Internet si sta polarizzando: da un lato il ritorno del broadcast, dall’altra comunità piccole e private. E la pubblicità cerca di conquistare questi gruppi in vari modi, oltre a colonizzare l’attenzione di massa.
Da qualche tempo, i social network che hanno caratterizzato gli ultimi 15-20 anni delle nostre vite sono in difficoltà. Non è una novità: gli utenti globali di Facebook hanno smesso di crescere da almeno due anni (mentre in Occidente sono diminuiti e hanno un’età media sempre più elevata). Perfino Instagram, per molti anni il principale vettore di crescita delle piattaforme di Meta, inizia a mostrare qualche crepa. In un documento interno a Meta, ottenuto dal Wall Street Journal, si confessava per esempio come la maggior parte dei reels (ovvero i brevi video con cui Instagram cerca di replicare a TikTok) “non generi engagement di alcun tipo”. Non solo: secondo i dati riportati già nel 2021 all’interno dei Facebook Papers, la quantità di contenuti postata dagli utenti adolescenti è in costante calo anno su anno. Situazione ancora peggiore (per ragioni diverse) dalle parti di Twitter, i cui introiti pubblicitari, da quando Elon Musk ha preso possesso del social network, sono calati ogni mese almeno del 50% rispetto all’anno precedente.
Nel frattempo, nessuna delle piattaforme social che, negli ultimi anni, hanno cercato di approfittare delle difficoltà altrui è riuscita nell’impresa: Clubhouse sarebbe oggi utilizzato solo da 3 milioni di persone (-70% rispetto al suo apice), BeReal ha visto la crescita fermarsi a quota 51 milioni di utenti, mentre gli utenti di Threads, la risposta di Zuckerberg a Twitter, sono calati del 79% rispetto al mese di luglio, scendendo a 10 milioni circa. In un panorama complessivamente difficile, spicca l’eccezione di TikTok. Il social media della cinese Bytedance non solo tiene incollati i suoi utenti per un tempo quasi doppio rispetto a Instagram (52 minuti al giorno contro 28), ma ha già superato abbondantemente il miliardo di utenti attivi e il suo fatturato dovrebbe crescere nel 2023 del 50% rispetto all’anno prima.
Da network a media
Perché una differenza così spiccata rispetto ai concorrenti? Probabilmente perché – come sottolineato in numerose analisi – TikTok è stata la prima piattaforma a comprendere appieno come i social network stiano diventando dei social media: “A differenza delle piattaforme che sta rapidamente sostituendo, TikTok ha una funzione più di intrattenimento che di connessione con gli amici”, ha scritto l’esperto di nuovi media Ben Smith sul New York Times. Su TikTok gli utenti non sono incentivati a postare contenuti personali da condividere con amici e conoscenti, ma semplicemente a consumare quelli prodotti da creator professionisti e aspiranti tali: TikTok ricorda più una piccola televisione, formato smartphone e dal rapido consumo, di quanto non ricordi Facebook o Twitter.
La fine di una certa fruizione dei social significa che gli utenti non sono più interessati a condividere contenuti di ogni tipo online? In realtà, non sono più interessati a condividerli sulle piattaforme tradizionali, con cui sono spesso in contatto con sconosciuti (o quasi) o con persone nei confronti delle quali preferiscono non esporsi (come può essere il caso dei genitori o dei colleghi). Come ha scritto Sara Wilson in un importante articolo pubblicato dalla Harvard Business Review, “i social network assomigliano a un affollato aeroporto dove tutti possono entrare, senza che nessuno sia particolarmente contento di trovarsi lì”. E allora dov’è che, soprattutto i più giovani, sono contenti di radunarsi? La risposta è stata riassunta sempre da Sara Wilson con il termine “digital campfire” (traducibile come “falò digitale”): luoghi intimi dov’è possibile incontrarsi in piccoli gruppi caratterizzati da amicizie profonde, interessi comuni o esperienze condivise.
Tre tipi di falò digitale
Quali sono allora questi falò digitali? Possiamo dividerli in tre categorie. La prima è rappresentata dalle classiche piattaforme di messaggistica come Whatsapp e dai gruppi creati al loro interno. In questi piccoli gruppi – dove i contenuti sono scambiati in maniera più spontanea e al riparo da sguardi indiscreti – si sta trasferendo una gran parte dell’attività social, come ha indirettamente confermato anche il responsabile di Instagram Adam Mosseri. In una recente intervista al podcast 20VC, Mosseri ha spiegato: “Se osservi il comportamento degli adolescenti su Instagram, si nota come ormai passino più tempo sui messaggi di quanto non facciano sulle storie o sul feed principale”. D’altra parte, già in un post del 2019 lo stesso Mark Zuckerberg aveva segnalato questo cambiamento, indicando come i messaggi privati e i piccoli gruppi fossero “di gran lunga” le aree dove si osservava la maggiore crescita.
Su TikTok gli utenti non sono incentivati a postare contenuti personali da condividere con amici e conoscenti, ma semplicemente a consumare quelli prodotti da creator professionisti e aspiranti tali: TikTok ricorda più una piccola televisione, formato smartphone e dal rapido consumo, di quanto non ricordi Facebook o Twitter.
La seconda categoria è quella delle microcomunità: l’esempio più noto è sicuramente quello dei gruppi di Facebook, dove le persone si riuniscono in base al luogo di provenienza, all’appartenenza politica, alle passioni condivise o altro. Per quanto riguarda i giovani, la piattaforma che meglio incarna la microcomunità digitale è però Discord: inizialmente destinato soprattutto ai gamer, oggi Discord può contare su oltre 150 milioni di utenti attivi che frequentano i vari “server”: canali di discussione tematica dove le persone conversano e scambiano contenuti sui temi preferiti, stringendo anche profonde amicizie virtuali. Un discorso simile si può fare per i canali di Telegram e non solo.
L’ultima categoria è rappresentata dalle piattaforme che permettono agli utenti di vivere online delle esperienze condivise. Gli esempi più noti sono quelli di Fortnite o di Roblox: mondi digitali che più di ogni altro si avvicinano al concetto di “metaverso” (anche se non in realtà virtuale) e che in realtà rappresentano al meglio il social gaming: videogiochi multiplayer online, ma fortemente orientati alla socializzazione (come conferma il fatto che almeno metà degli utenti li utilizza – secondo quanto da loro stessi dichiarato – anche per incontrare gli amici).
Le interazioni online spontanee stanno quindi transitando dai social di massa verso luoghi più esperienziali (come nel caso del social gaming) oppure che permettono di partecipare a gruppi ristretti accomunati da amicizie profonde o interessi condivisi. È un cambiamento che va di pari passo con un altro importante passaggio culturale, che la testata specializzata Digiday sintetizza così: “Negli ultimi anni, la proliferazione di contenuti online ha reso l’esperienza di internet più individualizzata, permettendo alle persone di focalizzarsi su nicchie specifiche che reputano interessanti, invece di doversi sintonizzare su ciò che si suppone dovrebbe interessargli solo perché tutti dicono così”.
E allora il marketing?
Questo cambiamento non presenta sfide inedite soltanto per i gestori dei social tradizionali, ma anche – e forse soprattutto – per gli inserzionisti e i brand che vogliono penetrare questi falò digitali per raggiungere i potenziali clienti lì dove si stanno trasferendo. Come inserirsi però nei gruppi di Discord o nelle comunità di Roblox senza che la loro presenza venga vista come una sgradevole intrusione, con il rischio di alienarsi quegli stessi utenti che si vorrebbero conquistare? Sempre secondo Digiday, i responsabili del marketing devono comprendere al meglio come i loro brand possono entrare in queste comunità (se è il caso) e relazionarsi con esse: “I consumatori si aspettano che i contenuti siano ultra-specifici, ciò significa che dobbiamo comprendere quale tipo di contenuto possa funzionare per quale demografica di persone con determinati interessi”.
Per quanto gli annunci sui social siano targettizzati in base ai nostri interessi (e non solo), non siamo particolarmente infastiditi quando questi annunci non vanno esattamente incontro ai nostri gusti. Ma se ciò avviene invece all’interno di piccoli gruppi, o canali dedicati a un tema molto specifico, il rischio che la presenza di un brand sia vista come una fastidiosa intrusione è molto elevato. “I brand che cercano di inserirsi in questi spazi con messaggi apertamente commerciali, o contenuti non in linea con i valori o gli interessi della comunità, hanno molte probabilità di essere visti con sospetto o anche ostilità”, si legge in un’analisi di Emplifi. “Si tratta di spazi spesso autogovernati e in cui i membri della comunità gestiscono attentamente i contenuti per mantenere un senso di autenticità”. Più che vendere prodotti, l’obiettivo deve essere quello di “diventare una parte fidata della comunità, condividendo interessi comuni e lavorando assieme”. Niente di particolarmente nuovo, in realtà.
Gli inserzionisti e i brand vogliono penetrare questi falò digitali per raggiungere i potenziali clienti lì dove si stanno trasferendo. Come inserirsi però nei gruppi di Discord o nelle comunità di Roblox senza che la loro presenza venga vista come una sgradevole intrusione, con il rischio di alienarsi quegli stessi utenti che si vorrebbero conquistare?
Ci sono però degli esempi di successo? Le sperimentazioni più interessanti sono finora avvenute soprattutto nel campo del social gaming: all’interno di Roblox (piattaforma da 64 milioni di utenti attivi quotidianamente, che permette ai giocatori stessi di creare videogame a cui poi possono poi tutti partecipare) sono state per esempio progettate esperienze brandizzate come Nikeland, Vans World o Gucci Town. In particolare, Nikeland si è rivelato un importante successo: secondo quando riporta The Drum, l’ambiente creato dal celebre marchio ha ricevuto 7 milioni di visitatori nel corso dei primi due mesi ed è riuscito nella difficile impresa di attirare utenti anche sul medio termine, ricevendo 21 milioni di visitatori nei quasi due anni trascorsi dal lancio. Gli utenti approdano e rimangono in Nikeland per l’esperienza di gioco, durante la quale acquistano oggetti digitali marchiati Nike. L’obiettivo non è solo la vendita, ma – come spiega Winnie Burke, responsabile moda di Roblox – “costruire affinità con la Generazione Z, aspetto che a sua volta ha ricadute nelle decisioni di acquisto nel mondo reale”.
Scorciatoie ed espedienti
Più difficile penetrare nei “digital campfire” strettamente intesi: Discord non consente infatti forme di pubblicità diretta. L’unica strada perseguibile è di creare dei canali dedicati, fornendo contenuti specifici in grado di attirare gli utenti. Un caso spesso riportato è quello della squadra Nba dei Sacramento Kings, che ospita sessioni di Q&A con giocatori, commentatori e dirigenti (Discord non diffonde metriche specifiche sulla partecipazione a questi eventi, gli iscritti al canale sono però circa 6.500). Attenzione a dare per scontato che queste forme di partnership e sponsorizzazioni siano necessariamente la strada da seguire per i brand intenzionati a costruire nuove forme di relazione digitale con il pubblico (soprattutto quello più giovane). Come segnala Digiday, “è difficile capire se questa strategia continuerà a funzionare, vista la crescente ostilità del pubblico più giovane verso tutto ciò che ha fini pubblicitari”.
E se invece riuscire a penetrare nei falò digitali, con tutti i rischi che abbiamo visto, non fosse poi così necessario? Come dimostra il successo di TikTok (e come confermano i dati di Insider), Instagram e Facebook non sono in difficoltà perché le persone hanno del tutto abbandonato i social, ma perché le piattaforme appartenenti a un’epoca diversa stanno più faticando ad andare incontro alle nuove abitudini di fruizione. Una fruizione sempre più incentrata sul consumo passivo di contenuti prodotti da creator, influencer, divulgatori e… brand. Come già detto, gli utenti trattano i social sempre più spesso come un “media broadcast”, decretando il successo delle piattaforme di massa che, come TikTok, meglio soddisfano questo cambiamento. Non solo: una ricerca condotta da Privacy HQ ha mostrato come il 63% degli utenti intervistati avesse comprato nel mese precedente almeno un oggetto o un servizio scoperto grazie alle pubblicità sui social. Almeno due terzi della popolazione social ha quindi trovato inserzioni di suo interesse (grazie alla targettizzazione).
Se va incontro ai gusti degli utenti, la pubblicità sui social tradizionali può essere consumata con lo stesso interesse riservato agli altri contenuti che scorriamo sul feed. Forse, allora, non è indispensabile affrontare la sfida dei falò digitali (con il rischio di far perdere proprio la caratteristica di intimità che li ha resi accoglienti in primo luogo), perché quando gli utenti hanno voglia di consumare contenuti – invece che di condividere esperienze – si spostano sui social media tradizionali. Ed è lì che i brand possono continuare a trovarli.
Andrea Daniele Signorelli
Giornalista freelance, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per Domani, Wired, Repubblica, Il Tascabile e altri. È autore del podcast Crash - La chiave per il digitale.
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