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La vita come una sitcom?

Una panoramica tra le sitcom che hanno segnato gli anni Zero, e posto le basi delle risate americane contemporanee. Tra conservazione e rinnovamento.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 8 - Che fare? La tv dopo la crisi del 01 ottobre 2009

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Se Michael Seaver di Genitori in Blue Jeans avesse chiesto al padre un consiglio sulle ragazze – quando il grigio non esisteva, e Reagan aveva ragione – quest’ultimo, molto probabilmente, lo avrebbe fatto sedere nella cucina, dopo aver chiesto alla moglie di lasciarli soli, e avrebbe spiegato al giovane, tra commossi applausi pre-registrati, tutto ciò che il pubblico del prime time della ABC dei primi anni Ottanta sapeva sul sesso. I predicozzi e gli applausi sono durati oltre 10 anni, creando una delle sitcom più seguite nella storia della televisione, cosa che permette al protagonista Kirk Cameron di avere ancora oggi una soddisfacente carriera come protagonista di film evangelici ortodossi sulla fine del mondo in Dvd. Negli anni Novanta è cominciato un ammorbidimento, specialmente nei riguardi del sesso. Ci sono stati Friends e Will & Grace, in cui promiscuità e tematiche gay sono state sdoganate. E oggi, in un Paese diffidente e scettico dopo otto anni di presidenza Bush, con il carico di scandali che hanno minato la fiducia verso il governo e le istituzioni, quello che appare sugli schermi americani è un completo stravolgimento di tutti i meccanismi narrativi classici che hanno accompagnato la produzione delle sitcom nella loro lunga e vituperata storia.

I confortanti modelli familiari, tramite cui promuovere valori e realizzare infinite battute sulle inevitabili differenze generazionali fra genitori e figli o sulle incomprensioni fra moglie e marito, sono sostituiti dall’angosciante esaltazione del peloso quotidiano vissuto dal telespettatore a casa. La normale routine non è confezionata come un imbellito susseguirsi di piccoli problemi o di errori risolvibili tramite il pentimento, o con lunghe conversazioni sull’uscio di casa, ma svelando la soffocante e anti-meritocratica normalità con cui realmente ci scontriamo al lavoro, o al bar sotto casa. Dalla rassicurante mediocrità, al mediocre come imperante stile di vita a cui è impossibile sfuggire.

I confortanti modelli familiari, tramite cui promuovere valori e realizzare infinite battute sulle inevitabili differenze fra genitori e figli o sulle incomprensioni fra moglie e marito, sono sostituiti dall’angosciante esaltazione del peloso quotidiano del telespettatore a casa. Dalla rassicurante mediocrità, al mediocre come imperante stile di vita a cui è impossibile sfuggire.

Il lavoro è la tua prigione

Questa tendenza ha trovato uno sfogo con il proliferare delle workplace comedy. Michael di The Office, a differenza del teenager con i “blue jeans”, non chiederebbe a nessuno consigli su come affascinare una donna. Questo perché il protagonista, Steve Carell, non solo non è un quarantenne vergine, ma – rappresentando il capoufficio medio – non ne sente il bisogno. Michael Scott è al comando di una piccola sede locale della Dunder Miffin, azienda che produce i supporti su cui si basa l’ecosistema produttivo americano: la carta. Michael non è per nulla preoccupato dal vendere, in pratica, fogli bianchi. Dirige il suo ufficio con la medesima sicurezza e convinzione di un amministratore delegato impegnato a tenere a galla il titolo azionario della propria multinazionale. Non solo, è profondamente certo di essere incredibilmente divertente. Tanto da sentirsi in obbligo di rallegrare e intrattenere i dipendenti impegnati nel lavoro, che ovviamente non condividono l’iperattività del loro capo. L’unico che sembra comprenderlo è Dwight Schrute, goffo nerd con un’inquietante passione per la vita militare, le armi bianche e l’autoritarismo. Dwight è entusiasta della sua occupazione come venditore di carta, ed è ancora più felice di assecondare tutte le richieste che il suo superiore promuove. Michael fa battute di cattivo gusto verso l’impiegato gay o quello nero, approccia in modo inappropriato le sue sottoposte e sembra non lavorare mai. È troppo compiaciuto, estasiato dalla sua stessa esistenza, come un Mostro di Dino Risi. Ma la facciata che Michael mostra, quella perenne sicurezza incisa sulla tazza visibile durante la sigla, The World’s Greatest Boss, crolla non appena lo vediamo in difficoltà con i superiori, con chi non lavora con lui o con qualche donna che non lo conosce. Il manierismo che mostra fra i cubicoli dell’ufficio fallisce pateticamente al contatto con la realtà esterna, e se gli autori non ci permettono di ridere con lui, ma solo di lui, ci lasciano ampio spazio per provare pietà. Il mostro è umano.

 

Diverso invece è l’approccio di Parks and Recreation, nonostante la serie sia praticamente uno spin-off di The Office, avendo in comune diversi autori e la premessa di avere una telecamera in grado di interagire con gli attori. La protagonista Leslie Knope è una dipendente pubblica di basso profilo che inizialmente ha come solo incarico il vagliare le lamentele dei cittadini residenti nella sua circoscrizione. In uno di questi incontri una ragazza si alza e protesta per l’enorme buco, praticamente una cava a cielo aperto, posto in prossimità della casa in cui vive. Il marito è precipitato dentro, rompendosi entrambe le gambe, e lei pretende che qualcosa venga fatto. Leslie decide di cogliere questa occasione per fare carriera, seguendo le orme della sua eroina, Hillary Clinton. Crede che questo sarà il primo passo per arrivare alla Casa Bianca, semplicemente tramite le sue buone azioni d’impiegata statale. Come Michael è un’imitazione vivente mal riuscita di un modello più alto, quello del superefficiente, produttivo e patriottico impiegato degli anni Ottanta, ma questa volta la sua ingenua incapacità non si riversa nell’inconscia vessazione dei suoi colleghi. L’idealismo di Leslie si scontra con la realtà della burocrazia governativa. I colleghi svogliati e demotivati, i superiori contrari a spendere i soldi pubblici per principio, i raccomandati – come lei stessa del resto, arrivata lì grazie alla madre consigliere. Riempire un buco con della terra si rivela così un’impresa epica e impossibile.

 

Lo stesso problema viene richiamato anche in serie che propongono situazioni lavorative meno working class. In Party Down, di Rob Thomas, già autore di Veronica Mars, cinque creativi senza speranza e in cerca di fama – attori, musicisti e scrittori – provano a sopravvivere a Hollywood, provando a sfondare nel mondo dello spettacolo. Nel frattempo, però, i cinque formano una squadra dedita al catering e all’intrattenimento in ricevimenti e sessioni di team building aziendale. Anche qui la mancanza di soddisfazione personale e la malinconia di vivere giornalmente situazioni umilianti fanno esplodere gli scambi comici più brillanti.

 

Esattamente come in 30 Rock, dove seguiamo l’opaca esistenza di Liz Lemon, head writer di una sketch comedy chiaramente ispirata al Saturday Night Live, guidato in passato proprio da Tina Fey, autrice e protagonista della serie. La creatività di Lemon, le sue idee e quelle del suo team, vengono di volta in volta represse da Jack Donaghy, dirigente freddo e autoritario promosso alla guida della NBC per aver fatto vendere qualche microonde in più alla General Electric, l’azienda cui il network appartiene. Donaghy è un repubblicano sopra le righe, macchietta del pragmatico uomo di destra pro-Bush, mentre il personaggio di Tina Fey è una spettinata liberal che ha problemi a relazionarsi con gli uomini, e non riesce a farsi rispettare nemmeno dai suoi autori. Il potente dirigente televisivo interpretato da Alec Baldwin è la nemesi di Lemon. Quando la incontra in ascensore, nel pilota della serie, si espone nel suo classico stile passivo-aggressivo. “Liz, tu mi piaci”, ammette quando rimangono soli in ascensore. “Hai il coraggio di una donna molto più giovane di te”. È palese per chi dobbiamo provare simpatia, ma Donaghy non è rappresentato come malvagio. Il suo ruolo è inevitabile nell’ecosistema lavorativo televisivo. Se non ci fosse lui, qualcun altro si comporterebbe nello stesso modo. Vediamo così, in quasi tutte le puntate, Liz che tenta di risolvere dei problemi e prova a migliorare qualcosa nella sua vita, fallisce in modo spettacolare, per poi trovare una soluzione accettabile solo seguendo una proposta di Jack che aveva inizialmente stigmatizzato. È un mondo per e governato da Donaghy, e non c’è alcun modo per sfuggire a tale realtà. La cattiveria che vediamo riversarsi su Lemon, e spesso sugli altri protagonisti di queste nuove sitcom, ci esalta e diverte, invece di deprimerci. Il contrasto è messo in evidenza durante un’accesa discussione fra i due protagonisti sull’opportunità o meno di inserire in uno sketch un forno elettrico, così da compiacere la General Electric. Lemon si oppone, aggrappandosi alla coerenza della sua “arte”, alla passione che mette nel lavoro. Ma Dounaghy le risponde candidamente che “tutta la tua passione serve a riempire lo spazio fra una pubblicità di un dentifricio e quella di un assorbente”. Perché non c’è nulla di divertente nelle commedie che fanno ridere.

Il deadpan vs. il batacchio

Ridere delle sfortune altrui è sempre stato alla base della commedia. Quando vediamo qualcuno cadere da una sedia, il primo istinto non è quello di aiutare la persona, ma di ridere di lei. La risata ci permette di rilassarci, di allontanare la tensione, per piccola che sia, che si era creata. Questa osservazione è sempre stata utilizzata per fini comici, fin dalle messinscene della Commedia dell’Arte, in cui gli attori si colpivano a vicenda con un batacchio, strumento che permette di simulare delle percosse dolorose. Più recentemente, i comici della prima era cinematografica e televisiva – gente come Charlie Chaplin, Stanlio & Olio, i fratelli Marx (e poi il più recente Mr. Bean) – hanno ripreso questi elementi per la commedia slapstick. Uno stile che ha sempre dominato la commedia popolare, arrivato insidiosamente in tv attraverso le sitcom. Le torte, i pianoforti o le incudini che precipitavano in testa sono stati semplicemente sostituiti da plot e situazioni surreali, come la scimmietta di Ross di Friends o il protagonista nerd di Otto sotto un tetto. A cui, dopo ogni entrata in scena, corrispondeva sempre un crollo o un disastro immane, solo per poter pronunciare il suo tormentone “Sono stato io a fare questo?”.

 

In risposta alle risate di pancia, altri comici preferiscono recitare battute, sketch e gag senza lasciar trapelare alcuna attenzione umoristica. Utilizzando una strisciante e insidiosa cattiveria, una gioiosa anti-socialità che permette di far ridere rimanendo perfettamente seri. Questo stile, identificato come deadpan, lanciato da Buster Keaton, per essere poi perfezionato dai Monty Python negli anni Sessanta e infine dai comici standup degli Ottanta e Novanta, è il motore trainante delle sitcom più riuscite di oggi. Proprio dalle battute standup, dai monologhi recitati da gente come Lenny Bruce e David Letterman, molte serie odierne prendono spunto per costruire il loro successo. Non vediamo più solo gag visive, ma un manierismo da palcoscenico. Ci sono un setup, la premessa per cui si racconta la storia, e una punchline, tramite cui il finale che ci aspettavamo viene stravolto. Non è strano che gran parte delle nuove sitcom abbiano nelle loro fila molti comici standup, in grado di improvvisare dentro questi schemi.

 

La serie Ti presento i miei (Arrested Development) è un riuscitissimo esempio deadpan. Seguiamo la famiglia Bluth mentre cerca di sopravvivere al fisco, a se stessa e alle nevrosi interne dei componenti familiari. Il tutto ci viene raccontato con steadycam e riprese mai ferme, mentre foto e video di vecchi avvenimenti imbarazzanti nella vita dei protagonisti sono punteggiati dalla costante narrazione di Ron Howard, produttore della serie. Questo simil-realismo lo troviamo in Curb your Enthusiasm, in cui la finta/vera vita del multi-milionario Larry David, ex-autore arricchito dallo straordinario successo di Seinfeld (una serie che raccontava proprio la finta/vera vita di un vero comico standup come Jerry Seinfeld), viene messa in scena utilizzando la classica auto-ironia svilente della scuola umoristica yiddish. Larry David esiste veramente, e le persone che incontra, registi e attori di Hollywood, sono davvero suoi amici. La serie non ha neanche uno script definito, solo un canovaccio su cui gli attori devono muoversi improvvisando. Quindi dove finisce il vero, e inizia il falso?

In risposta alle risate di pancia, altri comici preferiscono recitare battute, sketch e gag senza lasciar trapelare alcuna attenzione umoristica. Utilizzando una strisciante e insidiosa cattiveria, una gioiosa anti-socialità che permette di far ridere rimanendo perfettamente seri. Questo stile è il motore trainante delle sitcom più riuscite di oggi.

La finzione del vero

Dopo l’esplosione dei reality sulle tv americane ed europee, molti previdero la scomparsa delle sitcom. Il pubblico, sostenevano, avrebbe preferito alla rappresentazione fittizia del quotidiano la più appagante e immediata realtà, con cui avrebbe potuto pure identificarsi meglio. E mentre molte sitcom classiche sono effettivamente evaporate, le nuove serie tv comiche hanno risposto a questo problema creando un nuovo stile visivo e narrativo. Questo ha portato a utilizzare cifre documentaristiche in modo non dissimile dal filone cinematografico del mockumentary. Storie false sono raccontate in maniera indistinguibile dai normali documentari, usando il contrasto tra la serietà cui spesso è associato il genere e la grottesca e disfunzionale vita dei soggetti ripresi per ottenere il risultato comico finale. In The Office e Parks and Recreations i personaggi non solo sono implicitamente i protagonisti di un documentario impegnato a raccontare la loro situazione lavorativa (e affettiva), ma le stesse storie e le relazioni fra loro mutano per l’imbarazzo provocato dalle telecamere presenti, e da ciò che gli spettatori potrebbero pensare di loro. Spesso situazioni fastidiose diventano estremamente spiacevoli quando uno degli impiegati nota la presenza della telecamera fissa su di lui, arrivando anche, a volte, a scappare dalla macchina da presa. In altre l’obiettivo viene sfruttato ammiccando allo spettatore, per renderlo partecipe di una battuta o uno scherzo fatto alle spalle di qualche collega ignaro di quello che gli sta per accadere. Inoltre, durante tutte le puntate, le interviste ai protagonisti permettono al pubblico di capire quello che provano i personaggi, che si sfogano contro i loro colleghi, e spiegano le loro reazioni rispetto al vissuto all’interno della serie, col medesimo manierismo e stile di ciò che vediamo nei riassunti giornalieri dei più classici reality show.

 

Canali via cavo come HBO, Showtime e FX, conosciuti per le serie drammatiche, hanno invece cominciato la produzione di sitcom rivolgendosi a un target più elevato e sfuggendo alle costrizioni cui sono sottoposti i network terrestri (niente nudità, niente parolacce). Abbiamo così serie come C’è sempre il sole a Philadelphia di FX, dove i tre protagonisti (cui nella seconda stagione si aggiunge Danny De Vito) sono semplicemente degli slacker, disadattati che gestiscono un pub. Il locale, in realtà, è solo un pretesto per tenerli uniti. Il loro scopo principale sembra quello di farsi scherzi a vicenda o fare dei soldi facili sfruttando l’ingenuità altrui, e utilizzando argomenti impraticabili sui network. La serie infatti è famosa, oltre che per aver avuto un pilota costato 85$, anche per quello che i suoi protagonisti fanno e compiono. Come drogarsi, prostituirsi, rubare, picchiare, estorcere, torturare, bruciare case e lavorare per la mafia. È questo il futuro del genere? Compensare anni di bigottismo con una feroce virata libertina?

 

Il meccanismo delle classiche sitcom degli ultimi 30 anni, ma anche di serie ancora in onda, come La vita secondo Jim, è stato brillantemente preso in giro in La mia vita come una sitcom (in originale My Life in Four Cameras, tecnicamente più esplicativo), celebre episodio di Scrubs in cui il protagonista J.D. ha in cura un autore televisivo di sitcom. La serie cambia completamente con le telecamere fisse, le luci “smarmellate” (come direbbe il direttore della fotografia di Boris) e le risate finte in sottofondo. Gli abiti di infermiere e dottoresse diventano più corti, mettendo in mostra forzate scollature, mentre gli uomini si ritrovano indosso vestiti dagli impossibili colori accesi. Ogni volta che uno degli attori principali entra in scena, nelle uniche due location esistenti, il pubblico esulta. A fine puntata, però, la patina svanisce improvvisamente. Siamo catapultati di nuovo nello Scrubs classico, un luogo ora quasi completamente oscurato dalla luce – ancor di più, dopo il confronto con la precedente realtà. L’autore di sitcom ha avuto un attacco improvviso e, dopo una breve lotta, muore portando con sé il suo stile di vita e i suoi cliché. La voce narrante di J.D, prima di sfumare a nero, ci ricorda malinconicamente che quello che funziona nelle sitcom non accade nella realtà. E viceversa.


Matteo Lenardon

È un autore televisivo (The Voice, Sorci verdi, Top Gear). Ha scritto per Vice, L’Uomo Vogue, Rolling Stone, Wired e Studio.

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