Teoria, tecnica e progettualità del recupero dei materiali televisivi. Un professionista di lungo corso come Carlo Freccero ci racconta radici, modelli e prospettive.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 7 - Mash-up Television del 05 gennaio 2009
L’archivio costituisce da sempre la memoria dell’umanità rispetto a settori specifici. È un insieme di documenti che si accumula spontaneamente, prima di trovare un ordine e una classificazione. La classificazione dei documenti permette la loro consultabilità a fini diversi.
Tre modelli di archivio
Nell’utilizzo dell’archivio esistono almeno tre grandi modelli. Nell’antichità e nel mondo romano l’archivio svolge soprattutto funzioni giuridiche. I documenti vengono conservati per essere consultati a fini legali. Quest’ordine dura per tutto il Medio Evo e sino alla metà del XVI secolo. La prima grande frattura nell’uso e nel significato dell’archivio si ha nel passaggio da un uso giuridico a un uso storico. I documenti conservati negli archivi rivelano la possibilità di utilizzo per ricostruire il passato in modo attendibile. Gli archivi si prestano all’attribuzione di opere d’arte, alla ricostruzione di episodi storici, ma anche e soprattutto all’elaborazione di una microstoria che non ha per oggetto i grandi eventi, ma le condizioni materiali di vita di un’epoca. La nascita dell’archivio storico così come noi l’intendiamo si colloca secondo Michel Foucault nel XIX secolo. Il museo e la biblioteca sono in effetti fenomeni costitutivi della cultura occidentale di questo periodo. Foucault, con L’archeologia del sapere, dà a sua volta una propria definizione di archivio. “È il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati” (Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 151). Ma non si tratta di enunciati contemporanei: “La descrizione dell’archivio sviluppa le sue possibilità […] a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere nostri; la sua soglia di esistenza è instaurata dalla frattura che ci separa da ciò che non possiamo più dire, e da ciò che cade fuori dalla nostra pratica discorsiva” (p. 152). Anche nella versione di Foucault, l’archivio si riferisce a culture ed epoche che presentano una discontinuità rispetto al presente. Non si può fare archeologia dell’oggi, ma solo rispetto a qualcosa che ci è ormai estraneo. L’archivio è quindi il repertorio della discontinuità e della differenza nei confronti del presente. È un materiale storico archeologico, non integrabile nella nostra cultura.
L’abbandono di questa seconda prospettiva dell’archivio si ha con il cosiddetto postmoderno. Il postmoderno sancisce l’uscita dalla modernità. Finiscono i grandi sistemi filosofici, le cosiddette “grandi narrazioni”. Ha fine anche il mito del progresso. Il postmoderno è caratterizzato da un eterno presente, in cui elementi contemporanei e del passato convivono fianco a fianco in un assoluto anacronismo. Prima di essere un movimento filosofico, il postmoderno è un movimento architettonico. Esaurita la spinta razionalistica dell’architettura moderna, elementi di decorazione del passato vengono reintegrati nell’estetica presente: la colonna, la voluta, il capitello entrano o ritornano a far parte della sensibilità estetica attuale. C’è una riscoperta del barocco e della decorazione fine a se stessa che sopravvive sino a oggi nell’arredamento e nella decorazione di interni. Lo stesso processo è identificabile in tutti i campi. Nessuno stile e nessuna forma, anche di cattivo gusto, sono mai completamente superati, ma vivono in eterno come prototipi atemporali, insieme ad altri modelli e prototipi. La moda scopre il vintage e il revival. Il cinema privilegia la serialità, il remake, la citazione. L’archivio non è più un repertorio storico a cui attingere per la ricostruzione del passato, ma una risorsa viva, attuale a cui attingere per la produzione presente.
La rivoluzione nell’uso dell’archivio in epoca postmoderna non è casuale. L’archivio non è più una raccolta di documenti cartacei, registri, bollette, ricevute, delibere, verbali, ma comincia a essere costituito da immagini, filmati, notiziari, film. All’archivio dell’epoca Gutenberg si sostituisce l’archivio visivo della società dell’immagine. A proposito del rapporto di causa ed effetto tra archivio e postmoderno, potremmo usare il solito paradosso dell’uovo e della gallina. Il postmoderno rivoluziona l’uso e il significato dell’archivio, spostandolo dalla storia al presente, secondo un’ideologia che annulla lo scorrere del tempo, ma questa ideologia, questo spirito del tempo, non sarebbe stata possibile né pensabile senza la presenza di un archivio visivo, fatto di immagini che sopravvivono eternamente e possono essere fruite indefinitamente, rendendo conoscibile anche a livello visivo, sensoriale, il passato, come un’esperienza ripercorribile infinite volte nel presente.
L’archivio non è più una raccolta di documenti cartacei, registri, bollette, ricevute, delibere, verbali, ma comincia a essere costituito da immagini, filmati, notiziari, film. All’archivio dell’epoca Gutenberg si sostituisce l’archivio visivo della società dell’immagine.
Creazione di secondo grado
C’è un secondo elemento di carattere culturale che fa dell’archivio una risorsa per molti versi preferibile al nuovo. Tutta la produzione artistica di oggi è in qualche modo una produzione di secondo grado, non tanto l’espressione di una creatività autonoma, quanto piuttosto la riflessione su espressioni culturali precedenti. Con l’avvento della fotografia le arti figurative abbandonano la rappresentazione della realtà in favore di una riflessione sull’arte stessa e sull’immagine. L’artista non è più pittore o scultore. Il suo compito è la lettura in chiave concettuale dell’esistente.
Nasce il ready made, l’utilizzo a fini artistici di oggetti di uso comune (l’orinatoio di Duchamp) e il citazionismo, l’uso di opere consacrate dalla storia dell’arte per riflettere sull’arte stessa e sulla figurazione. La riflessione può abbracciare, come nel caso di Andy Warhol e della Pop Art, l’intera società dell’immagine. Warhol lavora sulla moltiplicazione delle icone del nostro tempo (le Marilyn, le Liz, i Mao), ma anche sulle icone della storia dell’arte (Il cenacolo di Leonardo). Un’immagine codificata, un’icona, ha un valore atemporale spendibile perennemente. L’archivio è oggi il repertorio di questa classicità contemporanea.
Lo stesso fenomeno, di recupero e riciclo dell’immagine, riguarda anche le immagini minori, il trash, il cattivo gusto, con una serie di movimenti successivi che hanno alla base un meccanismo comune: il recupero del brutto, dell’eccessivo, del volgare, per farne una nuova forma di estetica, non più bassa, ma diretta a un pubblico sofisticato di amatori. Il kitsch, il camp, il cult hanno in comune questo lavoro sugli eccessi, sui cascami estetici del nostro tempo, per creare un’estetica vitale e alternativa.
Prendiamo il culto, che rappresenta un supergenere esteso al cinema, ai fumetti, alla moda. Il termine cult si riferisce in origine alla religione, ma progressivamente è venuto assumendo presso i consumatori di prodotti multimediali un significato diverso. È di culto un prodotto che non implica un consumo distratto, impersonale, esteso, ma al contrario una sorta di vera e propria dipendenza, come dall’alcool o dalle droghe. Lo spettatore di una serie di culto non è un semplice spettatore, ma un fan. Gli amatori dei generi di culto non vogliono essere intrattenuti, ma coinvolti (si veda U. Volli, a cura di, Culti tv. Il tubo catodico e i suoi adepti, Link Ricerca, Sperling & Kupfer – RTI, Milano 2002).
Il culto nasce come reazione alla critica paludata e pedagogica tradizionale per rivalutare i prodotti popolari, scartati dai benpensanti. Negli anni Sessanta la Nouvelle Vague cinematografica rivaluta, accanto al cinema d’autore, i prodotti di genere di serie B: nero, giallo, fantascienza. Negli anni Settanta la Pop Art e il kitsch recuperano in senso artistico ed estetico gli aspetti deteriori della società dei consumi. Spesso “di culto” significa “trash”. Il prodotto di culto si rivolge essenzialmente a un pubblico di nicchia di pochi appassionati, che si riuniscono in fan club e tendono a mettere in comune esperienze e sensazioni.
La tv a pagamento e le nuove serie televisive stanno però producendo un fenomeno nuovo. Il culto tende a diventare un supergenere esteso a tutta la produzione di fiction televisiva attuale. Tutti i telefilm sono studiati per trasformarsi in fenomeni di culto: per catturare non un pubblico limitato, ma un pubblico vasto, reso però estremamente fedele da un’assoluta dipendenza. Questo fenomeno è reso possibile da una precedente formazione del pubblico su internet e risponde a un bisogno analogo a quello espresso da mondi come Second Life: vivere intensamente esperienze diverse. Il pubblico non vuol più, come nella tv generalista, essere intrattenuto, ma coinvolto.
È una rivoluzione culturale. Non esiste più una Cultura Unica, espressione dell’eccellenza umana in campi come l’arte, la musica e la letteratura, ma una molteplicità di culture legate al genere, ai gusti individuali e alle sottoculture. Anche nel campo dell’audiovisivo si riverbera quella pluralità di scelte che caratterizza i cultural studies negli Stati Uniti. Ma anche uscendo da ogni prospettiva culturale, l’archivio rappresenta oggi una ricchezza, per la semplice materialità di girato, di ore e ore di immagini “brute” che può offrire. La moltiplicazione delle fonti visive e della televisione su supporti e media diversi crea fame di immagini. Da tempo la televisione, e soprattutto il web, ospitano immagini amatoriali, “sporche”, girate con il telefonino in condizioni improbabili. Al Gore ha creato una televisione per dare visibilità a questo materiale “dal basso”, YouTube rappresenta il prototipo di questa produzione spontanea di immagini. Ma da tempo anche la televisione generalista ha dato spazio a questi prodotti (Paperissima). In quest’uso basico dell’immagine amatoriale può essere inserito anche il repertorio e l’archivio. Programmi come Meteore e Matricole sono costruiti sul repertorio. Gli scarti di girato sono un classico della comicità involontaria. Oggi anche il cinema li recupera a volte nei titoli di coda, per conferire autenticità e simpatia al prodotto.
Un uso tradizionale dell’archivio condanna le trasmissioni ai margini del palinsesto, alle ore notturne. Una rete costruita sull’uso storico del materiale di repertorio manca di quella dimensione spettacolare che può coagulare insieme audience e pubblicità. Una rete pensata sulle molte possibilità e declinazioni dell’archivio, invece, può promuovere questi contenuti presso il grande pubblico.
Uso culturale, nostalgia postmoderna
Questo lungo preambolo ha il senso di suggerire gli utilizzi possibili dell’archivio. La Rai, per la sua lunga storia che abbraccia metà del Novecento, dispone di un archivio visivo vasto e interessante, un patrimonio che attende di essere valorizzato in modo più completo. Ma l’utilizzo di questo archivio si colloca, sino a oggi, essenzialmente in chiave storica. Rientra perciò nell’immagine dell’archivio come fonte storica privilegiata, codificata nel XIX secolo. È un utilizzo culturalmente importante, alla base dei successi di trasmissioni di storia come Correva l’anno o La storia siamo noi, e di indagini storiche come La notte della Repubblica e Mani Pulite. Un secondo uso culturale dell’archivio è quello ideato da Piero e Alberto Angela per integrare il documentario con la fiction. La fiction da inserire in trasmissione non viene selezionata per i suoi valori formali e narrativi, ma per il contenuto che coincide con il tema trattato in trasmissione. In entrambi i casi, nel documentario storico e scientifico, l’introduzione di immagini e della narrazione rendono più accettabile al pubblico e più vivace la trattazione di argomenti complessi, meno attraenti senza supporto visivo. Questi utilizzi sono i più coerenti con il concetto di servizio pubblico che la Rai svolge ancora, soprattutto negli spazi educativi.
Ma c’è un altro modo di attingere all’archivio, che si identifica di più con la visione postmoderna, e che sta costituendo oggi un supergenere di successo anche nel prime time della tv generalista. Accanto alla diretta esasperata di reality come Grande fratello, uno dei supergeneri forti di oggi è costituito dalla nostalgia. Sono programmi costruiti su questo modello Anima mia, I migliori anni, Tutti pazzi per la tele. In queste trasmissioni il passato, peraltro un passato prossimo, non è completamente scisso da noi, perché rappresenta la radice della nostra identità presente, la chiave della nostra formazione.
A mio parere la cosiddetta nostalgia non mette in scena il passato, ma lo specifico attuale della televisione. Mi spiego meglio. Negli anni Sessanta si discuteva sullo specifico dei vari media. Ricordo annosi dibattiti sullo specifico filmico. Venne codificato allora anche uno specifico televisivo, identificato nella capacità esclusiva della televisione di riportare gli avvenimenti in diretta. Echi di questo dibattito sono rintracciabili ancora in Apocalittici e integrati di Umberto Eco. E a distanza di trent’anni un critico del mitico Gruppo ’63, Angelo Guglielmi, realizzò intorno a questo specifico la sua linea editoriale, creando la tv-verità. In effetti alla televisione appartiene senz’altro questa dimensione, l’impatto con gli eventi in tempo reale che al cinema, per esempio, manca. Ma nel corso degli anni la televisione si è costruita una nuova identità di medium grazie alla sua memoria storica.
Da quando è nata la televisione, negli anni Cinquanta, si è andato creando un archivio che comprende fiction, informazione, intrattenimento, frammenti del vissuto quotidiano. Tutto è in qualche modo registrato e catalogato, tutto è pronto ad andare in onda un’altra volta, riportando al presente il nostro passato. Se ci riflettiamo, questa massa eterogenea rappresenta una vera e propria rivoluzione, almeno potenziale, della nostra esperienza. In qualsiasi momento possiamo rivivere un’emozione, un frammento del nostro passato, rivedendo su nastro la nostra microstoria quotidiana. Gli archeologi di domani avranno a disposizione una nuova specie di documenti: non più i registri anagrafici o gli archivi parrocchiali, ma la registrazione delle nostre esperienze collettive, della nostra vita nei suoi aspetti minori. E soprattutto già oggi possiamo pensare, accendendo la televisione, di rivivere la nostra giovinezza, di ritornare alla formazione delle nostre radici. Questa nuova esperienza del tempo, questa possibilità di recuperare il passato, di ripercorrerlo infinite volte con sentimenti diversi, ribaltando i nostri gusti e i nostri valori, ha rivoluzionato profondamente la nostra estetica, il nostro modo di vivere e di percepire la temporalità. In qualche modo il passato non è passato, in senso letterale e definitivo. Vive eternamente su nastro, in un limbo che non appartiene solo a chi ha vissuto questi eventi in prima persona, ma è a disposizione anche di chi è nato dopo e ha condiviso infinite volte, per averle vissute attraverso lo schermo, esperienze lontane nel tempo e nello spazio.
È la dimensione che, abbiamo visto, il pensiero contemporaneo ha catalogato col nome di postmoderno. Gli eventi non si collocano più in una successione cronologica, ma convivono l’uno accanto all’altro, si integrano e si completano a vicenda. Niente è completamente nuovo e niente è completamente superato. La giovinezza dei nostri padri è un’esperienza irrecuperabile o ripercorribile solo singolarmente con lo strumento deformante della memoria individuale. La nostra giovinezza vive eternamente, alimentando i miti delle generazioni successive che l’hanno condivisa attraverso il video. Per questo oggi manca la frattura che contraddistingueva una volta il passaggio e lo scontro tra generazioni. Per questo le star di una generazione continuano a vivere per le generazioni successive. Conosco a stento il nome di Giacomo Rondinella. Ma i nostri figli hanno visto infinite volte Gianni Morandi andare a prendere il latte e affollano con i genitori i suoi concerti. Questa nuova dimensione temporale introdotta dalla tv è importante almeno come la diretta. Rappresenta un modo di vivere non solo il presente, ma anche il passato in tempo reale. Ed è una dimensione di oggi, non del passato.
La cultura della televisione
Solo oggi la televisione ha accumulato tanto materiale da permetterci questa fruizione del tempo. Solo oggi esiste una generazione che ha costruito sulla televisione la sua identità. La cosiddetta nostalgia rappresenta non solo lo specifico televisivo, ma l’identità di una generazione: la generazione dei figli della televisione.
Il periodo compreso tra gli anni Cinquanta e Settanta ha espresso una cultura così ricca da esaurire in qualche modo la creatività dei decenni successivi. I miti giovanili sono nati allora, con una generazione che oggi ha i capelli bianchi. Ma c’è una cultura successiva, che costituisce la sola matrice originale dell’universo giovanile. È la cultura della televisione, che rappresenta il vero spartiacque tra vecchie e nuove generazioni. I genitori hanno conosciuto la televisione tardi, nella sua versione in bianco e nero, attraverso il palinsesto pedagogico della tv pubblica. I figli hanno avuto nella televisione una babysitter sollecita e insieme trasgressiva e perversa. Sono i figli dei cartoni animanti giapponesi, degli horror americani, dei telefilm polizieschi di serie B. Quelli che a tre anni hanno già visto in televisione un numero impressionante di delitti, rappresentati con raccapricciante realismo. Sono la generazione che si colloca tra l’avvento della televisione commerciale e l’autocritica di oggi che riconosce nella televisione una cattiva maestra di violenza e di disadattamento.
I giovani del ’68 sono stati figli del cinema d’autore e del cinema americano di serie B, che oggi tutti riconoscono come cinema d’autore. La generazione successiva è figlia della televisione, dei fumetti spazzatura, dei consumi culturalmente bassi. Questo immaginario televisivo quotidiano rappresenta oggi una vena d’ispirazione originale per il cinema americano, come quello di Quentin Tarantino, e per la nuova letteratura. All’epoca degli scrittori minimalisti americani, questi ultimi, intervistati, avevano riconosciuto nella televisione la matrice della loro identità: “Noi siamo i figli della televisione, la prima generazione televisiva della storia”. Lo stesso discorso vale per tutte le correnti letterarie successive.
Ma prima dell’avvento della tv commerciale, anche la televisione pubblica ha formato i suoi figli e lo ha fatto indirizzandoli al buonismo con Carosello, la Tv dei ragazzi, il Mago Zurlì e l’armamentario della programmazione per famiglie. Questo lato dimesso e affettuoso della televisione pubblica rappresenta il controcampo degli anni della contestazione, un quotidiano che credevamo rimosso dai grandi eventi e dai miti della nostra generazione e che invece riemerge come un tic, come un riflesso condizionato, come una sorta di scrittura automatica del nostro passato. Questa dimensione buonista è la somma delle esperienze di una generazione che negli anni Settanta e Ottanta era bambina e seguiva la tv dei ragazzi e dei suoi fratelli maggiori, che si credevano “contro” ma che a livello subliminale hanno vissuto le stesse esperienze televisive.
Due prototipi, due memorie
Ci sono due prototipi di trasmissione che ho realizzato in Francia e a cui continuo a fare riferimento. La prima, Génération, realizzata nel ventennale del ’68, rappresenta la messa in scena dell’utopia di una generazione, dei suoi sforzi di dare un senso alla vita, delle sue riflessioni sul passato. È la coscienza di una generazione. La seconda, Les Enfants de la télé, i figli della televisione, è l’esibizione del nostro inconscio televisivo. In una sorta di gioco della memoria, gli ospiti ricordano le loro esperienze giovanili e infantili attraverso il video, le trasmissioni che li terrorizzavano, la canzoncina cretina che ha accompagnato le loro prime esperienze amorose, i tic e le mode che credevano di aver rimosso. È un insieme di esperienze che nemmeno ricordiamo di aver vissuto, ma che saltano fuori automaticamente sollecitando qualche punto della nostra memoria. Basta accennare qualche nota di una sigla televisiva per accorgersi con stupore che ne ricordiamo tutte le parole. Basta risentire quel motivo che giudicavamo allora irritante e volgare per scoprirlo familiare e rassicurante, come la dimensione privata del nostro vissuto. C’è una vita che non sapevamo di vivere e la televisione ha conservato per noi. La cera Liù, le palline del clic-clac sono per la nostra generazione come la Rosabella di Citizen Kane, affondano le radici nel nostro inconscio.
Con l’uso tradizionale, storico, dell’archivio, è possibile ricostruire la coscienza e la verità di un’epoca, anzi le sue verità successive. Il mio Génération è del 1988. Oggi, nel 2008, il ’68 sarebbe probabilmente rappresentato in maniera diversa e con diverse valutazioni. L’uso postmoderno dell’archivio stabilisce invece una continuità col presente, perché riporta alla luce le radici su cui si costruiscono le identità e i gusti di oggi. Quando vivevamo il ’68 pensavamo che le nostre identità fossero rappresentate dalla politica. Percepivamo con sufficienza la produzione televisiva di successo, le mode dell’epoca. Ma, a livello subliminale, le manifestazioni del cattivo gusto di allora colonizzavano il nostro inconscio e senza che ce ne rendiamo conto dettano oggi le nostre scelte e i nostri consumi.
Non ci sarebbero stati gli anni Ottanta senza la memoria storica del cinema e della televisione precedenti. Non ci sarebbe il presente senza la memoria storica degli anni Ottanta. Questo processo è ancora più radicale per Les Enfants de la télé, la generazione dei figli della televisione, che si sono accostati al piccolo schermo prima che alla scuola e alla lettura. Questo processo è ancora più complesso oggi che la televisione e il cinema si intrecciano con altri media, computer e videotelefoni. Oggi l’archivio non appartiene al passato, ma alla memoria e alla cultura collettiva.
E su questo repertorio che collega il passato al presente è possibile costruire programmi di prima serata. Un uso tradizionale dell’archivio condanna le trasmissioni, anche di pregevole spessore culturale, ai margini del palinsesto, alle ore notturne. Una rete costruita sull’uso storico del materiale di repertorio manca di quella dimensione spettacolare che può coagulare insieme audience e pubblicità. Una rete pensata sulle molte possibilità e declinazioni dell’archivio, invece, può essere una rete di successo e promuovere presso il grande pubblico anche una fruizione dell’archivio in chiave scientifica e rigorosa.
Carlo Freccero
Nella sua lunga carriera televisiva, è stato responsabile del palinsesto di Canale 5 dal 1979 al 1983, quando è passato a Italia 1 e poi a Retequattro. Nel 1985 assume la direzione di La Cinq. È direttore di Italia 1 dal 1987 al 1992, poi torna in Francia come responsabile di France 2 e France 3. Nel 1996 dirige Raidue e poi lancia Rai 4; infine torna a Raidue nel 2018. È stato consigliere d'amministrazione della Rai dal 2015 al 2019. Insegna presso l’Università di Genova.
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