Sembrava il futuro della pubblicità, il sacro Graal del trovare sempre il pubblico giusto. Ma non è tutto oro quello che luccica. In attesa che questa forma di spot arrivi in tv, capiamone meglio i limiti.
C’era una volta la contrattazione svolta dagli umani. Io, investitore, chiamavo lo scaltro venditore di spazi pubblicitari, il concessionario, e prenotavo le cosiddette “uscite”. La metonimia si reggeva sull’uscita del giornale dalle edicole, ovviamente. In realtà, nella gran parte dei casi, era il venditore a chiamarmi con una certa insistenza: perché c’era qualcosa da prendere subito, a un prezzo eccezionale, e ogni volta la causa dell’occasione era diversa: “sai devo chiudere il trimestre”, o “abbiamo un buco, in pratica te la regaliamo”, o le meno credibili “è una promo per i clienti più affezionati”. Il mio algoritmo era fare due o tre conti rapidi: costo diviso diffusione (e percentuale dei lettori che potevano essere considerabili potenziali clienti). Chiedevo un ulteriore sconto, ovviamente accordato con variabile finta sofferenza del venditore, magari lui rilanciava per avere un’uscita in più che mi avrebbe però concesso a prezzo di ulteriore favore, e l’accordo era fatto. Poi si andava in edicola il giorno dell’uscita, trattenendo il respiro per ogni errore irreparabile, lo si ritagliava e – mia tradizione – la mettevo in una busta trasparente sulla scrivania del capo.
Sembra passato un secolo. In realtà è un quarto di secolo, a esser precisi. E il sistema di mercanteggiamento tra media, intermediari e investitori non è nemmeno del tutto estinto ancora oggi, in cui rimane per progetti speciali, spot tv, pagine premium e home page dei principali giornali online. Tuttavia, nel 2022, la modalità digitale di transazione è diventata ubiqua: i giocatori puntano sulle aste, le macchine fanno i prezzi, riempiono gli spazi dinamicamente, generano i testi, scelgono le foto, auto-ottimizzano il target, misurano le conversioni. In un certo senso, sono ormai felicemente fuori controllo da parte degli investitori, e molto spesso dei centri media, che non hanno più molto da transare, in un processo che ha via via eliminato tutti gli intermediari tradizionali, sostituendoli però con altri. Tutto questo si chiama programmatic advertising.
Automatismi
Oggi chiunque può comprare una campagna con 100 euro o meno in giro per la rete (di solito banner, così facili e flessibili da incastrare in qualunque app o sito da essere l’oggetto più reietto e al tempo stesso più di successo della storia di internet). Si apre Google Ads, si dice a Google qual è il proprio sito, si inseriscono immagini e testi, e l’intelligenza artificiale fa il resto. Cosa vuoi?, ci chiede Google. Essere conosciuto? Avere tante visite? Google si mette all’opera, non ci dice quanto costa (solo all’incirca), ma ci promette un risultato. Come lo fa? Non ci deve interessare. Forse nemmeno qualcuno di umano in Google lo sa.
I marketer digitali si sono abituati, o forse sono nati già con questa visione, allevati dalle piattaforme fin da piccoli. Non sanno dove stanno facendo pubblicità e non gli interessa. Perché guardano al risultato, come nello spot di un noto brand di cosmetici. Le piattaforme ci hanno insegnato a focalizzarci sui risultati a cui dovevamo puntare. Clic, view, engagement, reach, impression. Soprattutto impression.
Il programmatic ha aperto qualsiasi sito del mondo a qualsiasi investitore, a scapito del controllo sul luogo in cui la pubblicità era pubblicata. In quale parte remota dell’universo digitale sto inseguendo il mio quasi cliente che ha abbandonato il carrello? Non lo so e non lo voglio sapere, si è pensato a lungo. Il giocattolo era così facile e bello, l’odioso venditore trasformato in un arnese da pensione, era tutto un proliferare di targeting, Kpi, ottimizzazione del costo a visualizzazione, sceso a livelli così bassi da far sospettare qualcuno che qualcosa non fosse del tutto chiaro. Da un po’ di tempo gli investitori hanno però perso l’entusiasmo e sollevano perplessità. In particolare tre problemi: controllo dei siti finali in cui arriva il messaggio, misurazione dei risultati e dei costi, controllo delle frodi. Andiamo in ordine: prima il controllo.
La potenza è nulla senza controllo
Durante i primi giorni della guerra in Ucraina, Dunkin Donuts ha scoperto che i propri annunci erano mostrati sui siti propagandisti russi, andando così indirettamente a finanziarli. Google ci ha messo molto tempo per riuscire a bloccarli, e probabilmente il sistema è così complesso che potrebbe non riuscirci del tutto. La lista dei siti che usano Google come “venditore” non è pubblica. In termini tecnici, non sappiamo bene chi siano i due milioni di siti finanziati con advertising da Google, al contrario di altri marketplace come Amazon. (Paradossalmente questo sistema è stato usato per comprare advertising su siti russi da parte di associazioni free-speech attraverso banner informativi sulla situazione reale: i banner in programmatic erano l’unica fonte che sfuggiva alla censura, per qualche settimana). Il programmatic advertising opera come un mercato puro, e infatti in gergo viene definito come “exchange”. La particolarità stupefacente di questo mercato è che Google è sia venditore sia il più grande battitore d’asta. L’advertising online, largamente programmatic, muove 700 miliardi di dollari all’anno ed è allo stesso tempo un mercato perfetto in senso macroeconomico (domanda e offerta si incontrano, e null’altro conta) e un mercato opaco quando si tratta di capirne gli scambi, dove si fermano i soldi tra gli intermediari, su quali siti finali finiscono.
Si apre Google Ads, si dice a Google qual è il proprio sito, si inseriscono immagini e testi, e l’intelligenza artificiale fa il resto. Cosa vuoi?, ci chiede Google. Essere conosciuto? Avere tante visite? Google si mette all’opera, non ci dice quanto costa (solo all’incirca), ma ci promette un risultato. Come lo fa? Non ci deve interessare. Forse nemmeno qualcuno di umano in Google lo sa.
Non si tratta solo di siti di aperta propaganda e fake news. Il programmatic sta finanziando una progenie di siti in cui il contenuto è chiaramente solo un ripieno di infima qualità per la pubblicità, una generazione di siti che si procaccia traffico con il clickbait sistematico, spesso premiati con traffico ulteriore proprio da Google News e simili. Notizie come “Carlo Conti è guarito! Le prime foto dopo l’ospedale” sono delle trappole per poi scoprire che il personaggio di turno è semplicemente andato a farsi una visita di controllo (sempre che questo sia vero). Probabilmente non è positivo per il brand apparire in certi siti. La brand safety, come il marketing definisce con la solita enfasi l’apparizione di pubblicità a fianco a contenuti discutibili, non è ancora al centro dei pensieri degli investitori meno informati. Controllare due milioni di siti non è facile, si giustificano Google e gli altri: qualche fake news, falsificazione, armi, propaganda neonazista può capitare.
La misurazione dei risultati rispetto ai costi è sempre stata venduta dagli operatori come il silver bullet del programmatic rispetto “ai vecchi tempi” dell’opacità e della trattativa. Voglio far conoscere il mio prodotto alla maggior parte dei consumatori in target. Il marketer pensa “branding”. Ma è nei dettagli che spesso si annida il demoniaco problema: l’obiettivo che Google e le altre ci propongono non è “branding”, è “visualizzazione”. Il programmatic dev’essere sempre letto in senso letterale. E il visitatore incauto incuriosito dalla notizia vip-ospedaliera ha comunque visualizzato il banner. “Io guardo il risultato”, direbbe il marketer che ha investito in quel banner. Buona parte dell’advertising in programmatic dovrebbe in teoria creare branding, cioè memorizzazione e rinforzo del marchio, non è quindi teso a vendere o portare gente sul sito del brand. Questa indeterminatezza del risultato apre però il varco della valutazione del costo della visualizzazione come parametro più importante nella scelta di come investire i propri budget per fare branding. E dove trovare i costi più bassi in assoluto? Non certo sui banner dei siti “di qualità”. Posso raggiungere il mio target molto più economicamente mentre sta visitando il Corriere della Seta, un dominio scaduto e comprato da qualche cybersquatter o un sito composto di contenuti copiati o generati in automatico. E Google può proporre queste visualizzazioni a un costo infinitesimo.
Il marketer che non si fa troppe domande (e non viene valutato sul reale branding apportato) è molto contento. Lui ha risparmiato sul budget, Google ha intermediato, il sito scadente ha comunque guadagnato, visto che non ha costi in pratica. Il programmatic ha plasmato, in buona parte, il tipo di informazione online gratuita (dal fake fino al mediocre) che vediamo oggi, e anche le famose “colonnine morbose” di ex compassati giornali online. Non sappiamo ancora se apparire in siti spazzatura danneggi i brand, come ha danneggiato l’editoria, ma probabilmente sì. L’arbitraggio, l’equivoco tra misurazioni offerte e veri obiettivi sono alla base del successo (e della crisi) del programmatic. Perfino la visualizzazione di tre secondi, da vari studi, è stata giudicata sostanzialmente ininfluente ai fini del ricordo di marca. Ancora meno, dunque, è l’impatto della impression minima, definita come “più del 50 percento dei pixel in un annuncio pubblicitario visualizzato in una pagina del browser almeno per un secondo”.
Mirare sul target
Ma all’orizzonte del programmatic è comparso presto un altro fattore importante di vendita e adozione: il culto dell’industria per le nuove possibilità di targetizzare le persone, foriere di messaggi one-to-one basati sul tracciamento (qualcuno scrive sorveglianza) digitale. Sì, perché se il programmatic distribuisce pubblicità in venti milioni di siti e più, dallo stesso campione, contemporaneamente raccoglie dati. La micro-targetizzazione è (stata) il sogno proibito che avrebbe dovuto far arrivare il messaggio giusto al target giusto al momento giusto: il sacro Graal del marketing, da sempre. E questo sogno la nuova industria del programmatic se lo fa pagare caro: il vecchio intermediario è stato sostituito da nuovi operatori, nuove pipeline e raffinerie digitali che promettono di mixare, selezionare, affinare il target, di distribuirlo al giusto interlocutore. E se il costo dell’advertising sale per gli inserzionisti nel contempo la quantità di budget che va al produttore di contenuti si assottiglia: naturalmente, Google ha un ruolo anche in queste operazioni di raffinazione. Google possiede i giacimenti, gli oleodotti, le raffinerie e pure buona parte dei distributori di benzina. Dal 20 al 60% del costo del programmatic va agli intermediari – molto di più del vituperato agente di concessionaria.
L’advertising online, largamente programmatic, muove 700 miliardi di dollari all’anno ed è allo stesso tempo un mercato perfetto in senso macroeconomico (domanda e offerta si incontrano, e null’altro conta) e un mercato opaco quando si tratta di capirne gli scambi, dove si fermano i soldi tra gli intermediari, su quali siti finali finiscono.
In ogni caso, questa fee opaca di raffinazione del dato dovrebbe comportare almeno un aumento importante della produttività della pubblicità del targeting apparentemente più preciso: altri studi hanno messo in dubbio questi vantaggi, con performance migliorate solo del 4-7%. Del resto anche i dati di base raccolti sembrano poco accurati, o poco rappresentativi. Uno studio recente ha messo in evidenza come l’algoritmo pubblicitario di Facebook avesse confuso l’interesse per Apple con quello per le mele, e in generale gli interessi assegnati agli utenti dalla piattaforma fossero inaccurati nel 33% dei casi. Qualche anno fa, un altro studio, questa volta del Mit, ha rivelato che i dati di terza parte forniti dai data broker non riuscivano a indovinare il genere dei profili per più del 50% delle volte: come tirare a testa o croce.
Per ultimo, c’è anche tanta frode nel programmatic, come in tutto il web. Non solo nelle visualizzazioni, ma perfino nei clic. Un mio mentore digitale anni fa mi disse: “Solo le vendite sono certe, online”. E a volte nemmeno quelle, come mi accorsi osservando strane transazioni dalla Transilvania. 70 miliardi di dollari di frodi dell’ads online sono generati ogni anno da bot network e inconsapevoli utenti hackerati, farm di smartphone stoccati in scantinati a Oriente e non solo, fabbriche di clic e fan varie a basso costo umano, per un totale di circa il 10% del valore di tutto il settore. Il 38% del traffico non è umano, in senso stretto. A volte i famosi “siti di scarsa qualità” si costruiscono anche il proprio traffico, pacchetto completo, attraverso reti di bot, scambi di link, redirect subdoli.
E quindi, che fare?
Con occhi innocenti, viene da chiedersi: se il programmatic non ha risposto alle aspettative, perché continuare a investire? La risposta può avere vari angoli di visione. La più importante è che non c’è reale alternativa. Per un investitore arrivare a fare massa critica velocemente e senza troppe frizioni organizzative, il programmatic rimane l’unica strada percorribile. E, in un certo senso, il programmatic è anche ciò che tiene in vita siti “buoni”, oltre ai siti spam e fake. Eliminarlo significherebbe buttare il bambino con l’acqua sporca. Le richieste dei principali investitori, P&G tra i primi, di capire dove vanno i soldi nel processo di estrazione e raffinazione hanno avuto poco effetto. In questo modello, la coda lunga degli inserzionisti pesa molto più della testa. Non basta che Mondelez e P&G smettano di spendere: al settore rimane comunque il 99% degli incassi, e lo spazio vuoto sarà in ogni caso riempito da un implacabile robotizzato battitore d’asta tra i partecipanti rimanenti. Mi diceva un marketing manager tempo fa: “paradossalmente dobbiamo arrenderci a valutare l’advertising basata sui dati con un po’ di sano buon senso e scetticismo”.
In un recente articolo su Martech.org ci si chiedeva se l’industria sia davvero incentivata a limitare le frodi. “Il problema non è stato risolto perché le persone non vogliono risolverlo. […]. Gli inserzionisti che pagano vogliono acquistare centinaia di miliardi di impressioni pubblicitarie. Non puoi comprare così tanta quantità senza la frode. La maggior parte degli esseri umani visita ripetutamente una piccola quantità di siti (i più noti, ndr). È lì che ottieni le grandi quantità di pubblico umano. Quando entri nella coda lunga non ci sono abbastanza umani per generare così tante impressioni pubblicitarie. L’unico modo per farlo è utilizzare l’attività bot per caricare ripetutamente le pagine web e così il caricamento degli annunci. Di conseguenza, praticamente ogni intermediario, ogni exchange, ogni editore ha incentivi a utilizzare maggiormente le frodi (o almeno a combatterle blandamente, ndr). […] Anche gli inserzionisti, anche gli intermediari. Tutti vogliono che continui perché stanno facendo soldi. Le principali persone danneggiate sono gli editori. Quindi i grandi editori, i giornali, ora non possono competere con i siti fake”.
E perché gli inserzionisti non si ribellano? Continua l’articolo: “Non lo sanno (o fanno finta di, ndr). Pensano di ottenere visualizzazioni perché ricevono fogli di calcolo Excel che dicono loro quanti annunci hanno acquistato e quanti clic hanno ottenuto. Non si pongono la domanda. ‘Quelle pubblicità reali sono viste da persone reali? E quei clic sono reali?’”. All’orizzonte altri problemi non mancano: la prossima dismissione del cookie di terza parte, quello che incrociava i dati nelle nostre navigazioni web, assieme al blocco dei tracciamenti da parte di Apple nelle app, mette in discussione l’impianto del programmatic. Sono state proposte nuove soluzioni di tracciamento, ancora in discussione, che in generale puntano a offuscare il tracciamento individuale a favore di cluster più allargati e generici. Ancora meno precisione nel targeting, probabilmente, ci aspetta, e ancora più concentrazione nelle mani di Google dell’advertising in rete.
La mia previsione è che, come un’araba fenice, il programmatic supererà anche questo ostacolo, perché smontare il giocattolo, alla fine, non conviene a nessuno, nemmeno agli inserzionisti scettici, o ai publisher a cui rimangono le gocce degli investimenti, ma sempre più rivolti a modelli di abbonamento e paywall, con il programmatic come utile integrazione dei ricavi. E poi, a portata di mano e di incassi c’è la programmaticazione della tv connessa, in cui l’inserzionista, nella visione finale, potrà automaticamente inseguire il target dal suo pannello di controllo fino a ogni anfratto di serie, telegiornale, partita di calcio, documentario, televendita o replica di Pretty Woman purché la fruizione sia collegata alla rete (cosa non lo sarà?). Rimane da vedere se i grandi broadcaster cadranno nella stessa trappola in cui sono caduti in passato i grandi editori. Del resto, come mi ripeteva l’agente della concessionaria: “dove ci sono occhi ci sarà pubblicità, il resto è un dettaglio”. Chissà se vale anche per gli occhi dei bot che guarderanno serie in streaming per aumentare le visualizzazioni di inserzioni automatizzate.
Gianluca Diegoli
Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.
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