La nuova fase dell’universo Marvel, e in particolare Loki, include nel racconto una riflessione profonda sui meccanismi non solo narrativi ma industriali. E mette in scena lo scontro tra vecchio e nuovo.
L’universo cinematografico Marvel fino a oggi è stato tenuto insieme da un’unica grande trama. Come fosse una stagione di una serie tv in cui diversi film (e serie tv a loro volta) fanno da episodi. La prima “stagione” in questo senso si è conclusa con il dittico Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame (che secondo la scansione ufficiale Marvel appartengono alla “fase 3”). Con quei due film tutte le trame imbastite sono arrivate al pettine, tutti i personaggi si sono incontrati e il grande cattivo è stato sconfitto.
Solo un anno prima però Spider-Man: un nuovo universo aveva aperto una seconda “stagione”, non più caratterizzata solo da una trama comune ma anche da una metatestualità comune a film e serie, anche quando non sono legati alla grande continuity che forma il Marvel Cinematic Universe. Non ci sono più una serie di oggetti magici da recuperare ma il gioco con le dimensioni parallele e il loro (probabile) collasso unisce studi diversi (Spider-Man: un nuovo universo è prodotto con Sony). Questa volta ci sono tanti mondi paralleli in cui i personaggi che conosciamo magari non sono come li conosciamo. Un mondo parallelo in cui l’Uomo Ragno è un maiale parlante, uno in cui è una ragazza, uno in cui è bambina giapponese e via dicendo. Sono però le due serie tv Marvel uscite in quest’ultimo anno ad aver introdotto un’idea molto più complicata e in particolare Loki.
Meta-racconto
Prima WandaVision ha raccontato un mondo in cui una persona con i suoi poteri obbliga una cittadina a essere dentro delle sitcom tradizionali, tirando un parallelo tra il lavoro di ammorbidimento del quotidiano delle serie comiche tradizionali e il lavaggio del cervello, in pratica dicendo qualcosa sulla televisione stessa e su cosa fa al pubblico. Poi Loki ha fatto un passo in più e ha proposto la storia di uno dei personaggi dell’universo Marvel che va dall’altra parte dello specchio, in un non-luogo immaginato come un ufficio altamente burocratizzato dove si tirano le fila di tutto. Lì gli viene presentato lo sbobinato della sua vita in quella che sembra una sceneggiatura, lì viene messo in questione il suo ruolo nella sua vita (la parte che interpreta, quella del villain) e lì può assistere alla rappresentazione grafica della continuity Marvel, cioè di quel set di riferimenti incrociati e coerenze che rendono un universo condiviso credibile perché non ci sono incongruenze. Arrivato a un livello superiore dell’esistenza, una trascendenza che non ha niente di spirituale e tutto di tecnico, come una produzione, il punto dell’intera stagione sarà la maturazione di quello che è sempre stato un villain, la possibilità di scrivere per sé un nuovo ruolo e soprattutto di scriverlo all’interno della realtà di finzione.
Loki ha proposto la storia di uno dei personaggi dell’universo Marvel che va dall’altra parte dello specchio, in un non-luogo immaginato come un ufficio altamente burocratizzato dove si tirano le fila di tutto. Lì gli viene presentato lo sbobinato della sua vita in quella che sembra una sceneggiatura, lì viene messo in questione il suo ruolo nella sua vita (la parte che interpreta, quella del villain) e lì può assistere alla rappresentazione grafica della continuity Marvel.
In generale lo svelamento dei propri stessi meccanismi di enunciazione sembra una componente della fase due Marvel. L’idea che il collasso delle varie dimensioni parallele dia la possibilità ai personaggi di avere a che fare con questioni che rasentano da vicino la consapevolezza della loro essenza di finzione, della malleabilità e mutabilità delle loro esistenze. Il prossimo film dedicato all’Uomo Ragno ha confermato la presenza di Alfred Molina ringiovanito al digitale nel ruolo del Dr. Octopus, dopo che lo aveva interpretato quasi venti anni fa in Spider-Man 2, mentre sembrano probabili apparizioni anche di altri interpreti di altre iterazioni del personaggio, cioè Andrew Garfield e Tobey Maguire. Il cinema da sempre riflette su se stesso e sulla sua natura, mai però era andato così vicino a rappresentare la maniera stessa in cui film e serie sono messi in piedi produttivamente, in progetti di questa portata commerciale.
La produzione della finzione
Finora Loki è stata la porta d’ingresso più grande a un’idea ancora sottile in WandaVision. Con un’estetica da Dharma project di Lost, il grande ufficio che gestisce la linea temporale del mondo in cui vivono i personaggi sembra la produzione stessa, incaricata di fare in modo che i singoli attori aderiscano sempre ai loro personaggi e che non improvvisino ma si attengano alla sceneggiatura prevista per loro. Tra le loro armi c’è il loop: possono cioè punirli facendo loro ripetere loro gli ultimi minuti o secondi di vita, come in una serie infinita di ciak. Loki stesso sarà costretto a rivivere un momento drammatico della sua vita, sperimentando reazioni e toni differenti fino a trovare quello sentimentalmente più vero e onesto.
Con un’estetica da Dharma project di Lost, il grande ufficio che gestisce la linea temporale del mondo sembra la produzione stessa, incaricata di fare in modo che i singoli attori aderiscano sempre ai loro personaggi e che non improvvisino ma si attengano alla sceneggiatura prevista per loro.
L’obiettivo sembra essere quello di rompere non tanto gli schemi, che alla fine vengono comunque sempre ricomposti tenendo educatamente i personaggi dentro la gabbia della finzione, ma rompere le convenzioni dei cinefumetti per istituzionalizzare lo scavallamento dal mondo dei cattivi a quello dei buoni dei personaggi. Sembra la lotta dei personaggi per potersi scrivere da sé dall’interno. Tutto Loki è la storia di un villain che qualcuno non vuole sia villain e che finirà (come l’Uomo Ragno di Spider-man: un nuovo universo) a incontrare versioni alternative di sé, Loki di altri universi che sono oltre ad animali o bambini, anche attori di tipo diverso (il caratterista Richard E. Grant per esempio) o gender-swapped (Sophia Di Martino), come fossero opzioni che la produzione ha scelto di non seguire.
E alla fine, negli ultimi episodi, Loki stesso parlerà di “mia storia” parlando del suo futuro, finendo a confondere completamente la linea tra quello che i personaggi sanno di sé e quello che noi sappiamo di loro (ovvero che sono personaggi di una produzione televisiva). Finirà a confrontarsi con Colui che rimane, l’uomo che ha creato tutto il meccanismo che pone ordine all’universo temporale, e che tratta i personaggi come tali, che dice loro di “non poter arrivare alla fine prima di essere cambiati dal viaggio” come prevede ogni buona sceneggiatura hollywoodiana e che “Siamo tutti villain qui”, sottolineando come l’etichetta che la produzione dà ai protagonisti di questa storia non è diversa dalla sua.
Le forze della conservazione dell’equilibrio, cioè la produzione, sono quelle che dicono al protagonista, tramite il Mobius di Owen Wilson, che quel ruolo di villain non è necessariamente qualcosa di cui vergognarsi, perché è l’esempio negativo che aiuta gli altri a essere la versione migliore di se stessi. Lo incoraggiano a interpretarlo. Mentre le forze dell’innovazione, i personaggi stessi, desiderano sempre altro per sé, di potersi liberare dalle gabbie produttive, dalle sceneggiature delle proprie vite e dalle indicazioni dei registi per poter esistere autonomamente.
Gabriele Niola
Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.
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