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La guerra attorno alla pubblicità

Concessionarie e agenzie, creativi e intermediari. Negli ultimi anni i ruoli si confondono, in una lotta di tutti contro tutti, tra alleanze improvvise, mode e strategie alternative.

Oggi l’industria della pubblicità sembra caratterizzata da un livello di competizione mai raggiunto prima: è un luogo dove i vecchi protagonisti subiscono drammatiche crisi di identità mentre nuove figure, fino a ieri relegate in ruoli secondari, guadagnano il centro della scena. È vero, da sempre il mondo della pubblicità ha ispirato un’immagine di sé come di un “luogo” caratterizzato da una competizione esasperata: il perfetto scenario di spietate lotte interne in cui i protagonisti non esitano a darsi vicendevolmente tremendi colpi bassi (e se citare Mad Men è fin troppo semplice andiamo allora a rileggerci qual capolavoro della fantascienza di metà anni Cinquanta che è I mercanti dello spazio dove ai dirigenti di potentissime agenzie pubblicitarie è permesso farsi fuori fisicamente). Fuori dalla fiction, uno dei più attenti osservatori del mondo dei media, Ken Auletta, a inizio 2018 nel suo libro-inchiesta dedicato “all’epica disruption dell’industria della pubblicità”, per rendere l’idea di cosa stava succedendo ha scelto il titolo Frenemies (neologismo nato dalla fusione delle parole friend ed enemy) e un’immagine quanto mai significativa: un coltello che sembra piantarsi in mezzo alla copertina del libro. Insomma, una lotta fratricida, dove amici e nemici si confondono sedendo spesso allo stesso tavolo.

Un paio di dati: la spesa in pubblicità nel 2018 è stata di circa 550 miliardi di dollari a livello globale, ma se aggiungiamo il marketing e le pubbliche relazioni, attività centrali nel pacchetto dei servizi offerto dalle grandi agenzie, la cifra supera ormai stabilmente i 1.000 miliardi di dollari l’anno. Cifre che gli analisti prevedono in aumento nei prossimi anni, nel 2019 per esempio la crescita di questa immensa torta è attesa intorno al 4%. Così inevitabilmente cresce anche la lotta per spartirsela, in uno scenario dove il digitale sta sempre più consumando gerarchie di mercato consolidate in passato. Per esempio, il sistema delle grandi holding che ha controllato pressoché indisturbato questo mercato per trent’anni deve ripensarsi completamente. D’altronde, a sua volta, anche l’espansione delle grandi holding era stata dominata da una forte competizione, caratterizzata da acquisizioni spesso realizzate attraverso scalate in ostilità con la sfrontatezza di chi sapeva di poter, sempre e comunque, dominare il mercato. Ma oggi, invece, c’è chi deve vendere i gioielli di famiglia, come ha fatto Wpp con Kantar, la costola per la ricerca di mercato con oltre 30mila dipendenti e una valutazione vicina ai 4 miliardi di euro. Cosa è successo? Chi sono i frenemies che stanno cambiando completamente la geografia di questo settore? Proviamo a fare un po’ di ordine.

Società di consulenza vs. holding pubblicitarie

Nell’aprile 2019, la più grande società di consulenza al mondo, Accenture, ha acquistato la più importante e premiata agenzia creativa indipendente al mondo, Droga5 (500 dipendenti e un fatturato di circa 200 milioni di dollari l’anno), per integrarla nella sua divisione dedicata alla customer experience. È “il segno che tutto sta per cambiare”, è stato il commento di molti addetti ai lavori. Sì, perché il mondo della consulenza e quello della creatività a lungo hanno vissuto in emisferi separati, ma le multinazionali che operano in questo settore stanno oggi ampliando l’offerta ai grandi brand con servizi che fino a ieri fornivano solo le agenzie pubblicitarie. Per esempio, Deloitte ha acquisito un’agenzia creativa come Heat per costruire “una nuova categoria di mercato chiamata consulenza digitale creativa e cambiare radicalmente il modo in cui i marchi interagiscono con i loro partner”, Edelman ha assunto negli ultimi cinque anni 500 persone nella creatività e pianificazione portando il brand marketing a essere la sua principale voce di ricavo, e in questa direzione si sono mossi anche altri giganti della consulenza come McKinsey, Pwc, Ernst & Young, attrezzandosi con agenzie creative al loro interno. E poi c’è Ibm che nel 2014 ha dato vita alla divisione IBM Interecative Experience, un colosso con 10 mila dipendenti grazie a cui l’azienda può unire le sue risorse tecnologiche con la consulenza strategica per “trasformare il modo in cui le persone interagiscono con i marchi”. La divisione ha fatto in questi ultimi anni diverse acquisizioni societarie in campo creativo come l’agenzia Resource/Ammirati, storica partner di Apple.

La scelta di Accenture ci dice qualcosa di più: la volontà da parte dei giganti della consulenza gestionale di spostare la competizione dall’advertising come lo abbiamo pensato finora a quello più nuovo, e decisamente più ampio e complesso, dell’esperienza-utente, dove le loro risorse e strutture potrebbero essere molto più attrezzate di chiunque altro.

La presa in carico di Droga5 da parte di Accenture però a molti è sembrata subito diversa: un ulteriore scatto in avanti. David Droga, fondatore e Ceo, il creativo che tutti sognano di diventare nel mondo della pubblicità, ha saputo attraversare brillantemente la rivoluzione digitale di questi anni, ma ha solide basi nei fondamentali del mestiere, quello che si faceva quando ancora l’ossessione per i dati e l’iper-targetizzazione non si era impossessata completamente di un intero settore. È la grande questione, oggi, per l’industria della pubblicità: quanto i dati stanno uccidendo creatività e idee? Ma potremmo metterla anche così: con tutti quei dati, quanto la creatività è ancora necessaria? Per molti il destino irreversibile del settore è un passaggio di consegne “dai mad men ai math men”. Ma l’acquisizione di un’agenzia a così alta densità creativa, non solo a matrice digitale, nel settore della consultancy porta la competizione davvero in nuovi e sorprendenti scenari.

“Non crediamo più che i brand siano costruiti per la pubblicità”, sostiene il responsabile di Accenture Interactive Brian Whipple, che dimostra di avere le idee molto chiare: “l’esperienza del cliente è il nuovo marketing, la nostra attività consiste nel mettere insieme in un’unica stanza le componenti della consulenza aziendale, della forza tecnologica e dell’agenzia creativa”. Così, se “dati a servizio della creatività e creatività al servizio dei dati” potrebbe essere il claim perfetto per l’agenzia del futuro, la scelta di Accenture ci dice qualcosa di più: la volontà da parte dei giganti della consulenza gestionale non tanto di fare un’invasione nel campo operativo delle holding pubblicitarie, quanto di spostare la competizione dall’advertising come lo abbiamo pensato finora a quello più nuovo, e decisamente più ampio e complesso, dell’esperienza-utente, dove le loro risorse e strutture potrebbero essere molto più attrezzate di chiunque altro.

I grandi advertiser tagliano i budget e riscoprono l’in-house

I grandi investitori pubblicitari stanno ridisegnando i rapporti con le holding pubblicitarie, non solo dando un taglio deciso ai propri budget, ma anche riappropriandosi di un ruolo che per molti anni avevano completamente delegato alle agenzie creative e ai centri media. In particolare, due dei più grandi investitori pubblicitari al mondo, P&G e Unilever, hanno dato vita ad agenzie interne per razionalizzare i costi del marketing e mettere ordine alla pletora di agenzie esterne con cui collaborano. Nel 2018, Unilever è riuscita a ridurre di 500 milioni di euro gli investimenti in marketing rispetto all’anno precedente, grazie soprattutto al lavoro realizzato dall’agenzia pubblicitaria interna U-Studio, lanciata nel 2016: in solo tre anni da piccola divisione interna è diventata una struttura utilizzata da tre quarti dei marchi della galassia Unilever con sedi operative in venti paesi.

P&G sta adottando un approccio un po’ diverso, ha dato vita ad agenzie in-house obbligando però a lavorare insieme a un unico tavolo sia le professionalità interne sia gli esperti di agenzie esterne storicamente in competizione tra loro, come Saatchi&Saatchi e Grey (a proposito di frenemies). Al di là dei grandi brand, la strada sembra tracciata in questa direzione: negli Stati Uniti, secondo una ricerca del 2018, quasi l’80% dei marchi membri dell’Associazione americana degli inserzionisti nazionali ha una qualche forma di agenzia interna, nel 2008 erano solo il 42%.

I brand-studio degli editori vogliono diventare agenzie

Nella guerra della pubblicità cercano di competere, da qualche anno, anche gli editori, le principali “vittime” del nuovo ordine mondiale dell’advertising. I content brand studio sono stati il primo passo evolutivo che ha portato le “vecchie” concessionarie – che si limitavano perlopiù alla sola vendita di spazi – a diventare divisioni interne dedicate alla progettazione e realizzazione di campagne per i propri investitori pubblicitari in concorrenza con le agenzie creative. Per completare il ciclo evolutivo, le grandi testate stanno lavorando per far diventare queste divisioni interne delle agenzie vere e proprie, non solo per le campagne pubblicitarie da pubblicare sui giornali dei loro gruppi editoriali, ma anche su tutti gli altri canali. Il New York Times ci sta pensando seriamente da un po’: T Brand Studio nel 2014 quando è stato lanciato era una divisione con qualche decina di dipendenti dedicata alle campagne di native advertising da pubblicare sul sito del Times mentre oggi è una società di servizi di marketing a pieno titolo, con centinaia di professionisti, compresi quelli di agenzie acquistate nel frattempo come HelloSociety (specializzata in influencer marketing) e Fake Love (social storytelling).

Il fatto è che ancora – nonostante le legittime preoccupazioni per le reazioni delle persone verso una profilazione sempre più aggressiva e anche una maggiore legislazione in materia da parte di molti Stati – la domanda di dati da parte delle aziende continua ad aumentare. Per cercare di tenere il passo le grandi holding devono spendere quanto mai hanno fatto prima per nuove acquisizioni.

I brand studio, nonostante la crescita, hanno ancora limiti strutturali se confrontati a giganti come WPP o Publicis, ma indubbiamente New York Times, Washington Post, Guardian, Financial Times e il resto delle élite delle grandi testate internazionali – pure in un clima generale di crisi di identità della stampa – possono puntare su una brand awareness e una qualità dei contenuti che pochi altri sono capaci di garantire nella galassia delle agenzie pubblicitarie. “Siamo un prodotto premium”, ha detto Sebastian Tomich, capo della pubblicità al Times. Gli inserzionisti si sono ridotti per i giornali, ma quei pochi rimasti sono disposti a pagare un prezzo aggiuntivo per una qualità che solo queste testate possono garantire, e stanno stringendo un rapporto più stretto con loro rispetto al passato.

Google e Facebook (in attesa di Amazon)

E poi ci sono loro. Google e Facebook (e tutto il loro universo di app e siti) sono i frenemies per eccellenza, perché non solo sono i destinatari delle fette più consistenti dei budget che le holding pubblicitarie investono sui media per conto dei loro clienti ma, contemporaneamente, rappresentano anche lo strumento principale della disintermediazione dell’industria dell’advertising, con la loro pubblicità fai-da-te che attira – oltre ai big spender – anche tutte quelle piccole e medie imprese che non potrebbero mai permettersi di pagare le ricche commissioni delle grandi agenzie. Se qualcuno ha sperato che lo scandalo Cambridge Analytica e quello che ne è saltato fuori mettessero in ginocchio Facebook, ne è rimasto deluso: “il suo anno peggiore è stato il suo migliore da quando si è messo in affari”, ha dovuto ammettere il New York Times, uno dei principali accusatori. Sono aumentati i ricavi (che per oltre il 98% provengono dalla pubblicità), magari non alla velocità di qualche anno fa, quando crescevano intorno al 50%, ma comunque con un ottimo 29% su base annua. Aumentano i profitti del 61% e crescono gli inserzionisti, che hanno raggiunto nel quarto trimestre del 2018 quota 7 milioni.

Il fatto è che ancora – nonostante le legittime preoccupazioni per le reazioni delle persone verso una profilazione sempre più aggressiva e anche una maggiore legislazione in materia da parte di molti Stati – la domanda di dati da parte delle aziende continua ad aumentare. Per cercare di tenere il passo le grandi holding devono spendere quanto mai hanno fatto prima per nuove acquisizioni. IPG non si è fatta troppi problemi a spendere 2,3 miliardi di dollari per portare sotto il suo controllo Acxiom, il più grande data broker al mondo, che pure qualche lato oscuro in fatto di privacy lo ha sempre presentato. E Publicis quest’estate ha completato l’acquisizione per oltre 4 miliardi di dollari di Epsilon, altro gigante del marketing basato sui dati – 250 milioni profili utente solo negli Stati Uniti – una delle operazioni più onerose e importanti nella storia quasi centenaria del gigante francese della pubblicità.

La corsa ad accumulare e gestire sempre più dati (anche e soprattutto quelli di prima parte) non ha ancora raggiunto il suo apice, al di là delle belle parole sull’avere a cuore la privacy dei consumatori da parte dei protagonisti di questa industria. Anche per questo c’è chi indica, da qualche tempo, Amazon come un più che probabile nuovo protagonista della scena dell’advertising. L’enorme quantità di dati che già possiede sulle abitudini di acquisto dei suoi utenti sono particolarmente preziosi. Quasi la metà (47,8%) degli utenti americani utilizza Amazon prima di fare acquisti online (mentre Google si ferma al 34,6%). Così nel 2019 secondo eMarketer la fetta che si ritaglierà Amazon nel mercato pubblicitario americano sarà dell’8,8%, poco in confronto a Facebook e Google, ma Bezos e soci hanno il vantaggio di poter far crescere questo business all’interno della loro azienda con tutta calma. Rispetto ai loro concorrenti della Silicon Valley non dipendono da un’unica voce di ricavo, possono affilare le loro armi e aspettare il momento giusto per sferrare l’attacco a questo settore.
Qualche tempo fa, una storica e potente società di investimenti della Silicon Valley come Andreessen Horowitz, in un’analisi intitolata Outgrowing Advertising, metteva in guardia le big tech americane sulla loro dipendenza eccessiva da una sola fonte di ricavo, elogiando la capacità di diversificare delle aziende tecnologiche cinesi (per esempio Tencent, dove l’advertising pesa solo per un 16,8%). Ecco, esteso anche fuori dalla Valley, quell’invito a “non dipendere troppo dalla pubblicità, a espandere le fonti di entrata e a essere capaci di trasformare i propri modelli di business” suona anche come un monito a tutti gli attori coinvolti, oggi e in futuro, nella guerra per controllare l’industria della pubblicità.


Lelio Simi

Giornalista, si occupa di innovazione, tecnologia e industria dei media (con inchieste pubblicate su il Manifesto, Pagina 99, Eastwest, Altreconomia tra gli altri). Ha scritto un libro, Mediastorm. Il nuovo ordine mondiale dei media (2021). Mediastorm è anche il nome della sua newsletter.

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