Sono passati 25 anni dal primo episodio di Friends. Una sitcom eccezionale, da più punti di vista. Con una storia di successo che può insegnare tante cose sulla televisione, di allora e di oggi.
Come passa il tempo, quando ci si diverte. E così all’improvviso ci accorgiamo che sono trascorsi già venticinque anni – venticinque! – dall’esordio statunitense di Friends, andato in onda con la sua prima puntata (quella in cui Rachel abbandona Barry sull’altare e decide di riallacciare i rapporti con la vecchia amica Monica per cominciare una nuova vita) il 22 settembre 1994, su Nbc. In Italia, a dire il vero, la ricorrenza andrebbe celebrata circa tre anni dopo, contando a partire dal 23 giugno 1997, quando le prime puntate sono approdate su Raitre, incontrando il pubblico nazionale in quei tempi ormai lontani in cui ancora non soffrivamo dell’ansia per una sincronizzazione quasi totale al resto del mondo (leggi: gli Stati Uniti) e per la release di tutto-e-subito. Del resto, in un’epoca come la nostra che sempre più sostituisce le notizie con gli anniversari, abbiamo da poco finito doverosamente di onorare i quindici anni – quindici! – passati dall’ultima puntata originale, sempre su Nbc, il 6 maggio 2004 (in questo caso, con minore distanza per il pubblico italiano, che l’ha vista il 4 luglio 2005). Tutte queste date sono degne di nota. Tutti questi momenti hanno generato commenti, discorsi, dichiarazioni, richieste di reboot. Tanto è stato detto, tanto è stato scritto. E tanto è stato visto e rivisto, che sia per guardare di nuovo quell’episodio in cui succede qualcosa (seguendo l’invito dei titoli americani delle puntate, “The One with…”) o per ripristinare un ordine filologico, cominciando finalmente quella serie dall’inizio (e stupirsi di una prima stagione così scollegata dal resto, e non solo per i buffi tagli di capelli).
E allora proviamo ad accoglierla davvero, la sfida di Friends. La serie scritta da Marta Kauffman e David Crane è eccezionale, e come tale va trattata. Non è però eccezionale nel senso che diamo di solito alla parola, a intendere una serie eccezionalmente bella, eccezionalmente valida. Sono passati venticinque anni, e possiamo ammettere con una certa tranquillità che sono altre le sitcom che hanno lasciato il segno nell’evoluzione del genere, che hanno portato innovazioni nel racconto o nei modelli di comicità. Di più, che hanno occupato un posto speciale tra le nostre preferenze in termini assoluti, che ci hanno colpito là dove non ce lo aspettavamo. In queste graduatorie, le storie di Monica e Chandler, Rachel e Ross, Phoebe e Joey occupano posizioni sicure e stanno piuttosto in alto, certo, ma non riescono ad arrivare alla vetta (cosa la occupi, poi, è questione di gusti, e di quantità di visioni).
Friends è eccezionale perché costituisce un’eccezione, uno scarto alla regola. E lo fa almeno su due versanti. È una sitcom che è stata capace di circolare in tutto il mondo, di diventare un compiuto fenomeno globale: per un genere come la situation comedy, fortemente radicato nel contesto statunitense di origine (per battute, situazioni, riferimenti all’attualità) e spesso difficile da adattare e tradurre in altre lingue (già nei sottotitoli, figuriamoci nel doppiaggio), si tratta di un risultato molto raro, toccato prima solo a una manciata di titoli, come Happy Days o I Robinson. Ed è una sitcom che si è rivelata capace di durare nel tempo, di resistere a uno scenario mediale – e sociale – che intanto è radicalmente mutato: una caratteristica già più diffusa all’interno del genere (scanalando tra le reti cable americane ci si imbatte facilmente ancora in I Love Lucy, capostipite della sitcom americana, in onda negli anni Cinquanta), ma che in Friends è particolarmente potente. Il tempo non pare scalfirla.
Per anni ci siamo arrovellati, e ci arrovelliamo tuttora, per capire la formula di una sitcom fatta così (e in tanti hanno cercato, finora inutilmente, di riprodurla), per studiare le ragioni di un’eccezionalità insieme globale e duratura. Ma può essere utile invertire il punto di vista, e farci spiegare da Friends qualcosa del mezzo che l’ha ospitata, la ospita tuttora. Mentre tentiamo con vario successo di spiegare la popolarità della sitcom, Friends ci racconta alcuni caratteri cruciali della tv, la sua evoluzione in tre decenni. Perché, anche al di là di progetti, intenzioni e aspettative, questa sitcom si è rivelata fortemente adeguata a uno scenario tv che mutava, e che sarebbe mutato in misura più profonda nei decenni seguenti: a sorpresa, Friends è stata perfetta.
1. Il valore (del) medio
Friends non è eccezionalmente bella o eccezionalmente valida, dicevamo. La sua potenza non sta nella perfezione, ma nella capacità di adattarsi – e di rivelarsi adatta, anche dopo – alle leggi profonde (spesso non scritte) del mezzo televisivo. Tutti diciamo di volere la quality, e a volte è proprio quello che ci serve. Ma più spesso poi cerchiamo qualcosa di semplice, leggero, immediato. Qualcosa di medio. Nell’accezione più positiva del termine, senza guardarlo dall’alto in basso, anzi: è l’equilibrio più difficile da raggiungere, per tenere assieme le volontà di tanti. Decenni fa nella tv americana si parlava di least objectionable programming, di contenuti che creano meno obiezioni possibili, privi di barriere all’ingresso, che non escludono nessuno: ora, in tempi di peak tv, sembra una parolaccia, ma sotto sotto è quello che serve davvero. Le ragioni della popolarità di Friends, quella immediata e quella che perdura, vanno così cercate nella capacità di entrare in punta di piedi nel quotidiano di un pubblico che si immedesima (è relatable), nei toni morbidi e graduali di narrazione e comicità, nell’approccio privo di asperità e complessità di superficie (a nascondere, talvolta, asperità e complessità più profonde).
È diversa da Seinfeld, capolavoro assoluto (ma infinitamente meno popolare al di fuori dei confini Usa, e ahinoi più segnata dal tempo che passa), da cui pure Friends ricalca molti spunti per renderli più popolari, e appunto più medi. La vita messa in scena nella sitcom non è un assurdo intrico di dettagli imbarazzanti e meschinità grandi e piccole, ma lo sfondo su cui si innestano le relazioni affettive e le dinamiche di coppia, con protagonisti impegnati in una personale e collettiva “ricerca della felicità”, nel lavoro come negli affetti, sicuri di poter contare sul sostegno affiatato di un gruppo di amici. Alla sgradevolezza rivendicata e all’incapacità di imparare alcunché si sostituisce una comicità “positiva”, per tutti, e la forte tendenza allo sviluppo di linee narrative orizzontali, dove alla risata si sostituisce un più docile, e generalizzato, sorriso.
La medietà (che non è mediocrità, sia molto chiaro) sta in uno stile di vita occidentale che è condiviso, imitato e voluto da tutti. In un’American way of life ideale, schematizzata, semplificata, che rifugge dalle sfide dell’attualità e delle specificità della cultura mediale statunitense. In una città che è New York, certo, ma che a differenza di molte sitcom ambientate lì è sfondo più che personaggio, poster di fronte al quale ci si muove più che spazio percorribile e compiutamente percorso da chi ci abita. In una visione che abbraccia il multicamera e le location artificiali e rifugge dall’ansia di scoprirsi autori, di rivendicare firme, e per questo smussa, include, non allontana. Punto di riferimento è la tanto bistrattata Happy Days, citata già nel pilota a stabilire insieme un’ideale continuità e frattura tra il matrimonio di Joanie e Chachi che conclude la serie classica e la rottura da parte di Rachel di quanto da lei ci si attendeva, proprio mentre trova un approdo sicuro non nella famiglia ma tra gli amici.
Friends è eccezionale perché costituisce un’eccezione, uno scarto alla regola. E lo fa su due versanti. È una sitcom che è stata capace di circolare in tutto il mondo, di diventare un fenomeno globale. E si è rivelata capace di durare nel tempo, di resistere a uno scenario mediale e sociale che intanto è mutato.
2. La semplicità stratificata
Friends è media, certo, ma questo non vuol dire che sia semplice. La facilità è l’effetto, il risultato di un lungo e attento processo. In televisione la migliore creatività è quella che si fa trasparente, che appare neutra, che non lascia tracce del suo operare. Come ha scritto di recente Wesley Morris sul New York Times, “Friends è una tv facile al più alto livello. Tante battute, tanta comicità fisica, tante sorprese ed emozioni e strilli di felicità del pubblico in studio”. Gli ingredienti sono tanti, ben amalgamati. In una semplicità apparente che si ottiene attraverso un attento dosaggio.
Pensiamo alla comicità di Friends, che sembra immediata e facile (ottimo!), ma a ben guardare è ottenuta tramite un efficacissimo gioco di relazione tra i personaggi, fondato sull’abilità di sei attori tutti davvero protagonisti, sempre pronti a scambiarsi il ruolo di lead e spalla. Ognuno degli amici newyorkesi ha una distinta voce comica prevalente, come spiegano Simone Knox e Kai Schwind in un testo accademico di prossima uscita: ci sono il sarcasmo e l’ironia volutamente fiacca ma per questo dolce di Chandler, la ruvidità di Rachel, la satira spesso affidata a Monica, il classico fool pieno però di empatia incarnato da Joey, la stranezza di Phoebe, mentre a Ross è contro-intuitivamente affidata la dimensione slapstick, fatta di inciampi, cadute, varia incapacità. Friends è quasi un manuale di scrittura comica, un campionario dei meccanismi di funzionamento dello humour. Dalla molteplicità di ingredienti ben orchestrati si raggiunge un equilibrio, senza vette e sprofondi, ma molto sfaccettato.
C’è qualcosa per tutti. Lo stesso vale per il pubblico di riferimento, anch’esso multistrand. C’è qualcosa per gli adolescenti e i giovani di allora: i personaggi sono trentenni che trovano una via di fuga dalle responsabilità della vita nella chiacchiera e nel racconto delle emozioni davanti a una tazza di caffè, e questo ha reso la sitcom una bandiera per una generazione X senza grossi ideali, svagata e irresponsabile ma concreta se occorre, raccontandone difficoltà, frustrazioni, desideri e interessi. Ma, e sulla lunga distanza è più chiaro, c’è anche la capacità di seguire la crescita di questi personaggi, offrendo un punto di vista su più età e fasi di vita. La sitcom “cresce” con i sei, racconta lo stabilizzarsi delle vite lavorative e personali, i fidanzamenti, matrimoni, tradimenti, divorzi, maternità, paternità, nuovi impieghi, lutti e traslochi. Ancora una volta, insomma, la trasversalità e l’interesse generalizzato sono la somma di tante piccole attenzioni specifiche.
Gli ingredienti sono tanti, ben amalgamati. In una semplicità apparente che si ottiene attraverso un attento dosaggio. Friends è quasi un manuale di scrittura comica, un campionario dei meccanismi di funzionamento dello humour. Dalla molteplicità di ingredienti ben orchestrati si raggiunge un equilibrio, senza vette e sprofondi, ma molto sfaccettato. C’è qualcosa per tutti.
3. Non c’è testo senza contesto, ma…
Vedere Friends alle soglie del venticinquennale ci permette poi di ribadire che in tv, per quanto autori, sceneggiatori e creativi vari si sforzino di farlo, è difficile rifuggire dal contesto che circonda il singolo prodotto: lo si può isolare, mettere in primo piano, separare dal flusso del palinsesto o delle scelte di visione, considerarlo un testo autonomo e indipendente, ma la realtà è che finisce in ogni caso dentro a specifici contesti di distribuzione, percorsi di circolazione, pratiche di fruizione. La serie è una parte, per quanto importante, di un tutto più ampio, dove contano i giudizi e pregiudizi, i titoli che precedono e seguono (con l’etichetta di must-see tv allora in vigore per il giovedì sera di Nbc), le pubblicità, l’attualità a cui si fa riferimento direttamente e quella (mutata) dove si colloca l’ennesima visione. La sitcom come genere stabilisce un dialogo forte con la realtà, fa battute su quanto accade fuori, affronta temi al centro del dibattito pubblico. È ritenuta troppo progressista dai conservatori (Mette in scena le nuove famiglie! Nessuno pensa ai bambini?) e troppo conservatrice dai progressisti (Si ride di invece di ridere con! Ci sono stereotipi! Non si fa abbastanza per [inserire aggregato sociale qui]!). Friends ha cercato di tenere il mondo in secondo piano, letteralmente sullo sfondo (nell’episodio andato in onda dopo l’11 settembre, affida il suo omaggio solo a una scritta sulla lavagnetta attaccata alla porta). Ha cercato di smussare l’attualità sociale e politica, di limitarsi a citazioni di una popular culture già classica, e questo l’ha aiutata a circolare di più non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo. Ma non è bastato.
Già allora in realtà prendeva posizione, sia pure di lato, sotto un apparente ecumenismo. Il matrimonio omosessuale dell’ex moglie di Ross, Carol, con la compagna Susan, nella seconda stagione, era già una mossa politica, rafforzata dal fatto che a officiare la cerimonia fosse la sorella attivista dell’allora speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti, Newt Gingrich. Spesso non c’è rivendicazione esplicita, ma si affrontano grandi temi, soprattutto sociali, in astratto e in pratica, affidando alla naturalezza e a qualche inevitabile concessione al senso comune del tempo, un ingresso in punta di piedi nei dibattiti rilevanti, rivolgendosi a tutti senza spaventare, senza allontanarsi dall’equilibrio. Poi i tempi cambiano, i contesti anche, ed ecco allora il fiorire negli ultimi anni di think pieces che rileggono una sitcom degli anni Novanta alla luce della sensibilità contemporanea, accusandola di offese di ogni genere: troppo bianca, poco rispettosa dei personaggi omosessuali o transgender, pronta a scherzare sull’obesità o sulla salute mentale, per nulla attenta a questioni di razza ed etnia. Ma è una visione troppo piatta, una contabilità deprimente. Si confondono le posizioni dei personaggi e quelle della serie nel suo insieme, si scordano le regole dei network, si sottovaluta la funzione catartica di un’ironia che mentre si prende gioco dei pregiudizi ne racconta anche le ragioni profonde. Paradossalmente, è la ricerca di sfuggire quasi sempre dall’attualità di allora, concentrandosi sulle differenze sociali e sui rapporti uomo-donna, a renderla un bersaglio per l’attualità di oggi. Ma questo non fa altro che ribadirne ancora l’importanza, la capacità di incidere e far discutere. Come ha scritto Emily Nussbaum, in una parentesi mentre parla d’altro sul New Yorker, “uno tra gli effetti collaterali più perversi di Netlix è vedere la generazione Z che discute con trasporto delle politiche sessuali di Friends”. Wesley Morris ricorda: “Friends è una fantasia”. L’astoricità profonda le ha garantito, da un lato, un successo ampio e durato decenni; l’inevitabile radicamento in uno spirito del tempo, dall’altro, continua a offrire infinite occasioni di dibattito.
4. La forza della ripetizione
Anche allontanandoci dal testo, le lezioni dateci da Friends si confermano importanti. La sitcom, si è detto, è media, apparentemente semplice, scollegata dalla realtà immediata (che rientra dalla finestra), anche perché programmaticamente propone uno stile di vita americano, ma smussato e semplificato per essere globale. E alla globalizzazione del racconto televisivo, negli anni dell’espansione internazionale di Mtv e dello stabilirsi del mercato dei format, si intreccia la globalizzazione di reti, offerte, piattaforme. Mentre tutto intorno cambia, ai programmi tv chiediamo conferme. E allora la sitcom, e questa sitcom in particolare, ci ricorda che di solito sopravvalutiamo anche la novità, mentre siamo alla ricerca di una rassicurazione dataci dal ritrovare non solo gli stessi personaggi alle prese con situazioni sempre diverse, ma anche gli stessi episodi, da mandare a memoria. Di Friends non ci stanchiamo, insomma.
Basta un’occhiata veloce alla storia italiana della serie per capire quanto la ripetizione sia un dispositivo potente del linguaggio televisivo, alla base di quell’efficacia del piccolo schermo che perdura anche nel salto dall’analogico al digitale. Le prime quattro stagioni sono andate in onda, tra l’estate del 1997 e la primavera del 1999, nell’access di Raitre. La crescita è costante, ma si registra pure lo strano fenomeno, comune alle sitcom eccezionali, dell’aumento degli ascolti anche quando le nuove puntate erano sostituite da repliche di stagioni precedenti. Le annate dopo passano su Raidue, prima in fascia oraria simile e poi sperimentando preserale e seconda serata, con due episodi a settimana. La forza del prodotto consente strategie precluse ad altre sitcom, e ancora repliche, repliche, repliche. Solo l’ultima stagione, nell’estate 2005 (dopo l’esperimento con le ultime tre puntate della nona, il 21 dicembre 2003), giunge al prime time di Raidue, il lunedì sera. Chi la dura la vince. Passo dopo passo, si costruisce una familiarità. E la familiarità, che non si fa troppi problemi per le iterazioni e sovrapposizioni, le confusioni e i cambi di programma, impatta anche sul percorso successivo della serie: mentre alcune stagioni erano ancora su Raidue, le prime stagioni di library passano su Italia 1; e poi ci sono il satellite, con Fox e ora Comedy Central, e il digitale terrestre, con Mediaset Premium. E poi c’è Netflix. Si va per addizione, ovviamente partendo da una buona base. Quello che piace non affatica, a quello che piace si ritorna sempre.
5. Il paradosso generalista e non lineare
E proprio il passaggio su Netflix, l’ultimo step (per ora) di un lungo percorso, ci dona un’ultima lezione. Spiegando, molto meglio dei proclami e dei discorsi promozionali, le difficoltà delle piattaforme, le tensioni opposte da bilanciare, i paradossi che stanno sotto l’apparente rivoluzione on demand. Da un lato, i servizi non lineari sono sempre più impegnati nella produzione di comedy originali, ma le stesse regole del non lineare (la release immediata, il binge watching) frustrano un compiuto funzionamento delle sitcom, impedendone l’inserimento graduale nelle routine del pubblico, sottovalutando l’importanza delle repliche, scollegandole dalla sincronizzazione sociale e dalla ri-visione collettiva, lasciando pochi giorni di tempo per l’incontro casuale con lo spettatore interessato prima che altri titoli ne occupino lo spazio tra le segnalazioni; e anche il modello che spesso impone la chiusura delle produzioni dopo sole tre stagioni riduce a poche puntate un genere capace di proseguire per anni. La disruption rovina la comedy originale. E allora, dall’altro, con l’acquisizione dei diritti di messa in onda, le sitcom realizzate altrove approdano su Netflix con decine di stagioni e centinaia di episodi. Più che la rottura, conta il riscatto della comfort television, di visioni distratte, poco impegnative, senza fatica. Gli streaming sono tanti, e il contenuto pur vecchio, pur già visto e disponibile altrove diventa prezioso. Si spiegano allora le grandi quantità di denaro sborsate da Netflix per prolungare anche solo di pochi mesi la disponibilità di Friends sulla piattaforma. Ma è paradossale che testi di così ampio successo per le piattaforme digitali provengano tutti da una lunga, fruttuosa storia precedente sui network. Altro che rivoluzione: le visioni degli spettatori e le regole del non lineare, insieme, danno un rilievo enorme ai vecchi network!
E allora Friends, incurante degli anni trascorsi e dell’assenza di nuovi episodi o di progetti di ripartenza (sempre negati, sostanzialmente impossibili), è ancora una volta al centro di scontri e battaglie. Per ora sta su Netflix e su manciate di canali. Senza esclusiva, in costante ripetizione. E già altre piattaforme (e i legittimi titolari dei diritti) stanno studiando ulteriori strategie di sfruttamento, e comunque alzando la posta (e il prezzo). Le storie dei sei amici ci riportano a tempi più semplici, ci accolgono la prima e poi tutte le volte successive, e insieme sono un asset di crescente complessità. Destinato a durare, ben oltre quei venticinque anni che già ci sembrano un traguardo considerevole, sostituendosi o affiancandosi alle nuove produzioni (tutti continuano a cercare la nuova Friends). “I’ll be there for you”, il verso della sigla dei The Rembrandts, certo ci rassicura ma, in loop continuo, comincia a sembrare una minaccia…
Luca Barra
Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.
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