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Immaginare lo sguardo dei bambini

Raccontare una storia dal punto di vista di chi non ha tutti gli strumenti per capirla, e può rielaborarla o leggerla in modo inedito. Per questo tante narrazioni seriali mettono al centro i più piccoli.

“Non si può credere a una cosa impossibile”, afferma Alice convinta, pronta a spiegare come funziona il mondo, quello reale e ricco di senso logico, alla Regina di Cuori che di rimando replica: “Oserei dire che non ti sei allenata molto. Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz’ora al giorno. A volte riuscivo a credere fino a sei cose impossibili prima di colazione”. La storia creata da Lewis Carroll è di solito ritenuta un racconto del rito di passaggio, del percorso da fare, ostacolato da paure e incomprensioni, per arrivare all’età in cui tutto è stato spiegato e la propria identità inizia ad avere una direzione definita: si diventa socialmente adulti. La Regina di Cuori, che appartiene al Paese delle Meraviglie, un mondo acerbo e senza vie di mezzo, ricorda che da giovane era capace di concepire l’impossibile, che non è comunque scontato e dato dalla nascita, e che se Alice fallisce è solo perché sta diventando troppo grande, sta cambiando. L’adulto perde tempo a cercare di razionalizzare ciò che ha intorno a sé, incapace di riallacciarsi all’immaginazione e vedere il mondo in modo nuovo, coglierne aspetti meno banali.

Con gli occhi di un bambino

La serialità televisiva recente ha fatto scelte simili riguardo al bambino e al suo sguardo, rendendolo testimone di storie comprensibili dagli adulti ma inspiegabili per il protagonista che, quindi, intraprende un percorso di ricerca delle risposte, pur non avendo chiare le domande. Rappresentare in questo modo i problemi di una famiglia, un Paese o un evento politico diventa meno ovvio se la strada verso la soluzione è percorsa da chi crede ancora nell’impossibile. È lo stratagemma narrativo e simbolico dei Goonies in cui sono i protagonisti stessi ad aver creato e concluso “la caccia al tesoro”, e anche i suoi intralci. 

Il sesso, la nascita di un neonato, l’avere un gemello, la molestia, il litigio tra i genitori o rumori nuovi e mai sperimentati sono solo esperienze in cui i bambini sono privi di riferimenti a cui appoggiarsi. Tales from the Loop aumenta esponenzialmente il significato di metafora. Un robot come compagno di giochi o la propria casa che si sfalda pezzo per pezzo sfidando la forza di gravità sono elementi del reale, ma spiegati con i mezzi a disposizione di un bambino.

Diverse serie sono un esempio più o meno riuscito di questo espediente narrativo, a cominciare da due diversi titoli Netflix, Stranger Things e Dark. Grande successo mondiale e ormai già cult, Stranger Things è un’operazione nostalgia, ma si basa quasi tutto su cosa sia gioco e cosa invece sia realtà. L’immaginazione dei protagonisti esce dalle mura di una piccola stanza nel seminterrato e diventa una guerra tra pochi personaggi con diverse capacità, a partire da Undici. Tempi di fine della Guerra Fredda e di scontri tecnologici tra Russia e Stati Uniti, la serie dei fratelli Duffer è la raccolta dello sci-fi anni Ottanta e degli appassionati di Dungeon & Dragons. I protagonisti, impossibilitati a capire come possa sparire un bambino, cosa facciano gli scienziati e i militari o perché si venga rifiutati da un genitore, non solo comunicano tardi con gli adulti di riferimento, che entrano nel gioco non appena invitati a credere, ma ribaltano il loro paesino del Midwest americano (“Upside Down”) per dare qualche spiegazione alla paura, all’ansia, all’abbandono. È esplicito l’accostamento tra i giochi di ruolo e l’adesione alla realtà, tanto che Will, nella terza stagione, arriva a ricordare agli amici quasi adolescenti che non hanno finito di giocare e, anzi, ci sono nuovi nemici da sconfiggere.

Dark invece è una prova eccellente di quanto adulti e bambini possano arrivare ai medesimi ragionamenti partendo da posizioni diverse. La serie ruota tutta attorno a Mikkel e all’inspiegabilità della sua morte e sparizione, preceduta, negli anni, da altre sparizioni e morti. La confusione creata dalla co-esistenza di umani e nucleare dà modo allo show di giocare sull’ambiguità del tempo e delle relazioni. Sembrerebbe di trovarsi di fronte a una storia solo legata alle teorie spazio-tempo, ma se si ribalta il punto di vista e si mettono al centro il bambino e l’adolescente (Jonas) Dark può essere un tentativo infantile di concepire l’infanzia dei nostri genitori, il fatto che anch’essi siano stati bambini e siano nati, in qualche modo. 

Spiegare la vita, razionalizzare la morte: si nota anche in His Dark Material (HBO), tratta dalla trilogia di Philip Pullman, che racconta di complicatissimi rapporti tra Chiesa e Stato, del concetto di anima e delle “macchie” (o rimorsi) che l’adulto, inevitabilmente, avrà nella sua vita. La storia, però, non ha una voce narrante che conosce già come funziona il mondo, poiché Lyra Belacqua non solo viaggia con poche informazioni e va a tentoni, ma parla con ciò che si potrebbe definire un amico immaginario – il suo doppio (al maschile) – ed è terrorizzata all’idea di perdere quello spazio esclusivamente suo. 

Non solo fantascienza

Chiaramente i generi fantasy e sci-fi riescono bene nel compito di legare il probabile e l’impossibile al reale, ma non sono i soli. La visione della Regina di Cuori e quella di Alice si intersecano anche in contenuti dichiaratamente drammatici e realistici, come avviene nel caso del primo episodio de L’amica geniale (co-produzione Rai e Hbo). Chiamato “Bambole”, si allontana dal libro di Elena Ferrante per un dettaglio piccolo ma fondamentale: Lila e Elena non sanno e non comprendono il ruolo di Don Achille nel rione, quindi lo trasformano in un mostro grande e spaventoso, che fa sparire oggetti e persone con la sua borsa nera. Il perché quest’uomo esista e faccia paura si intuisce, ma la scomparsa delle bambole in una cantina è il modo in cui le bambine danno (anche) un senso e un volto all’usura. Un breve sguardo in primo piano e un’espressione di stupore sul viso sono gli espedienti con cui far capire allo spettatore che Lila ha trovato le bambole e, con queste, una spiegazione adulta e razionale all’evento. Succede, quindi, che Lila sia già entrata nella fase del disincanto rimanendo bambina solo nel corpo perché ora sa la verità.

Sembrerebbe di trovarsi di fronte a una storia solo legata alle teorie spazio-tempo, ma se si ribalta il punto di vista e si mettono al centro il bambino e l’adolescente Dark può essere un tentativo infantile di concepire l’infanzia dei nostri genitori, il fatto che anch’essi siano stati bambini e siano nati.

La scomparsa (di un oggetto totem, di un familiare) diventa quasi elemento costitutivo della storia fantascientifica con protagonista il bambino, forse da intendere come elemento essenziale per l’inizio dell’avventura. Il mistero da affrontare per trasformare l’ignoto in noto, se raccontato da una persona non adulta, può anche essere fatto di piccole cose quotidiane e semplici. Simon Stälenhag, l’artista dietro Tales from the Loop (libro e poi serie su Amazon Prime adattata da Nathaniel Halpern), intervistato, ha detto varie  volte di voler sfruttare il genere sci-fi per mostrare con chiarezza la visione dell’infanzia sul mondo. Tutto quello che riteniamo inspiegabile, o assurdo, potrebbe avere un senso nella testa dei bambini, così come, al contrario, la normalità adulta può essere priva di qualunque spiegazione. Il sesso, la nascita di un neonato, l’avere un gemello, la molestia, il litigio tra i genitori o rumori nuovi e mai sperimentati sono solo alcune delle esperienze in cui i bambini sono privi di riferimenti a cui appoggiarsi. Di conseguenza, il loro mondo è perfetto come sfondo di una trama fantascientifica. Tales from the Loop aumenta esponenzialmente il significato di metafora. Un robot come compagno di giochi o la propria casa che si sfalda pezzo per pezzo sfidando la forza di gravità sono elementi del reale, ma spiegati con i mezzi a disposizione di un bambino.

Loretta Willard, interpretata da Abby Ryder Fortson e Rebecca Hall, si trova di fronte all’inevitabile ricerca del perché sia stata abbandonata e, nel confronto con il suo riflesso, crede di essere in un loop. E se i robot del Loop fossero semplici trattori nei campi, o se i dirigibili e le luci fosforescenti fossero insegne di negozi, disegni, aerei o palloncini? La serie Amazon ha diviso i suoi spettatori e i critici: da un lato bellissima, visivamente perfetta, dall’altro vuota di contenuto e mordente. Sono vere entrambe le valutazioni, ma la percezione che non ci sia storia e che il fascino della robotica e del retrofuturismo non siano sfruttati è dovuta anche a questo sguardo infantile, che non arriva immediatamente. Bisognerebbe solo accettare che una grande sfera mai vista prima e le porte socchiuse da cui escono i bisbigli degli adulti siano parte del gioco e della fantasia dei protagonisti, che nulla sia vero (per quanto “vero” sia un contesto sci-fi). 
Non si tratta, quindi, di suscitare sensazioni di ansia e paura, o di spiegare certe dinamiche sociali, come avviene con Black Mirror. Arkangel è l’episodio con protagonista una bambina, girato da Jodie Foster come anche l’episodio conclusivo di Tales from the Loop, Home, ma in questo caso non viene dato nessun tipo di potere d’azione al minore e quindi l’occhio è totalmente adulto, oltre che sadico. Non esiste fantasia, ma solo distopia tecnologica. Qui l’infanzia è un mero strumento per raccontare fino a dove si spinge il controllo su un altro essere umano, con la convinzione di poterlo governare per tutta la vita. Laddove, invece, lo sguardo infantile è un modo per spiegare quello che non ha una logica “adulta”, il bambino è davvero il centro dell’azione e il motore che permette alla storia di esistere e, magari, di sorprenderci.


Clara Ramazzotti

Ha lavorato per sei anni come Social Media Specialist e Strategist a Milano, ora è PhD, freelance contributor e insegnante a New York. Caporedattore di riviste culturali, laureata in Scienze Storiche, ex-blogger, appassionata di cinema e serie tv distopiche. Scrive per Vanity Fair Italia, Esquire Italia, Wired Italia e Il Tascabile. È anche volontaria presso il Festival della Letteratura di Mantova.

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