Mai come in questi mesi il digitale è anche politico. Chi ricorre agli influencer, chi lo è diventato, chi ancora ci prova. Un viaggio nella versione online dei politici italiani, tra Instagram e meme.
Sono successe tante cose strane nel 2020, quasi come se quel famoso millennium bug di cui si parlava all’inizio del Ventunesimo secolo si fosse preso vent’anni di tempo per arrivare a fare impazzire tutti i computer di bordo del pianeta Terra. L’anno non si è ancora concluso e le sorprese sembrano non finire, mentre tutti ci crogioliamo silenziosamente nel desiderio a metà tra un oroscopo di Paolo Fox e una toccata di ferro per cui, una volta entrati nel 2021, qualcosa cambierà. Non so dire quanto questo annus horribilis influenzerà il nostro modo di stare al mondo, se ci ritroveremo adagiati senza nemmeno accorgercene in una perenne “nuova normalità”, ma una cosa è certa: la pandemia globale in cui siamo incappati, noi Generazione Covid, ha confermato il ruolo fondamentale di internet, come se ce ne fosse bisogno. È come se, grazie al virus e a tutto ciò che ha causato quell’innocente pangolino del wet market di Wuhan, in un climax degno della fantasia di Angelo Branduardi, la vita sul web avesse messo il turbo.
Dirette, live stream, collegamenti in studio da casa, smart-working o telelavoro che sia, Amazon alle stelle, il salotto di casa di Lilli Gruber che diventa studio televisivo, Conte che chiede ai due più importanti influencer del Belpaese di utilizzare il loro potere sui media per dire agli Italiani di indossare la mascherina. Nell’oroscopo cinese il 2020 è l’anno del topo, ma forse sarebbe meglio dire che è l’anno del mouse: esserci vuol dire esserci sui social, Dasein-online; e se fino a quando si tratta di sponsorizzare pillole dimagranti possiamo concederci il lusso di uno scrolling disinteressato, per tutto ciò che riguarda la comunicazione politica non è proprio così. Specialmente quando i piani si mescolano e la distanza tra il ruolo istituzionale e il ruolo social si accorcia così tanto fino a sparire.
Cluster 1. I big
Per cominciare questo viaggio nel cuore del feed della nostra classe dirigente, è necessario fare una distinzione netta tra ciò che un politico sceglie di raccontare sui social in modo istituzionale e ciò che invece sembra essere frutto di uno slancio di presunta spontaneità da “ops, sbagliato chat”. Dato per scontato che nessun gesto su internet, nemmeno il più impulsivo, nemmeno il più tragicamente goffo, è frutto di un input istantaneo – al massimo è un errore –, il modo in cui un personaggio politico utilizza lo spazio che ha a disposizione in modo apparentemente apolitico è interessante da analizzare, non solo per capire a quale target si indirizza ma anche cosa vuole che emerga di sé, al di là delle sue idee esplicite. Si cita spesso la sobrietà marittima di uno statista come Aldo Moro, il mos maiorum che prevedeva una linea di separazione netta tra dentro e fuori, un paletto superato da paparazzi, spioni, voyeur, giornalisti curiosi, pronti a strappare qualche brandello di intimità della vita segreta di uomini che sembravano statue; questo dipinto austero e distaccato non solo non esiste più, ma è obsoleto.
Nessun gesto su internet, nemmeno il più impulsivo, nemmeno il più tragicamente goffo, è frutto di un input istantaneo – al massimo è un errore –, e allora il modo in cui un personaggio politico utilizza lo spazio a disposizione in modo apparentemente apolitico è interessante da analizzare, non solo per capire a quale target si indirizza ma anche cosa vuole che emerga di sé, al di là delle sue idee esplicite
Al di là della questione prettamente politica, della comunicazione legata all’operato e al quotidiano di uomini e donne che trascorrono giornate a Montecitorio, la campagna elettorale non si spegne mai su Instagram, Facebook e Twitter; e gli esempi più lampanti di intersezione totale tra social e messaggio politico sono, ovviamente, i pezzi grossi della scena. Matteo Salvini, al di là delle strategie che comprendono fake news e bidoni di benzina da rovesciare sul fuoco di un malcontento orchestrate dal fido spin doctor Luca Morisi, alterna i suoi post dall’alto contenuto di attualità con foto di castagne, Nutella Biscuits, selfie con basilico, foto dei suoi bambini, fino a rimanere coinvolto in sottotrame rosa social, per la gioia dei gossippari incalliti: dio, cibo e famiglia, uomo di panza, uomo influencer. Giorgia Meloni, altro fuoriclasse, cavalca sì l’onda lunga e sempreverde dell’alimentazione – che così esibita diventa quasi sublimazione di pornografia: dove non c’è il nudo, c’è la pizza – ma si aggiudica il premio meme con aggiunta di gattini, da “Io sono Giorgia”, tormentone social che Meloni riconverte con maestria a pseudo-inno, a evidenti rimandi alla cultura nerd e tocchi di ironia internettiana. Luigi Di Maio, anche lui a volte indirizzato verso la famosa “linea comica”, sembra puntare più a una chat di gruppo del Fantacalcio, amici da Sesso Droga e Pastorizia: l’internet mi fa meme? E io ci faccio una bella gaffe internazionale. L’importante è che se ne parli, dicono.
Cluster 2. Gli influencer
Mettendo da parte i più noti tra i volti politici, senza scordare tutti gli epifenomeni web che si generano dalla popolarità più o meno in crescita di ciascuno di loro – Le Bimbe di Giuseppe Conte, che in alta quarantena spopolavano, oggi se la passano peggio –, si può scendere in una categoria più specifica. Se la strategia comunicativa ibrida tra una foto al parco con pargoli e un post di materia puramente politica è la più diffusa sui social, ci sono casi in cui la parte formale e metodologica riesce a superare di gran lunga l’aspetto contenutistico. Il più bravo tra gli influencer della politica italiana, almeno finché il corso degli eventi non ha reso meno efficace e invincibile quel modello Milano di cui tanto si parlava, è senza dubbio Beppe Sala: il suo feed di Instagram è un equilibrio perfetto tra un boomerismo elegante con tinte da bauscia e un self branding di qualità. I suoi “Buongiorno Milano”, i calzini arcobaleno, i mocassini da vela, il cagnolino, il capodanno con Gianna Nannini, le foto in bici, le playlist, l’unboxing del “pacco da giù” – “Sala terrone per un giorno”, per fortuna in Italia la t-word non è poi così scandalosa –, i vinili, i libri, l’ironia trap, Ghali, il calcio. Diciamolo chiaro, se non fosse arrivato l’incubo della pandemia a risvegliare Milano da quel sogno – di cartone, pare – che era la vita nella capitale morale d’Italia, Sala avrebbe continuato incontrastato a svettare nella classifica digitale dei politici più sciantosi. A Cesare quel che è di Cesare, la città che per eccellenza domina sia il settore della moda che quello digital non poteva che avere un primo cittadino che fosse anche un primo influencer, che poi si trattasse di una splendida strategia di marketing per impiattare un Italia’s Next Renzi, questa è un’altra storia; sta di fatto però che nella bolla da L’assedio di Daria Bignardi e “Conoscevo Myss Keta prima che andasse a Sanremo”, Sala sgrassava un bel po’ di like, comportandosi da perfetto galantuomo della netiquette.
Santanchè in cucina: «Ecco la ricetta degli astici blu». Ironia social
Sempre su Milano si muove un altro esempio virtuoso di socialite del web, Daniela Santanchè, la politica di Fratelli d’Italia che usa il suo profilo Instagram in modo tanto creativo quanto ponderato: se Sala è il bauscia del Pd, tutto whisky pregiati e barche a vela, Santanchè è la queen delle sciure. Tra il food blogging della sua rubrica “La Santa in cucina”, le foto con i suoi beagle, le lezioni di pilates, le partite di tennis, la spesa all’Esselunga, le mascherine fashion, ma soprattutto, le estati al Twiga – dove non solo diventa deejay, “Altro che Papeete, Twiga!”, ma anche un’italica JLo in tinte arcoriane – Daniela Santanchè è a tutti gli effetti un’icona di internet. Sala e Santanchè, due schieramenti diversi, due formazioni diverse, due fenomeni web più simili di quanto potrebbero mai essere sulla carta né in televisione.
Cluster 3. Gli splendidi
Non si vive di solo Instagram, Carlo Calenda e Giuseppe Civati lo sanno bene. Distanti dal mondo canonico degli influencer, il candidato alle prossime elezioni comunali capitoline e l’ex deputato più indie della scena italiana si destreggiano anche nell’universo insidioso dei tweet, e dove su internet primeggiano le parole e non le immagini il lavoro si fa più duro. Civati è l’underground politico per eccellenza, sta ai Festival della letteratura come Sala sta al Salone del mobile; un Lodo Guenzi della sinistra progressista, tra foto con baffo e chitarra e un occhio al merchandise. Calenda invece, che di Roma Nord ha tutto, non solo le origini cinematografiche notabili, la dizione e il nome, l’attitudine da Clark’s e Barbour ben incerato la domenica – persino i figli adolescenti comunisti allo Chateaubriand, gag degna di Paolo Virzì – spinge talmente forte sul pedale del twitting che arriva al punto di prendere parte a un gioco social senza precedenti. Per un giorno, Luca Bizzarri diventa il suo social media manager; tante risate, poca sostanza politica, molto significato simbolico – o engagement, che dir si voglia.
Pierferdinando Casini, invece, si lancia in un approccio più naif, un Instagram-verità all’insegna della joie de vivre: non tanto ingenuo da condividere meme da “Buongiornissimo”, abbastanza cauto da mantenersi sul filo del rasoio con il reato di cringe. Il George Clooney della fu Dc ha sui social un guizzo di spontaneità che lo rende tanto affascinante quanto goffo, come il padre di una compagna di classe che riaccompagna in blocco le amiche a casa con la sua station wagon e il disco degli Eagles a palla.
Cluster 4. Le signore dei social
L’età media di una donna in politica è certamente maggiore di quella di una donna che lavora nel mondo dell’imprenditoria digitale, per citare la definizione ferragniana, ragion per cui se si vuole mantenere un profilo – e un feed – elegante ma anche efficace, il lavoro diventa di lima. Si può, per esempio, essere un’influencer senza sponsorizzare prodotti, ma solo rendendo velato ma non celato il fatto di voler esibire i propri outfit, oltre che il proprio operato in parlamento. Alexandra Ocasio Cortez in questo la fa da padrona, con i suoi tutorial post-comizi in cui spiega con precisione quale gradazione di rossetto stesse indossando per il suo intervento; scacco matto alla vanità, non sono narcisista se metto a disposizione di tutti e tutte la procedura che mi ha portato ad apparire così. Maria Elena Boschi, che già su internet è meme da tempo immemore, quando le community post-ironiche in stile Bispensiero l’avevano incoronata regina del centro-sinistra italiano, MEB, moderna Venere di Botticelli, alterna fulgidi selfie a (pochi) momenti istituzionali. Il suo profilo Instagram, insieme a quello di Mara Carfagna – e per certi versi anche quello di Maria Stella Gelmini –, è un catalogo moda di Marie Claire, un’operazione di gentil marketing che sceglie le tinte pastello per dare un’immagine istituzionale rassicurante, da donna che non rinuncia per nulla al mondo all’eleganza – e a un tocco di civetteria, MEB posta persino le challenge “prima e dopo” – nonostante i suoi molteplici impegni pubblici.
Il più bravo tra gli influencer della politica italiana, almeno finché il corso degli eventi non ha reso meno efficace e invincibile quel modello Milano di cui tanto si parlava, è senza dubbio Beppe Sala: il suo feed di Instagram è in equilibrio tra un boomerismo elegante con tinte da bauscia e un self branding di qualità.
Su questo stesso asse collezione primavera-estate a Palazzo Madama, si muove Anna Maria Bernini, vera erede del matriarcato berlusconiano in stile Santanchè, un femminile d’altri tempi. Bernini è tanto disinvolta su Instagram da sembrare la Taylor Mega di Forza Italia: post a tema LGBQT+, filtri ultra saturi – a questo proposito, sarebbe interessante se ne fabbricasse uno – e le poltrone bordeaux del parlamento non sono mai state così glamour. Se gli uomini puntano allo storytelling confidenziale, al punto da condividere una foto in cui ci si fuma uno spinello in santa pace, da bravo radicale qual è Roberto Giachetti, le donne che svettano costruiscono un immaginario aspirazionale: appartenere al genere femminile nel XXI secolo significa essere in grado contemporaneamente di fare carriera e di non lasciare mai che la ricrescita prenda il sopravvento, nemmeno di qualche millimetro.
Il personale è politico?
Se Vincenzo De Luca diventa una celebrità social grazie ai suoi comizi barocchi su Facebook, degni di una commedia di De Filippo, Berlusconi conquista un pubblico online di giovani che lo riqualifica in termini ironici – complice un uso dei social alla vecchia maniera, citando giornali, incorniciando ogni attimo della sua vita politica come fosse uno di quei famosi fotoromanzi che furono spediti agli elettori vent’anni fa – e Ignazio La Russa canta canzoni da falò e tifa Inter su Instagram, qualcosa è cambiato nel modo in cui la politica si rapporta con l’elettorato, che a questo punto forse è da chiamare pubblico. Non si tratta solo di ridurre la questione in termini di pudore o di apocalisse, come se i tempi correnti fossero tanto corrotti e decadenti da indurci ad assistere a questo spettacolo immondo: un uomo di Stato che mangia una fetta di pane e Nutella in diretta nazionale non è un picco di civiltà o evoluzione, certo, ma esiste un potenziale comunicativo che non ha precedenti, nel bene e nel male. Quanto più vicini a noi, quanto più subdoli, ma ci sono le eccezioni interessanti come quella di Bernie Sanders, ex candidato alla leadership del Partito Democratico statunitense che, nonostante l’età, si è avvicinato agli elettori più giovani, per non dire giovanissimi, grazie al modo intelligente e costruttivo di utilizzare tutti gli spazi a disposizione per comunicare, persino Twitch. La vera domanda è dunque: cosa vuole dirmi Giulio Gallera quando tra un post sulla questione dei vaccini e un taglio del nastro ci infila una corsetta al Castello Sforzesco, da bravo runner meneghino, o una foto della sua tenera bambina, o perché no, un reportage fotografico delle sue disgrazie post-paddle?
Più che ai manifesti, ai programmi per punti, ai video-racconti del proprio impeccabile operato, è di tutto questo contorno sovrabbondante che dobbiamo fare una scrematura. “Il personale è pubblico” è un leitmotiv del presente, un eterno Truman Show che scriviamo con più o meno enfasi, attenzione, apertura e sincerità ma in cui siamo coinvolti tutti e tutte, con gradi diversi di intensità. “Il personale è politico”, che invece era un leitmotiv degli anni Settanta, ritorna capovolto nel suo significato: i problemi personali che diventano problemi collettivi, la radice storica e sociale che ricade nel privato e pertanto necessita di un’analisi più grande, contestualizzata; al contrario, in questo modo è la politica che indossa gli abiti del particolare, del dettaglio. La banalità del bene, del gattino e della pizza, fondamentalmente non c’è nulla di sbagliato né di pericoloso, ma qualcosa di dissonante, o semplicemente ridicolo, sì. Separare potere temporale e potere spirituale nei media digitali significherebbe ammettere che la politica non è solo comunicazione, che la comunicazione non è sempre sostanza e che gli elettori, ahimè o per fortuna, non sono follower. Nel frattempo, mentre sbirciamo dal buco della serratura della nostra classe dirigente, possiamo goderci questo reality di pop-litica. E chissà cosa ne direbbe Andreotti.
Alice Valeria Oliveri
Giornalista e autrice. Nata a Catania nel 1992, dal 2014 si occupa di televisione, cinema, musica e nuovi media collaborando con diverse testate. Dal 2019 è analista nel programma di Rai3 Tv Talk e dal 2022 è autrice e host del podcast Il decennio breve, prodotto da Hypercast. Collabora con Mediaset Infinity come autrice di format video. Nel 2023 ha pubblicato il suo primo romanzo, Sabato champagne, edito da Solferino e nel 2024 ha pubblicato il saggio Mondovisione per Einaudi.
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