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La possessione e il contagio nel fandom

Sempre più spesso i fan hanno un ruolo nel discorso che si sviluppa attorno e oltre alle serie tv. Ma è giusto così? C’è una linea sottile tra la passione e la patologia.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 8 - Che fare? La tv dopo la crisi del 01 ottobre 2009

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“Pretty soon, they’ll all be daywalkers, man”.
“When that happens, I’d rather be a pet than cattle”.
Blade II

Quasi ogni sito ufficiale dedicato a un prodotto permette ai visitatori di scaricare gratis foto e sfondi per desktop. La maggioranza però alza il tiro, offrendo icone per chat room, suonerie per cellulari, video da caricare su Facebook e simili. Regalini che si prestano a essere messi in circolo. Un wallpaper, per quanto curato, soddisfa lo scaricatore. Una chat icon grande come la punta di un pollice trasforma l’utente in testimonial vivente del prodotto. E, va da sé, in portatore sano di qualsiasi cosa ci sia dentro.

Il fan è l’organismo ospite, il prodotto è il parassita.

Il prodotto non può sopravvivere senza un corpo da usare come marionetta, che lo porti con sé a vedere un po’ di mondo. E magari gli procuri nuova carne a cui agganciarsi. E il fan, proprio per funzionare, deve essere patologico. Inocularsi una quantità di materiali ben superiore a quella del consumatore “regolare” o casuale: spendere tempo ed energia ogni giorno per restare collegato alla comunità, anche a scapito del resto; permettere a una serie di corpi estranei di diventare la spina dorsale della propria identità, costruendo filtri a partire dal dopo. Fa tutto parte del pacchetto.

È un contagio. Una mutazione spesso irreversibile – da persona a pod person, da volto nella folla a privilegiato posseduto – che comporta alcuni vantaggi: l’ingresso in una comunità di uguali, il piacere della condivisione quando non del confronto. Anche se, da fuori, può essere percepita come la rinuncia inspiegabile e cieca a una scintilla di personalità. D’altra parte, se non sviluppi alcuna caratteristica di rilievo, se la situazione si fa brutta tu sei inutile e muori subito. Una scelta devi pur farla.

L'anima della festa

Il mattino dopo ogni episodio di Gossip Girl, un piccolo ma combattivo numero di ragazze entra nelle boutique di Manhattan. Cosa cercano? I vestiti indossati dalle protagoniste la sera prima. Questo in una serie che non brilla per ascolti, e non sta facendo la storia del costume, a onta di un battage pubblicitario di rara invasività. Però il risultato lo porta a casa eccome: dà ossigeno a qualche marchio di moda, e allo stesso tempo aumenta le proprie possibilità di restare in vita tramite la vendita degli spazi pubblicitari. Se tu, capo d’abbigliamento, non sei abbastanza speciale per finire addosso a Blair o Serena, puoi sempre comprarti un frammento di quella visibilità. Un meccanismo simile determina, all’interno della serie, chi detta la linea in una cerchia di ragazzi privilegiati, le cui malefatte vengono documentate da una blogger invisibile (presente solo come vocina fuori campo) e irradiate a pioggia sulle teste di un mare di sconosciuti, da Madison Avenue alle strade di un paesetto dell’Oklahoma. Essere cool by association è meglio che non essere cool. Punto.

Il rapporto tra i fan e gli autori può muoversi sullo stesso tracciato. Se il BNF (big name fan) gode di un ovvio prestigio nella comunità, per la qualità del contenuto offerto (disegni, storie, video) o l’incisività con cui partecipa alla conversazione, lo status non lo mette per forza al riparo dalle critiche. E se aumenta il bisogno di un dialogo diretto con l’oggetto del desiderio, non tutti si rivelano capaci di gestirlo. Alcuni creatori di mondi televisivi interagiscono con i loro fan online (Joss Whedon, Josh Schwartz), mentre altri ci hanno provato ma non gli è andata troppo bene (Aaron Sorkin, che in un episodio di West Wing avrebbe adombrato i suoi battibecchi con i forumisti di Television without Pity, dipingendo “i fan” come un branco di obesi livorosi). Ormai, però, una soglia minima di socialità viene richiesta dal contratto. Vedi anche la crescente presenza delle stelle del momento alle convention, fino a non troppi anni fa dominio quasi esclusivo di ex famosi o mai famosi. Su piattaforme come Twitter o Facebook il fan presente solo in spirito può seguire gli eventi in tempo reale, commentando (e contribuendo a diffondere) il comportamento di questo o quello. Arma quanto mai a doppio taglio: nessuno verrà licenziato per aver prestato più attenzione alla fidanzata che al pubblico, ma non ci sono garanzie che il pubblico la prenda sportivamente. Badami. Parlami. Voglio fare razza con te.

Il fan, per funzionare, deve essere patologico. Inocularsi una quantità di materiali ben superiore a quella del consumatore “regolare” o casuale: spendere tempo ed energia ogni giorno per restare collegato alla comunità; permettere a una serie di corpi estranei di diventare la spina dorsale della propria identità, costruendo filtri a partire dal dopo. Fa tutto parte del pacchetto.

Sparare nel mucchio

I luoghi comuni danno molta soddisfazione quando sono veri. Si è parlato spesso della componente fisica nell’intensità con cui il fan osserva le regole della sua religione? Perfetto: un’alta percentuale dei “segreti” apparsi in forma anonima nella frequentatissima community di Livejournal Fandom Secrets (una variante ad hoc di PostSecret) ha a che fare con crucci sessuali irrisolti. Si va dalla proverbiale dichiarazione d’amore (“I’d hit that”) alla confessione di essersi masturbati prendendo spunto da materiale poco ortodosso. Eroi dei cartoni animati per bambini, oggetti inanimati, immagini violente, scene strappalacrime in una soap, e a volte le circostanze del cosa sono descritte con tale insistenza da dare l’impressione di assistere a uno scambio di ricette. Con due tasti dolenti collettivi: l’incesto (“Perché per me è ok quando si tratta di personaggi immaginari, però mi fa schifo nel mondo reale?”) e l’attrazione verso qualcosa o qualcuno che cozza violentemente con la propria identità extra-fandom.

Quando nel 2009 Watchmen è arrivato sul grande schermo, un forte numero di donne hanno rivelato le loro difficoltà a conciliare uno straccio di autostima e il desiderio provato per il personaggio del Comico, letto (non a torto) come un cattivo sadico e misogino. La stessa situazione, su scala ancora maggiore, si era creata per il Joker di The Dark Knight, con in più la vivace reazione da parte di chi, pur apprezzando il film, trovava imperdonabili le promesse di eterna devozione all’antagonista e ridicoli i fan che in cerca di una scappatoia lo umanizzavano oltre misura, attribuendogli un’infanzia dickensiana o un lutto mai elaborato. Più spesso che no, comunque, la community fa da buon trampolino per un confronto sui gender issues, con soluzioni che spaziano tra il gruppo di auto-aiuto (“Forse è il caso che ne parli con i tuoi genitori”) e la chiacchierata in cucina (“Sul serio, non ti preoccupare, puoi essere femminista e trovarlo/a scopabile lo stesso”). Ma anche la realtà più “sana”, con un moderatore attento e una selezione dei contenuti, non può imporre troppi filtri agli utenti quando scelgono di portare in campo il privato. E qui e là affiorano segreti davvero strazianti: “Il fandom mi ha mangiato la vita”, “Non riesco più a funzionare in un altro contesto sociale”, “Penso a lei tutto il giorno”, “Ho continuato a leggere non-con anche dopo essere stata violentata” (abbreviazione di non-consensual, sta a indicare i testi che girano intorno a un abuso sessuale). A volte qualcuno interviene. A volte l’argomento viene archiviato in fretta, sepolto da una risatina o dagli scambi di battute su un segreto più popolare. L’universo si auto-regola. L’universo si auto-alimenta.

Benzina, ti presento Fuoco

Supernatural (CW negli Usa, Raidue e Steel da noi) è sia un eccellente terreno di coltura per nuove idee “di genere”, sia la matrice di ogni comportamento psicotico conosciuto alla razza umana. Rinnovata per quattro stagioni, senza grandi scosse di audience (ma senza neanche bisogno di istigare i fedelissimi a vere o presunte campagne per “salvare lo show”), è opinione comune che la serie debba la sua fortuna all’alchimia tra i personaggi, soprattutto i protagonisti: due fratelli, Sam e Dean Winchester, cacciatori di mostri per eredità familiare. Senz’altro, rispetto alla media dei prodotti fanta-horror mirati a un pubblico di ragazzi, il loro rapporto è più sfaccettato, aperto di volta in volta a spacconate maschili o confidenze accorate. Una dinamica in cui la stragrande maggioranza del fandom vede sfumature poco fraterne. E non si tratta di una lettura aberrante. Basterà mostrare alcune scene a uno spettatore digiuno – tacendo la parentela – e la comunicazione tra gli eroi verrà inquadrata come quella di due amanti un po’ litigiosi. Cosa peraltro supportata da un probabile intento autoriale: in diversi episodi Sam e Dean sono stati scambiati per una coppia (e hanno retto il gioco), non sono mai mancate battute ambigue né momenti di pathos romantico, solo a tratti giustificati dal contesto. E fin qui, come si dice, la fiction.

Esiste una percentuale di fan convinti che la chimica tra i protagonisti si rispecchi in una relazione sentimentale fuori dal set. Esiste una percentuale equivalente di fan convinti che questa possibilità esista solo nelle menti bacate della controparte.

Certo, esiste anche una maggioranza a cui basterebbe guardarsi la serie, e che considera irrilevante l’argomento ai fini del fandom, anche se magari ha un’idea precisa sulla dinamica tra i personaggi. Ma si tratta di una maggioranza tranquilla, che di rado interviene alzando la voce. Ognuna delle due fazioni sa portare “prove” a sostegno della propria visione, e le punte polemiche avranno sempre la meglio. E quando i due attori, tanto per sputare benzina sul fuoco, sono andati a vivere insieme durante le riprese della quarta stagione, le fiamme hanno superato il confine del Canada. Alcuni esperti di gossip mainstream (e molto seguiti) hanno iniziato a condire i loro articoli di indizi e frecciatine che potevano portare alla magica coppia. Di cui, regolarmente, uno scalpita per uscire allo scoperto e l’altro lo convince – per paura o egoismo – ad aspettare ancora un po’. Avete appena assistito alla nascita di un secondo universo alternativo, che può essere seguito con altrettanta foga, attesa e soddisfazione. Ha regole e ritmi tutti suoi, obbedisce a una logica puramente interna. La meta-speculazione ha sorpassato a sinistra il già generoso piano di realtà della serie: nulla le vieta di sopravvivergli molti anni. Dando, tra l’altro, nuova linfa a un classico della RPF (Real Person Fiction): il momento in cui il personaggio pubblico capisce di essere anche il centro di un fandom, e inevitabilmente arriva a porsi qualche domanda sulle coordinate della propria vera esistenza. Di solito quelle sessuali.

Un gustoso episodio della quarta stagione, The Monster at the End of This Book, prende le mosse proprio da qui. Sam e Dean scoprono l’esistenza di una serie a fumetti che racconta le loro avventure. Per venire a capo del mistero, rintracciano l’autore: che prima li scambia per due estimatori impazziti, e poi pensa di essere diventato Dio, dato che le sue creazioni hanno preso vita. Ma incrociano anche il fandom online legato a questi fumetti. Ed ecco il dialogo tra i personaggi di fronte al computer.

Dean: “Oh, check this out. There’s actually fans. Not that many, but still. Did you read this?”.
Sam: “Yeah”.
Dean: “Although, for fans, they sure do complain a lot. Listen to this… Simpatico says, the demon story line is trite, clichéd, and overall crap-tastic. Yeah, well, screw you, Simpatico. We lived it”.
Sam: “Yeah. Well, keep on reading. It gets better”.
Dean: “There are Sam girls and Dean girls and… What’s a slash fan?”.
Sam: “As in… Sam/Dean. Together”.
Dean: “Like, together together?”.
Sam: “Yeah”.
Dean: “They do know we’re brothers, right?”.
Sam: “Doesn’t seem to matter”.
Dean: “Oh, come on. That… that’s just sick”.

L’episodio è stato accolto con benevolenza dal fandom: ognuna delle parti ha scelto come interpretare la scena, ma la strizzata d’occhio è piaciuta a tutti. E ha dimostrato che sceneggiatori e produttori non hanno la testa nella sabbia. Colgo l’occasione per ringraziare i miei fan, siete meravigliosi.

La parola d’ordine resta sempre una sola: drama. Non lo vuole nessuno. In teoria. Ma senza drama viene a mancare un termine di confronto negativo. Proprio perché l’ossessione e il controllo sono elementi essenziali di ogni teatrino, i cerchi nell’acqua generati da uno scatto individuale possono ripercuotersi sull’intera comunità.

E' tutto molto divertente finché qualcuno non si cava un occhio

Cercare un contatto non richiesto con una celebrità è considerato l’estremo oltraggio, e chi se ne macchia è punito con la congiura del silenzio e/o l’espulsione dalla comunità. Detto ciò, esiste una differenza tra, per dire, la fissata di The Boondock Saints che rintraccia l’indirizzo fisico del coprotagonista e gli si presenta sotto casa, e forme di comunicazione più ambigue, proprio perché “distanti” o “distaccate”, almeno sul piano formale.

Durante un incontro pubblico con il cast della versione cinematografica di Harry Potter, alcune fan hanno mostrato a James e Oliver Phelps – i due attori che interpretano Fred e George Weasley – una maglietta inneggiante al Weasleycest, cioè all’incesto tra i suddetti fratelli. Forse ne valeva la pena solo per consegnare ai posteri la smorfia “…eh?” dei poveretti, immortalata in una serie di scatti messi online. Lo stesso, in pochissimi hanno preso l’episodio come una goliardata. Il verdetto generale è stato: “Avete dato un cattivo nome al fandom”. Infastidire due attori molto giovani, sbattendo loro in faccia un’opinione basata su personaggi immaginari, ma in un certo senso tirando in ballo anche loro (dato che, come Fred e George, James e Oliver sono gemelli), è stato vissuto come un gravissimo superamento del limite. Tanto più bruciante quanto, nel caso specifico, ci è finita tangenzialmente coinvolta anche una creatrice di mondo che aveva sempre dimostrato riconoscenza verso gli ammiratori e tolleranza per lo user generated content, limitandosi a esprimere un parere negativo sulle storie a sfondo pornografico (ma anche questa “tregua” è poi degenerata: nel 2007 la Rowling ha fatto causa al creatore dell’enciclopedia online Harry Potter Lexicon, passato da alleato a nemico quando ha provato a pubblicare un sunto del sito in volume).

Non è una sorpresa se allora fioriscono le community dove i fan prendono in giro altri fan: quelli artisticamente poco dotati (Fanfic Rants), quelli accusati di maleducazione o scarsa lucidità (Fandom Wank). La parola d’ordine resta sempre una sola: drama. Non lo vuole nessuno. In teoria. Ma senza drama – termine-ombrello traducibile con “sceneggiata” – viene a mancare un termine di confronto negativo. Proprio perché l’ossessione e il controllo sono elementi essenziali di ogni teatrino, i cerchi nell’acqua generati da uno scatto individuale possono ripercuotersi sull’intera comunità.

Prendiamo la mania di Twilight. Sta contribuendo a ridefinire le barriere tra fan e oggetto: le apparizioni (promozionali e non) degli attori che hanno dato volto ai personaggi di Stephenie Meyer sono costellate da esempi di “cattivo comportamento”. Quando trovandosi davanti alla persona (Robert) loro urlano il nome del personaggio (Edward), si capirà perché i twihards vengano spesso derisi dagli altri, e perché tanto voluttuosamente. Non importa. Il precedente è stato stabilito. Nel caso del musical Repo! The Genetic Opera, la disponibilità di realizzatori e attori ha sostenuto la crescita di un fandom piuttosto pacifico, ma ha creato negli utenti la paura che il minimo screzio avrebbe compromesso il “migliore dei mondi possibili”. Rafforzando la credenza sotterranea che pochi ammettono: non è vero fandom finché qualcuno non va fuori di testa.

Contagio

Amanda Palmer, metà del progetto musicale The Dresden Dolls, ha usato il suo blog per pubblicizzare dischi e concerti. Ma anche per raccontare se stessa in maniera molto diretta. E, qualche mese fa, per confermare la sua relazione sentimentale con Neil Gaiman, già intuibile da un video su YouTube. La coppia sembra nata apposta per un fandom. Ne avevano già uno ciascuno, alimentato sia dal percorso lavorativo sia dall’atteggiamento generale (autentico o percepito) nei confronti della vita: restava solo da metterli insieme e fantasticare sui futuri nomi dei figli.

Vero, è possibile diventare fan di persone più reali rispetto a loro – come il mezzobusto di un tg, o un esponente dell’amministrazione Obama – ma entrano in gioco le stesse dinamiche. Osserva e riporta. Il Twitter di un famoso, anche se non può provare con sicurezza la propria identità, è destinato al successo immediato. (Il trucco: basta aggiornarlo abbastanza spesso). Non c’è troppa differenza rispetto ai giochi di ruolo in cui i partecipanti interpretano una persona in carne e ossa, tenendo d’occhio tabloid, portali e siti ufficiali per commentare le ultime notizie senza uscire dal personaggio. L’attrice che divorzia tra i comunicati stampa diventa vera né più né meno di un’eroina alla Jane Austen; Miley Cyrus è Hannah Montana. Di conseguenza, capita che il personaggio sia dipinto come un fan. Gli vengono attribuiti gusti nuovi, o esasperati quelli che già ha. Se ciò di cui io sono fan è a sua volta fan di qualcosa, noi due parliamo la stessa lingua. Tu mi coinvolgi, io ti controllo. Tu mi possiedi, io ti amo.

E qui scatta inevitabilmente la reductio a Mel. Là dove con Mel si intende la squinternata che perseguita i due musicisti protagonisti di Flight of the Conchords: lei però è l’unica fan del complesso, e la sua invadenza è tollerata quando non incoraggiata dal loro manager. Come dire: ognuno può essere contagiato da qualcosa. Se giochi bene le tue carte, puoi arrivare tu a contagiare qualcuno. A volte la scelta è tutta lì. E a volte non è una scelta.

Un ringraziamento speciale a Dafne Calgaro e Chiara Papaccio, la cui attenzione alle problematiche accennate qui ha reso la mia vita più gradevole, on- e offline.


Violetta Bellocchio

Autrice di Il corpo non dimentica (2014), ha fatto parte di L’età della febbre (2015), Ma il mondo, non era di tutti? (2016), ha curato l'antologia Quello che hai amato (2015) e la traduzione italiana di The Art of Rivalry (2016). Ha collaborato a Rolling Stone, Vanity Fair, IL, Rivista Studio.

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