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Le rivincite del couch potato

Troppe cose da vedere. Siamo liberi, sì, forse. Ma anche sommersi di titoli che si esauriscono in un istante. E allora perdersi qualcosa, per scelta, diventa una gioia di prima grandezza. E si può tornare alle vecchie abitudini.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 25 - Contro la tv. Venticinque miti da sfatare del 06 dicembre 2019

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Se una serie finisce la sua settimana di hype, esiste ancora? Non ho visto Altered Carbon, per esempio, e non so nemmeno come sia, ma una parte di me lo percepisce come lontano, frutto di un periodo passato e non più godibile. Eppure, certo è ancora lì negli archivi di Netflix, pronto allo streaming. Potrei dargli un’occhiata, se non fosse per quest’altro titolo Prime Video di cui tutti hanno parlato per due settimane (un successo!) e di cui ora mi sfugge il titolo.

Riconoscete il problema? È una delle dannazioni della cultura contemporanea, la troppa scelta. E non riguarda solo l’intrattenimento, anzi. Catene di supermercati e giganti dell’e-commerce come Amazon hanno innescato un circolo vizioso per cui scaffali reali o digitali devono avere sempre più prodotti, più cose. In un articolo per l’Atlantic, Amanda Mull ha sottolineato come la scelta illimitata possa generare ansia nel consumatore. Se la ricerca di un paio di cuffie bluetooth è in grado di scoperchiare un vaso di Pandora di siti, recensioni, offerte, coupon e affari imperdibili, lo stesso avviene con i programmi tv. È il rovescio della medaglia di questa golden age televisiva: la Fomo.

Perderci tutto per strada

Acronimo di Fear of Missing Out (paura di perdersi qualcosa), la sigla fu inventata da Patrick J. McGinnis nel 1996, in un paper sul marketing e la finanza, per indicare una forma di ansia sociale alimentata dalla possibilità di scelta e dal confronto con gli altri. Perdersi l’ultimo titolo Netflix o Hbo o Channel 4 non ispira necessariamente paura, o almeno così mi auguro per tutti, ma un leggero fastidio e inquietudine è innegabile: il timore dell’isolamento sociale, di non poter parlare di o di non comprendere qualche meme su Twitter, è parente lontano di questo sentimento. La paura di rimanere soli, la peer pressure, il terrore del non risultare cool è tra i carburanti del binge forzato e strascicato.

Alla base del problema c’è, oltre alla natura ansiogena dei social media, lo stravolgimento dell’offerta televisiva. Intendiamoci, la polverizzazione dei contenuti ha i suoi vantaggi: tv via cavo e servizi di streaming di ogni tipo hanno aumentato l’offerta e reso possibile la produzione di prodotti di nicchia, ricercati e strambi, migliorando il livello qualitativo e di fatto innescando una lunga età dell’oro. Il palinsesto non è però mai morto. Quel monolite sequenziale figlio di un tempo in cui i contenuti erano trasmessi a tutti nello stesso momento è mutato in una creatura dall’aspetto e dal comportamento diverso. Rimane ancora in vita a condizionare le nostre vite.

La paura di rimanere soli, la peer pressure. Il terrore del non risultare cool è tra i carburanti del binge forzato e strascicato.

Prima di inoltrarci in questa evoluzione, cerchiamo di fissare un momento non arbitrario nella storia in cui il palinsesto potrebbe essere entrato in crisi. Non parliamo dell’avvento dei videoregistratori (o di TiVo negli Stati Uniti), che erano comunque elementi subordinati all’ordine del palinsesto, quanto di un cambiamento innanzitutto tecnologico e logistico più profondo. All’origine di tutto, senza ombra di dubbio, c’è stata la diffusione di internet su scala globale. Già Napster, eMule e i torrent, ovvero il download illegale di contenuti da internet, per dirla come fossimo della Polizia postale, avevano indicato a una generazione di utenti una via alternativa al consumo tv. Un mondo in cui le serie di tutto il mondo erano disponibili sempre, scaricandole. Nei tardi anni Zero, due aree demografiche squattrinate ma connesse, i liceali e gli universitari, si erano già abituate a un palinsesto mobile e casalingo, in cui l’ultimissima puntata di Lost era sempre disponibile, con sottotitoli in italiano, scritti in poche ore da anonimi utenti benefattori. Se potessimo osservare il processo su una piastra di Petri, vedremo la macchia allargarsi sempre di più, fino a diventare maggioranza, mainstream. A questo punto, ecco l’inevitabile consacrazione di metodi legali di consumo, e la grande vittoria del nuovo nei confronti del rigido ancien régime.

Il palinsesto sono gli altri

Non proprio, però. Perché il Dna di quella struttura così ordinata e precisa è rimasta nel nuovo mondo degli schermi d’ogni dimensione e delle nicchie, grazie alla cultura dell’hype. L’aspettativa del prodotto nuovo e la pressione del suo racconto online è diventata il calendario con cui organizziamo l’uscita dei nuovi film e serie tv. Parafrasando Sartre fino al blasfemo, diremo che il palinsesto sono gli altri – e che ciascuno di noi è parte integrante di quel meccanismo di promozione, eccitazione, odio, backlash su cui si basa il successo di un prodotto culturale contemporaneo. Non sono i social a confermarlo: anche il successo del recap e delle analisi, ovvero di post o interi podcast dedicati al riassunto e vivisezione di titoli di successo, aiutano a supportare questa tesi.

Come la pillola rossa di Matrix, la Jomo permette di vedere il mondo per quello che è – un manipolo di piattaforme e canali che tentano disperatamente di far parlare di sé.

Questa rincorsa alla dopamina è un trucchetto psicologico efficace, per quanto stancante. In un mondo immerso in stimoli d’ogni tipo, l’eccesso di hype può portare alcuni soggetti ad abbandonare la presa e il gioco. La domanda è troppa, il ciclo “aspettativa-uscita-discussione-backlash” è provante emozionalmente, il burnout sta dietro le porte. Quando usiamo burnout – esaurimento – sappiamo ovviamente di usare un termine dalla carica emozionale e psicologica molto forte. Qui viene utilizzato nella variante leggera e “innocua”, solo a dimostrare quanto il processo possa stancare alcuni utenti, allontanandoli e scaricandoli di ogni energia. A questo punto mi permetto di usare un particolare autobiografico, perché temo che a me sia successo qualcosa di simile: meno tempo, meno voglia e più serie intricate-perché-devono-essere-à-la-Westworld hanno raffreddato i miei umori e fatto tornare nell’isola felice di Seinfeld o dei video scientifici su YouTube (ognuno ha il comfort food che gli pare). Ho lasciato scorrere Game of Thrones davanti ai miei occhi, affidandomi a internet e amici che inevitabilmente mi includevano nelle loro discussioni. A un certo punto, avvicinandomi al series finale, ho cominciato a seguire recap e analisi della serie su YouTube. E poi, il backlash al finale vero e proprio, che mi sono goduto come spettacolo di per sé. Pensavo di essere diventato matto, scemo o una combinazione delle due cose. Poi però l’edizione britannica di Wired ha pubblicato un articolo di Sophie Charara che descriveva la pratica di seguire recap di serie come “antidoto al burnout e i livelli tossici di screen time”. E ho visto la luce.

La gioia dell’antidoto

Tra i sottoprodotti della Fomo c’è anche la sua gemella positiva e gioiosamente rassegnata: la Jomo (Joy of Missing Out, la gioia di perdersi qualcosa). Qualcuno potrebbe interpretarla come la glorificazione della resa, un “non ce la faccio più e mi va bene”, ma a mio avviso dietro a Jomo si nasconde qualcosa di più: l’accettazione che il sistema in cui viviamo non ha alcun senso e si basa su prodotti la cui qualità è gonfiata ad arte da PR, agenzie di comunicazione e pubblico. Come la pillola rossa di The Matrix, la Jomo permette di vedere il mondo per quello che è – un manipolo di piattaforme e canali tentano disperatamente di far parlare di sé. Tanto vale imparare a scansarsi e riconoscere le trappole.

Identificata la matrice, il gioco diventa chiaro. Come scritto lo scorso anno dal New York Magazine, “Netflix segue una logica semplice, da tempo compresa da giganti quali Facebook e Amazon: la crescita conduce ad altra crescita che conduce ad altra crescita”. Ergo, il piede sull’acceleratore della produzione dei contenuti, indispensabile a mantenere la propria posizione nel mercato, nonostante il rischio di burnout per una parte del pubblico. L’artista statunitense Jenny Odell ha scritto un saggio personale sul desiderio di ritirarsi dall’assordante flusso di eventi, notifiche, stimoli e ansie che è la vita d’oggi. How to Do Nothing parte ovviamente dal tema del lavoro – di cui ha scritto anche l’italiano Silvio Lorusso nel suo Entreprecariat – per arrivare alla celebrazione di una forma di ribellione spesso snobbata: non fare nulla. La rivincita del couch potato è questa: ognuno ha la propria bolla con il suo palinsesto percepito. Uscirne potrebbe essere l’unico modo di creare finalmente, e davvero, un nostro palinsesto.


Pietro Minto

Nato a Mirano, in provincia di Venezia, nel 1987; vive a Milano. Collabora con Il Foglio, Il Post e altre testate. Dal 2014 cura la newsletter Link Molto Belli.

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