I videogiochi narrativi sono quelli che mettono al centro la storia, con una grossa dimensione testuale. Di nicchia, ma con radici antiche. Da Eliza a Infocom, da Janet Murray a David Foster Wallace.
“Caro mio, sì, il videogioco racconta una storia”.
Martin Amis, L’invasione degli Space Invaders.
Lo scorso aprile si è tenuta, ovviamente online, la seconda edizione di LudoNarraCon, una convention dedicata ai videogiochi narrativi, quei videogiochi dove la storia è il piatto forte del menù. Si tratta di produzioni indie dove il videogiocatore si muove nel mondo della storia leggendo contenuti testuali e cliccando a destra e a manca. È un genere di nicchia ma floridissimo, come testimoniato dai titoli lì presentati, e conoscerlo meglio può aiutarci a capire la storia dei videogiochi in generale, e magari anche il futuro dell’arte di raccontare storie. Per saperne di più, possiamo dare un’occhiata alla merce esposta sui banchetti virtuali della convention. Over the Alps è un ottimo titolo da cui partire.
Ambientato nella neutrale Svizzera della seconda guerra mondiale, il gioco vi chiede di calarvi nei panni di Smith, un agente segreto britannico che deve prendere contatto con un’altra spia di sua maestà. Attraverso le lettere che Smith scrive a un amico potrete modificare lo svolgimento della vicenda. Lungi dall’essere una semplice storia a bivi, vi ritroverete in questo modo a giocare a scacchi, viaggiare in mongolfiera o guidare a rotta di collo una fiammeggiante Maserati d’epoca.
Una delle penne dietro a Over the Alps è l’inglese Jon Ingold, già autore di 80 Days, un titolo del 2014 che è tutt’ora una delle migliori droghe di passaggio nel mondo dei videogiochi narrativi. Basato sul Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne, nel gioco siete Passepartout, il valletto francese di Phileas Fogg, l’eccentrico gentiluomo inglese a cui, nel 1872, viene lo sghiribizzo di circumnavigare il globo in meno di tre mesi. Mentre nel romanzo di Verne, da lettori, vi “limitate” (come scritto da Umberto Eco, leggere non è certo un’attività limitante o passiva ma comporta meno interazione con la trama rispetto a un videogioco narrativo) a seguire le peripezie della strana coppia, nell’adattamento videoludico siete voi a tracciare la rotta da seguire: volete cercare un passaggio a nord-ovest? Attraversare il Sud America? Restare un paio di settimane in panciolle alle Hawaii? Sta a voi decidere (gli sviluppatori stimano che, in una partita media, i giocatori leggeranno circa il 2% delle 750.000 parole che sono il contenuto testuale del gioco; per contesto, Guerra e pace di Tolstoj consta di meno di 600.000 vocaboli).
Sia Over the Alps che 80 Days sono due storie di viaggio, ma i videogiochi narrativi si adattano facilmente anche a vicende più sedentarie. Un altro titolo presentato a LudoNarraCon, per esempio, è stato Eliza, un gioco su psicoterapia e intelligenza artificiale ispirato dall’omonimo chatterbot programmato al MIT nel 1966 come parodia di uno psicoterapeuta rogersiano. Ed è proprio a quel periodo – gli anni in cui è lanciato Arpanet (una sorta di antenato di internet), l’Olivetti si inventa il Programma 101 (per certi versi il primo personal computer della storia) e l’uomo finisce persino sulla luna (grazie anche a un Programma 101) – che dobbiamo tornare se vogliamo scoprire qualcosa in più sull’origine dei videogiochi narrativi e dell’arte di raccontare storie interattive in generale.
In principio era il Verbo, le grafiche vennero dopo
Alla fine degli anni Sessanta, l’informatico Joseph Weizenbaum, in forza al Mit, crea Eliza, un chatterbot che, simulando un terapeuta rogersiano, risponde alle paturnie che gli sono sottoposte riformulandole (A “Sono depresso”, Eliza risponde: “Ti piace essere depresso?”). Weizenbaum voleva semplicemente dimostrare la superficialità delle interazioni uomo-macchina, ma la sua creatura finirà per ispirare poeti sperimentali come l’israeliano David Avidan, che cominciano a vedere nei computer uno strumento per scrivere un nuovo tipo di letteratura. Più in generale, il chatterbot di Weizenbaum svolgerà un ruolo importante nella storia dell’informatica e dei videogiochi. Eliza non è infatti solo la nonna di Siri e Alexa ma anche una zia di Mud1, il primo mondo virtuale della storia creato nel 1978 all’università di Essex, una genealogia videoludica che ci porta poi fino a Second Life e Fortnite.
Per arrivare a Mud1, dobbiamo però prima soffermarci sul genere che lo ha reso possibile (e la cui Forza scorre potente anche in titoli come Over the Alps e 80 Days): le avventure testuali. “Sei alla fine di una strada, davanti a un piccolo edificio di mattoni. Attorno a te c’è una foresta. Un piccolo fiume scorre vicino all’edificio e lungo un canale”: così comincia Colossal Cave Adventure, il videogioco creato nel 1976 da Will Crowther, nonché una delle prime avventure testuali della storia. Come già suggerisce il titolo, in Colossal Cave Adventure i giocatori devono avventurarsi all’interno di una cava (Crowther era anche un valido speleologo) che si favoleggia traboccante di ricchezze. Non c’è nessuna interfaccia grafica, solo parole. Si gioca impartendo semplici comandi testuali (se vi viene detto che c’è una lampada nei dintorni e volete afferrarla, dovrete scrivere “prendi la lampada”). Per gli amanti del retrogaming, potete giocare a Colossal Cave Adventure sul sito di Amc, che lo aveva rieditato come contenuto extra di Halt and Catch Fire, la serie tv sui pionieristici anni dell’informatica e di internet. Come ricordato in Get Lamp, un documentario sulle avventure testuali realizzato dal leggendario archivista di internet Jason Scott, quello era un periodo di limitate capacità grafiche ma infinita immaginazione dove “era esplorato il potere delle parole in un contesto interattivo”.
Colossal Cave Adventure fece infatti da apripista a un entusiasmante decennio di avventure testuali, spesso chiamate anche interactive fiction. Molte di queste opere, da Zork a Deadline, furono prodotte da Infocom, una delle prime aziende a trasformare i giochi per computer in un affare redditizio. Venduti anche in libreria (lo zoccolo duro dei fan erano lettori forti), i floppy disk di Infocom erano spesso accompagnati dai cosiddetti “feelies”, gadget che espandevano il mondo di finzione della storia ben oltre le poche decine di kilobyte concessi dai dischi dell’epoca. Per esempio, essendo una detective story, Deadline includeva una foto della scena del crimine, alcune lettere e persino delle pillole ritrovate vicino al corpo della vittima. Nonostante gli elaborati ammennicoli, molto era comunque lasciato all’immaginazione dei giocatori, che si ritrovavano spesso a disegnare su carta le mappe del gioco. Ancora lontani erano i tempi delle mappe dettagliate di Red Dead Redemption 2 e altri giochi open world. Allo stesso tempo, i videogiochi open world di oggi e le avventure testuali degli anni Ottanta sono più simili di quanto si possa pensare. Come si dice nel documentario Get Lamp, l’obiettivo di Zork e Deadline era di “creare mondi giganteschi dove ci fossero un sacco di cose da vedere e fare”. E cosa sono le praterie brulicanti di vita di Red Dead Redemption 2 se non la continuazione della logica con altri, più potenti, mezzi?
Per vari motivi, non da ultimo le ingenti risorse spese nel fallimentare tentativo di espandersi in settori diversi dai giochi per computer, la stella di Infocom si spegnerà presto. Appena un paio d’anni dopo aver rifiutato un’offerta d’acquisto per 28 milioni di dollari da parte della casa editrice Simon & Schuster, l’azienda sarà inglobata da Activision per meno di 7 milioni. Siamo alla fine degli anni Ottanta è il clima è cambiato. Tra discussioni interne e l’ascesa inarrestabile di giochi per computer dalle grafiche sempre più raffinate, le avventure testuali di Infocom escono di scena. Ma il sasso nello stagno è stato lanciato e non si torna indietro: il pc è un potentissimo strumento che serve non solo a lavorare ma anche a raccontare storie. Storie in cui il giocatore può dire la sua. In altre parole, storie interattive.
L’ologramma di Amleto
Ci sono due libri che raccontano perfettamente gli straordinari avvenimenti avvenuti nel mondo dello storytelling nella prima metà degli anni Novanta: Infinite Jest di David Foster Wallace e Hamlet on the Holodeck di Janet Murray. Sono pubblicati a distanza ravvicinata (il primo nel 1996, il secondo nel 1997) e contengono entrambi un riferimento all’Amleto di Shakespeare nel titolo (“Ahimè, povero Yorick! L’ho conosciuto, Orazio: un compagno di scherzi infiniti”, dice il principe di Danimarca). Per il resto, si tratta di due opere che hanno apparentemente ben poco in comune: quello di Wallace è un romanzo enciclopedico su un’America assuefatta da droghe di ogni tipo, il libro di Murray, oggi professoressa di narrativa interattiva al Georgia Institute of Technology, è un saggio su come il computer è destinato a cambiare il modo di raccontare storie nello stesso modo in cui lo hanno fatto in passato la cinepresa e prima ancora il libro stampato. Nonostante il sapore decisamente anni Novanta, Hamlet on the Holodeck è tutt’ora un libro fondamentale per chiunque si interessi di videogiochi, realtà virtuale e tutti gli altri modi con cui raccontare una storia usando un computer. Secondo Murray, tutti i media digitali hanno quattro caratteristiche: sono procedurali (il computer può seguire istruzioni), partecipativi (l’utente può interagire con il computer), spaziali (grazie a un computer possiamo creare spazi virtuali in cui navigare) ed enciclopedici (il computer è di gran lunga il medium più capace mai creato). In altre parole, grazie a un pc possiamo raccontare storie interattive e immersive, veri e propri mondi di finzione da esplorare.
In Colossal Cave Adventure i giocatori devono avventurarsi all’interno di una cava che si favoleggia traboccante di ricchezze. Non c’è nessuna interfaccia grafica, solo parole. Si gioca impartendo semplici comandi testuali (se vi viene detto che c’è una lampada nei dintorni e volete afferrarla, dovrete scrivere “prendi la lampada”). Era un periodo di limitate capacità grafiche ma infinita immaginazione dove “era esplorato il potere delle parole in un contesto interattivo”.
È un approccio echeggiato anche da Joel Berez, fondatore di Infocom, quando a fine anni Ottanta dichiarava in un’intervista che “quello che abbiamo fatto dall’inizio è cercare di simulare un universo e raccontare una storia all’interno di quell’universo”. Quando fu pubblicato, il libro di Murray scatenò una baruffa accademica, con la professoressa accusata di aver interpretato i videogiochi come un derivato della narrativa. No, dicevano i ludologi (e dicono ancora, il saggio di Ian Bogost Video Games Are Better without Stories è del 2017): i videogiochi sono innanzitutto giochi. Per dirla con Bogost: “Non un nuovo medium interattivo per raccontare storie, ma la forma estetica degli oggetti della nostra vita quotidiana”. In una delle Sei passeggiate nei boschi narrativi, Umberto Eco liquidava la questione dicendo che giochi e storie hanno la stessa funzione: “dare senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale”. In ogni caso, come spesso accade, non è che la verità stia da una parte o dall’altra: sono modi diversi e complementari di illuminare lo stesso oggetto di discussione.
Sicuramente, i giochi permettono di raccontare storie diverse da quelle a cui media come i libri o il cinema ci hanno abituato. Come scritto da Murray, tutte le storie lineari, a un certo punto, finiscono. Ma in Red Dead Redemption 2 o altre opere open world, oltre alla storyline principale, i giocatori possono giocare come vogliono, anche inventandosi nuove storie. I mondi di certi videogiochi, come lo scherzo di David Foster Wallace, sono infiniti.
Uno scherzo infinito
Nella prima metà degli anni Novanta, le possibilità della narrativa interattiva furono moltiplicate dalla diffusione di software come HyperCard della Apple (con cui venne creato Myst, un’avventura grafica che vendette sei milioni di copie) e dall’arrivo del web. Con la popolarizzazione del web, il mondo divenne un ipertesto, un universo in continua espansione di documenti collegati tra loro. L’idea di ipertesto (concetto sviluppato anche grazie al lavoro del padre gesuita Roberto Busa, una figura pionieristica) stuzzicò ben presto l’immaginazione degli scrittori di interactive fiction. I link, lasciando al lettore la possibilità di saltare da un argomento all’altro, introducevano infatti una miriade di nuove possibilità espressive. Nonostante vari affascinanti tentativi, nessuno scrisse mai la Grande Storia Ipertestuale (i motivi principali sono ben riassunti in questo articolo di Wired). Ciò non toglie che queste tecnologie cambiarono il mondo della letteratura. Scrittori blasonati come Borges avevano cominciato a fare a pugni con i confini del libro come medium già a partire dagli anni Quaranta, con l’obiettivo di raccontare storie non lineari, multiformi, che si sviluppassero in più direzioni. Ecco, scrive Murray in Hamlet on the Holodeck, il computer è il medium perfetto per narrare questo tipo di vicende.
Secondo Janet Murray, tutti i media digitali hanno quattro caratteristiche: sono procedurali (il computer può seguire istruzioni), partecipativi (l’utente può interagire con il computer), spaziali (grazie a un computer possiamo creare spazi virtuali in cui navigare) ed enciclopedici (il computer è di gran lunga il media più capace mai creato). In altre parole, grazie a un pc possiamo raccontare storie interattive e immersive, veri e propri mondi di finzione da esplorare.
Per certi versi, anche Infinite Jest è un romanzo che cerca di fare proprie le peculiarità espressive dei media digitali. Cosa sono infatti le sue cento e passa pagine di note e sotto-note se non link? È vero, Foster Wallace rigettò l’etichetta di “ipertesto” per la sua opera enciclopedica, ma allo stesso tempo scrisse che l’estenuante guazzabuglio di note era per lui importante (“lo difenderò con tutti e 20 i miei artigli”) perché gli permetteva, tra le altre cose, di imitare il diluvio di informazioni e dati che si aspettava diventasse una parte importante della vita americana nei successivi quindici anni e di aumentare l’interattività del romanzo. E arriviamo così al nocciolo della questione. Una delle idee cardine della letteratura di David Foster Wallace è proprio quella di raccontare storie interattive che fungano da antidoto alla solitudine, stabilendo una relazione tra autore e lettore. Insomma, l’opposto del misterioso film di cui si racconta in Infinite Jest, una pericolosa opera capace di ridurre i suoi spettatori in uno stato catatonico (il binge watching alla Netflix è per certi versi quella distopia diventata realtà).
In altre parole, parafrasando il Wittgenstein esistenzialista che fa da sfondo a gran parte della produzione di Wallace, la letteratura è un gioco che ha bisogno di almeno due giocatori per essere giocato. E questo è forse l’aspetto più importante di tutte le storie interattive, siano esse videogiochi indie stile Over the Alps, avventure testuali alla Colossal Cave Adventure (Will Crowther lo creò per ricucire la relazione con le sue figlie dopo il divorzio) o romanzi postmoderni di mille e passa pagine. Come dice il Reverendo Skyes alla fine di La scopa del sistema, il romanzo d’esordio di Foster Wallace: “Usatemi, amici. Giochiamo insieme questo gioco. Vi prometto che nessun giocatore si sentirà solo”.
Davide Banis
Lavora per una casa editrice danese. Nel tempo libero, scrive.
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