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Invelle, l’animazione d’autore di Simone Massi

Nell’epoca d’oro dell’animazione mainstream, un film italiano racconta le comunità contadine marchigiane attraverso un’opera sensoriale dove la favola sposa l’impegno sociale, e il fantastico trova il “non luogo” per eccellenza in cui esprimersi.

L’eccezionalità di un’opera come Invelle prende corpo attraverso le sue due anime, le quali ci portano ad andare oltre all’importanza del film in sé ma vanno piuttosto a definire un discorso più ampio, universale, trasversale, che abbraccia una precipua idea di cinema, di racconto, certe vie produttive, determinate tecniche nonché scelte esistenziali e quindi, inevitabilmente, politiche. Una riguarda la scelta tecnica per rappresentare il film, la drawn animation a passo uno di cui Simone Massi può essere considerato uno dei più importanti esponenti in virtù del suo lavoro precedente. L’altra ha a che fare con Simone Massi stesso, con le sue scelte di vita che si riflettono sui temi e gli approcci del film.

Invelle è un termine pergolese, un avverbio che descrive un non luogo, “nessuna parte”. È lo stesso regista a raccontarlo in un’intervista con Luca Raffaelli: quando era bambino chiedeva a suo padre dove andasse prima che uscisse di casa. “Invelle”, rispondeva. Fuori. E, forse, è proprio dal titolo, che non a caso sono anche le parole che chiudono il film, bisognerebbe partire.

Animazione per adulti

Invelle è la storia di tre bambini in tre epoche diverse. Tre epoche storiche specifiche, distanti e differenti. Il periodo della Prima guerra mondiale (1918), quello della Seconda guerra mondiale con la dicotomia legata alla Resistenza e al nazi-fascismo (1945) e quello del periodo delle Brigate rosse culminate con l’omicidio di Aldo Moro (1978). Tre sguardi sul mondo e sulla storia diversi. Tre periodi storici differenti ma uno stesso luogo, quel paese che rimane lì, fermo, immobile, a definire un respiro contadino, antico, ancestrale e che, inevitabilmente, simboleggia un “invelle”, un non luogo che è al tempo stesso il luogo per eccellenza, la testimonianza immutabile del tempo che passa e di ciò che cambia attorno ai personaggi di questa storia.

Lo statuto di film animato rigorosamente per adulti di Invelle apre una riflessione sulla percezione che il pubblico ha dell’animazione. Ma, se proprio vogliamo dirla tutta, anche la critica ha dell’animazione.

Invelle, primo lungometraggio di Simone Massi, prodotto da Daniele di Gennaro e Salvatore Pecoraro per minimumfax media, ci dice molto di più di ciò che è racchiuso all’interno dell’economia del racconto. E ce lo dice da ciò che c’è stato prima di Invelle, prima della pellicola: una produzione travagliata, durata dieci anni, che ha rischiato di affossarsi in più di un’occasione. Tutto, in Invelle, odorava di fallimento. La scelta del narrato. L’approccio tecnico-estetico. L’impianto visuale. I vari produttori che si sono susseguiti hanno provato per anni a veicolare la loro visione limitando l’unica legittima, quella del suo autore. È stato l’intervento di Pecoraro a salvare il film, a permettergli di avere una forma, un assunto, un’estetica che fosse quella specifica del regista, di Simone Massi. Ma a dirla tutta, il parossismo sta già nel fatto che Massi, considerato tra i più importanti esponenti dell’animazione europea, abbia dovuto compiere 54 anni per esordire con un lungometraggio. Trent’anni di carriera e più di novecento premi vinti in tutto il mondo. Nessun lungometraggio, almeno fino a oggi.

Il problema principale di Invelle, chiaramente, è che è un film animato. E non è un film animato destinato a un pubblico più giovane. E non utilizza una tecnica di animazione commercialmente affascinante (la più comune è la computer graphic in 3D). Il suo statuto di film animato rigorosamente per adulti apre una riflessione sulla percezione che il pubblico ha dell’animazione. Ma, se proprio vogliamo dirla tutta, anche la critica ha dell’animazione.

Il rapporto tra animazione e la sua fruizione, la sua analisi, è rivelatorio delle difficoltà, causate da un forte pregiudizio, che l’animazione ha sofferto da sempre. Il problema di Invelle è anche nei suoi tempi di racconto dilatati, nei temi che intende affrontare. Tutti elementi che contribuiscono alla sua bellezza, che sono un urlo silenzioso del suo autore verso un pregiudizio nei confronti dell’animazione che, ormai, non dovrebbe più esistere ma che evidentemente influisce pesantemente sulla presenza di un certo tipo di cinema e un certo tipo di animazione in Italia.

Tra sogno e critica sociale

Simone Massi si ispira, come ha sempre fatto, ai grandi maestri russi del cinema autoriale, da Tarkovskij a Sokurov e, rimanendo in ambito animato, a Jurij Norstein. Ma nelle scelte estetiche e poetiche anche a Michaël Dudok De Wit. Massi dilata i tempi del racconto e trasforma l’esperienza filmica in sogno senza rinunciare alla poesia dell’immagine, del suono, delle musiche che compongono l’opera.

Da questo punto di vista, Invelle è un’esperienza visivo-sensoriale a tutto tondo. Il comparto sonoro assume una forma e un ruolo specifici anche grazie alla scelta di usare il dialetto marchigiano, che diventa suono e melodia a se stante. L’elemento visivo, invece, è ottenuto grazie a questo modo di fare animazione che si genera da solchi ottenuti lavorando sui fogli di inchiostro nero. L’immagine, le forme, i corpi emergono dall’oscurità del colore nero e si stagliano in maniera netta (un’operazione estetica non dissimile da quella dell’illustratore Thomas Ott). Massi, anche per questioni di tempistiche produttive molto strette, ha dapprima ripreso gli attori e poi ha disegnato sopra le immagini, lavorando ulteriormente sui chiaroscuri, sulla scelta dei (pochi) colori, ma soprattutto sul montaggio.

Invelle è un film onirico ma è anche un film sui grandi cambiamenti storici del nostro paese e dei suoi effetti sulle singole persone, quelle invisibili che abitano le campagne e le periferie del mondo.

Invelle, infatti, è un film in cui da un’immagine nasce un’altra immagine. Non c’è soluzione di continuità nel passaggio da una sequenza a un altra, tutto è connesso, tutto si autogenera. Il movimento della mdp è persistente, continuo, va avanti e indietro, sopra e sotto, lo spazio, nel film, restituisce una sensazione di infinito, i limiti fisici che solitamente esistono con il cinema live action, qui sfumano fino a scomparire ed è proprio questa scelta stilistica a portare la pellicola nei territori onirici che sono propri del primo David Lynch.

Eppure, nonostante questa tendenza al sogno e alla sua astrattezza, che peraltro agevola i passaggi temporali tra i tre segmenti narrativi, Invelle è legato alla concretezza della vita politica e sociale italiana. Lo è perché è un film sui grandi cambiamenti storici del nostro paese e dei suoi effetti sulle singole persone, quelle invisibili che abitano le campagne e le periferie del mondo. Ma mette in scena anche la grande trasformazione della società italiana, da contadina a operaia.

Qui entra in gioco il secondo fattore che rende Invelle un’opera straordinaria, non solo nel senso di meravigliosa e di valore in termini cinematografici, ma anche di unicità nel panorama del contesto animato italiano (che per inciso, non esiste). Simone Massi, infatti, ha scelto di vivere proprio in quei territori che racconta. Vive la vita contadina, di periferia, quella ai margini delle luci delle città. Ed è in quella vita, in quella scelta drastica, utopica e meravigliosa che si nasconde il cuore pulsante di Invelle. Nella volontà di vivere in un piccolo borgo, in un paesino di poche anime, per lo più donne e bambini, Massi fa una scelta che è politica e che si riversa nel suo film. Ed ecco che, in un’epoca in cui tutto deve correre, tutto deve essere veloce, a partire dalla fruizione delle cose (dagli audio di whatsapp alle puntate di una serie tv), un film come Invelle diventa paradigma di una posizione esistenziale che ci spinge a riflettere sulla nostra storia, sul nostro sguardo e soprattutto su noi stessi. 


Andrea Fontana

È nato a Genova nel 1981 e scrive di cinema e di animazione. È autore di numerosi libri tra cui La bomba e l’onda, Studio Ghibli (Bietti edizioni), Satoshi Kon (Mimesis). È autore del fumetto Clara e le ombre disegnato da Claudia Petrazzi (Il Castoro) e di Mostropedia, scritto con Sebastiano Barcaroli (Moscabianca edizioni).

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