sono intrecciati in un arco narrativo che copre più di un decennio, dove personaggi ma soprattutto temi e oggetti ricorrenti compongono un quadro che evidentemente supera il normale repertorio lirico di un cantautore. Anche nella discografia di uno Springsteen tornano argomenti e luoghi, talvolta anche figure piuttosto riconoscibili: ma il modo che il Boss ha utilizzato per annodare insieme tutti questi fili è stata letteralmente l’autobiografia, nel senso del memoir; Taylor Swift, invece, utilizza la videografia. E lo fa con un ruolo attivo.

Dopo aver contribuito per qualche anno alla scrittura dei soggetti di questi videoclip, avvalendosi spesso di registi maestri del genere come Joseph Kahn, dal 2019 in avanti Taylor Swift ha preso in mano anche la regia. Il suo interesse per la settima arte non è effimero né superficiale. Il cortometraggio All Too Well: The Short Film, presentato nel 2021 al Toronto International Film Festival, lo ha dimostrato: Swift conosce e sa citare le sue fonti (John Cassavetes, Noah Baumbach) e ha acquisito dimestichezza con la disciplina, compresa la capacità di delegare. La collaborazione, si diceva, è necessaria quando si vuol costruire un grande mondo di immagini, e Taylor sa a chi rivolgersi quando, ad esempio, cerca un direttore della fotografia: Jonathan Sela (John Wick) per un video ispirato ai film di rapine (I Can See You); Rodrigo Prieto (Scorsese, Iñarritu) per un video fatto di dramma e simbolismi. Ma perché la meta-narrazione pop funzioni, tutto deve convergere nella figura centrale di questa storia: l’artista-regista di sé stessa. Chi resta perplesso per il suo successo spesso arriva proprio a questo punto: com’è possibile che raccolga tutte queste attenzioni una popstar che non ha il carisma di Madonna né la tecnica di Adele né l’esuberanza di Lady Gaga? Una delle ragioni sta invece esattamente qui: la sua immagine da ragazza della porta accanto (con due jet privati e un miliardo di dollari in banca) è esattamente quella che si presta meglio al suo storytelling musicale e alla sua meta-narrazione generale. Certo, nei videoclip interpreta spesso personaggi diversi da sé, ma non è per la recitazione che il pubblico resta (altrimenti, le sue prove in Cats e Amsterdam sarebbero state più memorabili); lo spettatore resta semplicemente avvinto da un insieme di informazioni e stimoli coerenti tra loro, con elementi di realtà e di fantasia che si compenetrano senza fatica, ricchi di dettagli e sufficientemente familiari da volerci vivere. In una parola, cinema. Qualche osservatore ritiene eccessivo il ricorso di Swift a riferimenti interni e Easter egg, come se l’invito implicito per i fan a scavare nel dettaglio non fosse altro che un modo per renderli partecipi a un’agenda di release e altri appuntamenti commerciali (e in buona parte lo è, decisamente). Ma direbbe lo stesso delle simmetrie di Wes Anderson o degli sguardi al cielo di Steven Spielberg? Quello che Taylor Swift ha messo a punto è un linguaggio registico, una firma autoriale che non solo non confligge con la sua scrittura musicale, ma la esalta.

Il cinematic universe della Marvel potrà pure scricchiolare; le serialità dovranno pure navigare la crisi del modello streaming; e il futuro saranno senz’altro solo video brevi e in verticale. Ma se le celebrità sapranno costruirsi intorno grandi racconti coinvolgenti, e far sentire gli ascoltatori-spettatori parte di un gioco condiviso, il cinema avrà una ragione per continuare ad abitare nelle canzoni.


Federico Pucci

Giornalista dal 2010. Ha scritto di musica e spettacolo per ANSA e continua a farlo su Fanpage, DLSO e altri magazine. Ha diretto il canale multimediale Louder e ha pubblicato un libro sull’etichetta Carosello. La sua newsletter si chiama Pucci.

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