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Il mito del film lungo

I creativi vogliono liberarsi dai vincoli che ingabbiano le loro idee. Ma quando questi saltano o cambiano, come con le piattaforme digitali, non è mica detto che tutto sia più facile.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 25 - Contro la tv. Venticinque miti da sfatare del 06 dicembre 2019

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Una retorica sempre più utilizzata per raccontare la storia del mezzo televisivo è quella di fare riferimento all’evoluzione raggiunta dai suoi contenuti, con particolare riferimento alle serie televisive. Al centro di questa retorica c’è una parola magica – libertà – che combinata con un’altra parola magica – creatività – è in grado di sollecitare anche la persona più insensibile alle narrazioni seriali. Secondo questa retorica, la televisione nell’era della sua riproducibilità digitale ha abbattuto così tante regole che imbrigliavano i suoi autori da permettere loro di dare forma alle invenzioni più incredibili, un tempo relegate nell’archivio delle idee abortite, rigettate, ostracizzate. Tale incedere luminoso inevitabilmente ha degli eroi. A volte sono persone, David Lynch per esempio, a volte sono aziende televisive, come Hbo. Lottando contro le regole imposte dai burocrati dell’Industria, stracciando le consuetudini incancrenite da anni di pedissequa ripetizione, l’eccezione si è fatta norma. Grazie a loro è possibile concepire una serie per una nicchia, che sovverta non solo il linguaggio ma anche la struttura di base della serialità, fino a creare un ibrido irresistibile e mostruoso ancora privo di nome (a proposito, prima o poi dovremo trovargliene uno se vorremo domarlo) che i più chiamano “film lungo”.

Le regole della vecchia tv sono un traditore e un cane da strangolare

Scelgo due momenti per dare conto di questa dinamica. Il primo appartiene a I Soprano, il secondo a House of Cards. Sono in concreto due sole scene.

Siamo appena al quinto episodio della prima stagione, Tony Soprano lascia la città per accompagnare la figlia nel Maine a scegliere il college. È una puntata intima, in cui Tony è soprattutto un padre che cerca di stabilire una relazione con la figlia – consapevole da poco del modo in cui si guadagna da vivere. Lungo la strada si ferma a fare rifornimento e crede di riconoscere un ex affiliato che ha tradito la Famiglia dopo l’arresto per traffico di eroina. Verifica l’identità del traditore mentre è diretto al Colby College, lo segue e lo strangola a mani nude. Oggi ci può sembrare accettabile, ma nel 1999 era una palese violazione della regola per cui il protagonista non può uccidere un uomo, pena l’alienazione delle simpatie del pubblico. Nel caso di “Un conto da saldare”, titolo dell’episodio, l’ammazzamento è ancora più sconvolgente per il piacere esibito dal protagonista nel commetterlo, unito alla mancanza di conflitto interiore di fronte alla scoperta che il traditore si è rifatto una famiglia e ha, pure lui, una figlia. Quando Chris Albrecht, allora capo dei contenuti di Hbo, e uno dei principali artefici della rivoluzione operata dalla rete cable, lesse la sceneggiatura chiese infuriato a David Chase per quale sciagurata ragione avesse deciso di inserire un omicidio totalmente gratuito che avrebbe fatto perdere spettatori alla serie. Chase difese la scena, sostenendo che se anche non aveva una funzione narrativa principale era necessaria per dar conto di come vanno le cose nel mondo dei Soprano: chi canta muore, questione (d’onore) chiusa. Chase propose di posticipare l’episodio per dare tempo ai protagonisti di entrare nelle grazie del pubblico; Albrecht si oppose e chiese di tratteggiare il traditore a tinte più fosche, togliendo magari la storia della figlia, di modo che la sua morte fosse più accettabile. Alla fine, sappiamo com’è andata: Albrecht si convinse e contribuì – ecco la retorica all’opera – a cambiare, per sempre, la storia della tv (lo racconta Brett Martin in Difficult Men).

La seconda scena riguarda ancora una morte per strangolamento, ma questa volta la trachea è quella di un cane. Frank Underwood fa la sua comparsa sullo schermo (il formato decidetelo voi) proprio così, soffocando la bestiola dei vicini. A proposito di questa scena, Beau Willimon, head writer della serie, ha dichiarato che i dirigenti Netflix, perlomeno quelli di estrazione televisiva, lo avevano ammonito: “Non puoi ammazzare un cane, o perderai metà degli spettatori nei primi trenta secondi”. Per poi aggiungere: “Allora sono andato da Fincher e gli ho detto: ‘Senti, a me questa scena di apertura piace molto. Credo che sia perfetta come inizio della serie. Secondo qualcuno, però, se ammazziamo questo cane perdiamo metà degli spettatori. Che cosa ne pensi?’ Lui ci riflette un attimo e mi dice: ‘Me ne sbatto’. E io gli dico: ‘Anch’io’. E lui: ‘Allora facciamolo’”. 

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E un’altra regola non scritta della tv classica è stata strangolata sotto gli occhi degli spettatori, partecipi della smania omicida di Tony Soprano e Frank Underwood.

Nelle due scene abbiamo visto saltare limiti di ogni sorta, di linguaggio e di quello che è considerato tollerabile mostrare al pubblico, fino ai dettami più elementari del business televisivo commerciale. Ma la domanda è: fino a che punto si può far strame dei limiti senza perdere lo specifico della creatività seriale? E poi sarà vero che, abbattuti alcuni vincoli, non ne sorgano altri a dare forma al contenuto?

Hollywood Unbound

Il principale mito fondativo di Netflix in quanto produttore di serie originali è stato l’algoritmo. La mole ciclopica di dati raccolti non serve solo a raccomandare quali programmi guardare ma anche come costruire quegli stessi programmi. Com’è noto, le prime due stagioni di House of Cards sono state messe in produzione senza neppure il pilot. Un investimento da 100 milioni di dollari fatto da Los Gatos sulla base dei dati di fruizione raccolti negli anni precedenti. Un’altra regola, questa volta legata al processo di selezione/produzione, sovvertita in nome di un nuovo paradigma che, attraverso la scienza del dato, prometteva la nascita dell’utopistica macchina per la creazione dei bestseller, o qualcosa di molto simile. Come logica conseguenza del paradigma data-driven ci si sarebbe aspettati una maggiore varietà di narrazioni e di generi, ma anche una stretta alla libertà creativa degli autori, chiamati a confrontarsi di continuo con le raccomandazioni di uno showrunner ex machina. Ciò che si prometteva era una versione controllabile e ingegnerizzata del processo creativo. Tuttavia, le cose sono andate diversamente. Per continuare a crescere Netflix aveva bisogno di nomi famosi, registi e showrunner all’apice del successo hollywoodiano – Shonda Rhimes, Ryan Murphy, Baz Luhrmann, Martin Scorsese, i fratelli Coen, David Fincher, tra gli altri. E così i competitor (Amazon, Apple), seppur con meno ansia: Refn, Allen, Weiner, Spielberg.

Fino a che punto si può far strame dei limiti senza perdere lo specifico della creatività seriale?

Ma i grandi nomi, oltre a big money, vogliono la massima libertà creativa. Il contrario dell’algoritmo. La prima cosa che fanno notare a chi chiede loro conto di come sia lavorare per Netflix è di solito l’euforica mancanza di note di redazione e la disponibilità di budget impensabili fino a qualche anno fa (The Get Down di Luhrmann è costato 10 milioni a episodio). Insomma, realizzano senza alcuna interferenza quello che pensano, con il risultato di esaltare le proprie doti ma anche i propri difetti. Tra le serie uscite dal genio dei grandi nomi non si rammentano a oggi casi di successo e di valore in termini di evoluzione narrativa. È un’affermazione di grana grossa, esistono certo eccezioni ma non sufficienti a dimostrare che questo modello oltre a essere funzionale al business dello streaming e all’ego dei grandi nomi lo sia anche alla creazione di serie capaci di lasciare un qualche segno nell’immaginario.

Giunti nella terra delle opportunità, ottenuta la libertà creativa, tolto il giogo di un primo episodio dove presentare in nuce la serie e il vincolo della struttura a quattro atti dettata dall’esigenza di inserire gli spot pubblicitari, eliminato l’insensato obbligo del cliffhanger a fine episodio e anche quello, almeno morale, di raggiungere quota 100 episodi per accedere al vantaggioso circuito di syndication, tolto tutto questo, gli autori hanno potuto fare esperimenti, talvolta interessanti, più spesso dal fiato corto. Nella gran parte dei casi l’assenza di vincoli ha generato una diluizione dei tempi narrativi, un’uniformità interna del ritmo, una riduzione dello spazio della narrazione – oggi Tredici si intitolerebbe Otto – e un orizzonte di vita di una o due stagioni al massimo, condiviso dal modello industriale e dall’agenda fittissima degli autori più capaci. In pratica, ecco il “film lungo”. Non serve citare Too Old to Die Young di Nicolas Winding Refn, che sembra un film di Refn rallentato; anche la prima attesa produzione di Ryan Murphy per Netflix, The Politician, soffre degli stessi limiti e dello stesso impoverimento della vena seriale.

Pare che gli autori siano colti all’improvviso da una sindrome che potremmo chiamare “di Tarantino”, per cui giunti all’apice della propria carriera, affermata l’unicità del loro stile tramite opere importanti, si sentano legittimati alla costruzione di una personale Neverland dove mettere in funzione tutti insieme i congegni che amano, senza inibizioni, nello spazio protetto di una proprietà privata. Ma è proprio quel senso del limite, quella dialettica incessante e spesso aspra, fatta di rabbia, odio e furia con l’industria, con i produttori e i committenti, che ha permesso loro di creare serie (e film) indimenticabili.

Le nuove regole

Torniamo a David Chase che lotta con Chris Albrecht: senza quella dinamica non avremmo avuto i Soprano e nemmeno Hbo. Chase, lasciato libero di fare quello che voleva, avrebbe scritto un film ispirato ai tanto amati registi della New Hollywood, mai certo una serie – veniva da Simon and Simon e odiava la tv. Senza Amc a contenere gli eccessi di Matthew Weiner non avremmo avuto Mad Men. Pensate a come queste serie, e tante altre, titoli molto diversi tra loro, Breaking Bad, Lost, Shameless, Misfits o This is Us, abbiano risposto all’esigenza di un primo episodio perfettamente riuscito, giocando con i limiti, girando attorno a essi, senza romperli, creando variazioni nello stesso set di regole. La luce speciale che li avvolge proviene da qualcosa di molto primitivo come la paura, la voglia di superare i limiti e la lotta per la sopravvivenza: o funziona, o tutti a casa. Non ci sono due stagioni già in cantiere. Non c’è nessun divano su cui mettersi comodi. La creatività ha bisogno tanto della libertà quanto di confini. In special modo quella televisiva, che ha sempre una natura collettiva ed è sempre una forma di creatività culturale vincolata.

Ma è poi vero che nell’epoca dello streaming non ci sono più regole a limitare l’immaginazione? Non è così, ne abbiamo già viste alcune che definiscono per sottrazione la nuova forma del contenuto. Ne possiamo aggiungere altre, forse più incisive, che pongono nuove sfide ambientali agli autori. La peak tv, questo strano momento storico segnato dall’inflazione dei titoli, è caratterizzata da due vettori che sembrano procedere con forze fuori controllo: la quantità e la velocità.

La creatività ha bisogno tanto della libertà quanto di confini. Soprattutto quella televisiva, che ha una natura collettiva ed è sempre una forma di creatività culturale vincolata.

La prima ha come conseguenza la difficoltà dei contenuti ad affermarsi e a farsi notare: vince chi ha il migliore ufficio stampa. La pubblicazione di un’intera stagione in una sola uscita costringe ad anticipare i tempi della promozione cercando l’effetto virale dell’hype. Non c’è tempo per lasciar crescere un titolo: le prime due settimane, e spesso la prima, sono decisive per scrivere il suo destino. Per questo le nuove serie vivono di “trovate” e di forme di originalità spesso forzata che possano aiutarle a posizionarsi e a fare parlare di sé. Sono trovate che spesso cannibalizzano il contenuto stesso, fagocitando tutto il talento che la produzione è riuscita ad aggregare. Pensate a Maniac, all’uso di attori come Emma Stone e Jonah Hill, al talento di Cary Fukunaga, alla gabbia in cui sono stati imbrigliati insieme alle emozioni, tenute al guinzaglio di una sceneggiatura ragionata con il solo scopo di sostenere la trovata su cui tutta la serie si sarebbe retta.

La quantità di storie prodotte, la loro spasmodica ricerca di originalità, non comporta solo una feroce selezione naturale operata a valle dagli spettatori, ma anche una progressiva insensibilità del pubblico alle storie, che consuma sempre più velocemente, sempre più distratto. Secondo John Landgraf di FX, l’all you can eat dell’offerta “fa sì che sia sempre più difficile sorprendere e intrattenere gli spettatori” ai quali tutto suona “vagamente familiare”. 

La velocità è l’altro grande vettore. Non solo la velocità di consumo, ma anche quella di produzione. Non c’è tempo! Ripete il Bianconiglio dei brand globali che competono per la nostra attenzione. Non c’è tempo! Ripetono gli autori coinvolti pronti a passare a una nuova produzione. Non c’è tempo! Impongono i trend del gusto monitorati compulsivamente dalle nuove realtà produttive. L’estetica vapor di Maniac così alla moda lo scorso anno lo sarebbe ancora oggi? La serie sulle baby squillo se non è fatta nel giro di pochi mesi funziona ancora? Tutta questa fretta, com’è ovvio, ha conseguenze sulla scrittura e sulla produzione.

Quali sono dunque le sfide che pongono queste nuove regole? Una su tutte è la cura editoriale, un’altra è la capacità di creare franchise capaci di incidere sull’immaginario. Fuori dai vincoli della stagionalità dispensata episodio per episodio, anno dopo anno, e azzerati i vincoli della scrittura seriale, si perde spesso anche la capacità di dare vita a mondi narrativi capaci di evolversi e durare nel tempo. Le serie create e abbandonate dopo una o due stagioni fanno davvero catalogo o si perdono nel flusso? La mia impressione è che Netflix produca tanto ma generi poco valore. Una prova indiretta di questa affermazione può essere cercata nella sua capacità di creare star. L’unica che può essere menzionata è Millie Bobby Brown. E Stranger Things è l’unico vero franchise di Netflix. La terza stagione di Tredici, per contro, ha dimostrato come un brand di qualità non sia riuscito a sopravvivere a una narrazione chiusa nonostante il grande successo raccolto. Peraltro, Stranger Things e Thirteen hanno una natura più simile alla vecchia produzione seriale che al “film lungo”, così come l’esperimento d’autore più riuscito, Mindhunter, ha pure una struttura verticale che rende ogni singolo episodio un’opera dotata di maggiore autonomia.

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Il fatto che il binge watching ha eliminato molti vincoli della produzione seriale passata non significa che sia una buona idea ignorarli del tutto. La scrittura seriale nata intorno a essi pone sfide che non hanno perso il loro appeal, come sanno bene gli spettatori che guardano in streaming i vecchi episodi di Friends o i nuovi di This is Us, The Good Fight o You.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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