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I giornali diventano tech company

Non solo crisi. Il futuro del giornalismo si costruisce migliorando i processi tecnologici, o addirittura sviluppando e vendendo tool originali. Come fa il Washington Post.

Il Washington Post è diventato un’azienda tecnologica. Sì, è ancora principalmente un’impresa editoriale che pubblica un giornale fondato nel 1877 con una delle più invidiate collezioni di premi Pulitzer, ma al suo interno lavorano 300 ingegneri, tutti a stretto contatto con i circa 800 giornalisti della redazione. Cosa ci fa un editore che ha superato i 140 anni di onorata attività con un ingegnere ogni 2,5 redattori? Per esempio sviluppa tecnologie e software che poi sono venduti ad altri editori. Come Arc, una delle migliori piattaforme sul mercato per la pubblicazione e gestione di contenuti su digitale (il sito del Post deve molto alla piattaforma se è riuscito a superare quello del New York Times per traffico generato). Secondo il top management della divisione interna del Post che si occupa di svilupparne anche gli aspetti di marketing per la diffusione sul mercato, nei prossimi anni Arc potrebbe potrebbe portare nelle casse del suo editore circa cento milioni di dollari l’anno, e diventare centrale nel suo modello di business.

Dal prodotto al servizio

I content management systems (Cms) come Arc sono sempre più importanti per gli editori, perché ormai non sono più solo dei software per la pubblicazione di contenuti online, ma piattaforme multifunzione che si misurano con la crescente complessità del web. Gestiscono i paywall, gli abbonamenti e la loro monetizzazione, ottimizzano la pubblicità digitale e il flusso di quella programmatica. Perfezionare tecnologie come queste e renderle particolarmente efficienti e veloci per essere configurate a diverse esigenze è di vitale importanza per un editore, ma anche per i brand che usano i siti per promuovere direttamente i loro contenuti attraverso il content marketing. Al Post lo hanno capito, e in perfetta sintonia con la logica dell’Amazon-pensiero vogliono essere al centro di tutto questo a livello globale (Arc oggi supporta, per una trentina di clienti che pagano fino 150 mila dollari al mese, complessivamente 90 siti e app che rappresentano circa 500 milioni di visitatori unici al mese).

Grazie a queste piattaforme si è cominciato a parlare con una certa insistenza della necessità dei giornali di trasformarsi anche in tech company. In particolare quando, tre anni fa, startup editoriali come BuzzFeed e Vox Media si sono conquistate l’interesse di importanti investitori proprio per merito dell’abilità dei loro ingegneri di sviluppare e perfezionare software – come Pound e Chorus –, presentati non solo come Cms straordinariamente efficienti e veloci, ma anche come sorta di “macchine delle meraviglie” capaci di raccogliere ed elaborare dati e di comprendere i segreti meccanismi della condivisione dei contenuti attraverso i social media. Ma tutto questo, in fondo, non sorprende finché parliamo di editori nativi digitali che guardano alla disruption come opportunità per salire, il più rapidamente possibile, la scala gerarchica del nuovo mercato delle notizie. Ma cosa succede se trasferiamo la stessa visione nei “vecchi dinosauri” dell’editoria che in quella disruption vedono ancora principalmente la causa del declino dei ricavi e del drammatico calo di copie vendute?

Al Washington Post la cura Bezos ha riportato il giornale ad assumere e a mirare a utili di bilancio senza intaccare minimamente l’autorevolezza. Il Post non è il solo editore nato in epoca pre-digitale che progetta il suo futuro pensandosi anche come una tech company. Un gigante europeo dell’editoria come il tedesco Axel Springer, sul mercato editoriale da oltre settant’anni (i quotidiani Bild e Die Welt, ma anche il sito Business Insider sono tra le molte testate di cui è proprietario), in cui oggi il peso del digitale è salito a circa l’80% del totale dei suoi ricavi, ha dato vita nel 2013 a una sua divisione tecnologica: Axel Springer Ideas che, oltre a gestire le infrastrutture tecniche di un gruppo con 15 mila redattori sparsi tra quotidiani e siti online, funziona oggi sia da incubatore di startup editoriali per il gruppo madre sia come software house per terzi. Ma anche editori più piccoli come l’inglese Future – fondato nel 1985 – che oggi si definisce una “multi-platform media company”, oltre a pubblicare diversi magazine, ha sviluppato al suo interno software per la gestione clienti o per l’integrazione delle funzioni di e-commerce con i siti di news che cede in licenza ad altri editori, e recentemente ha acquistato Ramp, una delle migliori piattaforme per la gestione della pubblicità (sviluppata da un altro editore, Purch), il cui giro di affari è valutato intorno ai 24 milioni di dollari.

Parliamo ancora di eccezioni. Per gli editori di giornali progettare un processo che li trasformi anche in qualcos’altro è perlopiù vissuto come un tradimento alla loro vera missione, una violenza alla loro identità.

Dall’eccezione alla regola

Parliamo però ancora di eccezioni. Nonostante questi esempi, per gli editori di giornali progettare – ma anche semplicemente adeguarsi a – un processo che li trasformi anche in qualcos’altro è perlopiù vissuto come un tradimento alla loro vera missione, una violenza alla loro identità. I casi in cui il tentativo di trasformare un editore con un glorioso passato in una tech company si è trasformato in un fallimento hanno consolidato la convinzione, in molti addetti ai lavori, che quell’idea fosse sbagliata.

Un caso esemplare e molto noto, in tal senso, è quanto successo alla storica rivista New Republic. Il giovane miliardario Chris Hughes la acquista nel 2012 con una parte degli straordinari guadagni realizzati nella Silicon Valley e soprattutto con l’intento di gestirla come una qualsiasi startup dedicata a un pubblico di millennial. Con esiti disastrosi. Qualche tempo dopo Franklin Foer, il giovane e stimatissimo direttore della rivista poi licenziato da Hugues stesso, ha descritto con questa battuta il momento in cui l’allora Ceo della rivista Guy Vidra – planato lì direttamente dal ruolo di general manager a Yahoo! – espose l’idea di trasformare la rivista in una tech company: “è stato come assistere a uno sketch del Saturday Night Live”.

Al fondo di tutto c’è anche un altro problema: la cultura tecnologica è inesorabilmente focalizzata sul prodotto, ma oggi capire quale debba essere il reale prodotto del giornalismo non è semplice: “Modellare un prodotto per il quale le persone vogliono pagare è l’unica soluzione per il futuro del giornalismo”, ha scritto a tal proposito Gianluca Diegoli. Bene, quanto in quel “modellare” conta, per esempio, la velocità di caricamento su uno smartphone di un articolo o di un reportage su video? Più o meno del suo contenuto giornalistico? Ricordando una delle prime riunioni alla presenza di Bezos, il responsabile del prodotto e della tecnologia al Post, Shailesh Prakash (una carriera prima consumata tutta in grandi tech company come Microsoft, Sun e Netscape), ha raccontato che “Jeff ha subito detto che quando leggi un giornale, la facilità con cui lo scorri è molto meglio della navigazione su digitale. Overhead cognitivo, lo chiamò. Da allora molte delle nostre scelte progettuali sono state fatte per ridurre questo aspetto. E la velocità è un fattore importante”.

Parlare di prodotto al di fuori dei contenuti giornalistici però è ancora difficile in un giornale. “Chiedi a qualsiasi giornalista o editore quale sia il prodotto – ha scritto Espen Sundve, responsabile sviluppo prodotto in diverse media company – e poi rivolgiti a un ingegnere informatico o progettista UX nello stesso edificio e fai la stessa domanda. Non otterrai la stessa risposta. Ed è questo che causa la totale disconnessione nella capacità congiunta di innovare e creare nuovi straordinari prodotti. I giornalisti considerano il contenuto come il prodotto. Grande giornalismo. Grandi storie. Niente di meno, niente di più. I tecnologi ritengono che sia la tecnologia per creare, curare e distribuire il contenuto”.

Puntare altrove

Oggi i giornali sono obbligati a puntare, come mai nella storia, sui ricavi che provengono direttamente dai lettori. La pubblicità sulla stampa sta sempre più riducendo i suoi ricavi e in futuro, continuano a prevedere tutte le analisi di mercato, avrà un peso sempre più marginale negli investimenti pubblicitari globali (poco più del 10% nel 2020, quando i motori di ricerca peseranno per il 17%). E dell’advertising online, una volta passati Google e Facebook, restano le briciole da spartirsi con tutti gli altri. Una situazione nuova per i giornali perché, a differenza della maggior parte delle altre merci, il loro prodotto si sosteneva economicamente solo per una quota minoritaria sulla vendita al consumatore finale.

Puntare sugli abbonamenti, in particolar modo ai contenuti digitali (quelli con il maggior potenziale di crescita), vuol dire però inevitabilmente puntare molto sulla tecnologia. Almeno questo è quello che ci dice Netflix dall’alto dei suoi oltre 130 milioni di abbonati paganti, un numero che un qualsiasi giornale può solo sognare di avere (il New York Times di abbonati, tra carta e digitale, a fine del 2018 ne contava circa 4 milioni). Netflix senza troppe crisi di coscienza o identità si è trasformata più volte, oggi è felicemente tanto una tech company che nella produzione di nuovi contenuti investe 12 miliardi di dollari l’anno, quanto una media company che nel 2018 ha messo a bilancio 1,22 miliardi di dollari alla voce “tecnologia e sviluppo”. Netflix utilizza molta tecnologia per raccogliere dati sui propri utenti, ma non lo fa per vendere pubblicità (non ne vende affatto, è totalmente adless): l’obiettivo è comprendere i gusti e le esigenze dei suoi abbonati e poi, certo, indurli a consumare il più possibile i “prodotti” che ha in catalogo. Tutto questo avrebbe poco senso senza un archivio ben organizzato, per cui a Netflix hanno ideato, tra le altre cose, oltre 3.500 sottogeneri per etichettare in modo più dettagliato possibile tutti i contenuti.

I giornali ancora oggi, invece, valorizzano molto poco – o per niente – il loro archivio (nonostante sia spesso molto vasto e contenga autentici tesori), e utilizzano le tag ai propri contenuti in modo formale, rigido e per nulla utile a profilare le preferenze degli abbonati. C’entra probabilmente il fatto l’abitudine a pensare che il prodotto dei giornali sia inevitabilmente qualcosa di deteriorabile, che dura un giorno, una settimana o al massimo qualche mese, oltre che privo di “memoria” (ogni volta che una storia si sviluppa su più articoli, è raccontata pensando a un lettore che la legge per la prima volta). Quindi perché sprecare energie in un archivio bello e piacevole da consultare? Perché usare risorse per vendere al lettore una “merce” che dopo poco si è deteriorata? Se questa è l’idea allora c’è da chiedersi come sia possibile raggiungere quello che, alla fine, è il vero obiettivo di una qualsiasi azienda: creare un rapporto solido e duraturo con il proprio cliente visto che le rendite di posizione, per quanto riguarda i giornali, ultimamente sono piuttosto svalutate. “Ci siamo ingannati convincendoci che era più importante avere a cuore le cose efficienti e confortevoli invece di quelle che durano nel tempo” è un passaggio che troviamo nelle molte pagine dedicate ai giornali da Franklin Foer nel suo libro World Without Mind. The Existential Threat of Big Tech (in Italia pubblicato con il titolo I nuovi poteri forti), ancora traumatizzato dalla sua pessima esperienza in quel New Republic a gestione tecnocratica. È una frase suggestiva, ma davvero questa è l’unica alternativa che la tecnologia impone a un giornale: inseguire i clic e la spietata efficienza organizzativa delle “cose che funzionano sul web” rispetto alle cose “che durano nel tempo”?

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Coinvolgere meglio il lettore

È vero che nella loro versione online i giornali hanno spesso dimostrato fin da subito un’ossessione per la quantità delle pagine viste e molta meno attenzione alla reale qualità del rapporto che stavano costruendo con i lettori. Ma da qualche anno ormai molte testate stanno producendo – anche su digitale – contenuti strutturati in maniera decisamente più complessa, pensati per coinvolgere più profondamente il lettore e di durare nel tempo. Uno di questi contenuti, Snow Fall del New York Times, pubblicato nel dicembre 2012 e vincitore di un Pulitzer, ha dato il via a un nuovo genere giornalistico. È interessante che proprio quel reportage multimediale è stato il punto di riferimento nello sviluppare al Washington Post la piattaforma Arc: “Quel pezzo – ha dichiarato Jeremy Gilbert, che al Post guida il team responsabile dello sviluppo del prodotto – ci ha aperto gli occhi sulle potenzialità web nel raccontare storie. La sfida è stata di creare strumenti per farlo come parte di una routine di lavoro: pubblicare storie simili due volte alla settimana, invece che solo una volta al mese”. Dopo il Post ha pubblicato con regolarità lavori come Raising Barriers, un’inchiesta sul crescente uso di barriere per respingere le ondate migratorie, o come The Waypoint, un reportage sugli sbarchi di migranti nell’isola di Lesbo – entrambe pubblicate nel 2016 e a due anni di distanza possono essere tranquillamente lette ancora con molto interesse –. Articoli dove la qualità giornalistica è sicuramente valorizzata dagli strumenti interattivi che la piattaforma proprietaria Arc ha permesso di utilizzare con relativa semplicità.

Lavori con queste caratteristiche sono oggi molto utili a diversificare agli occhi di un lettore il prodotto di un editore. Un fattore determinante, se uno dei principali obiettivi è di convertire una parte dei lettori online in fedeli abbonati paganti. Perché in un’industria come quella delle notizie, che tende inevitabilmente a uniformare l’offerta (tutti parlano più o meno delle stesse cose), per gli editori riuscire a diversificare i prodotti dagli altri concorrenti sarà di vitale importanza. Per farlo non è necessario che si trasformino anche in software house come il Washington Post, ma un passaggio obbligato è sicuramente quello di risolvere i molti problemi che ancora oggi esistono legati all’integrazione tra parte tecnologica e giornalistica. Far convergere le due “culture” per realizzare meglio la “nuova sacra trinità dell’editoria digitale: la tecnologia che migliora il processo di pubblicazione, l’ottimizzazione della pubblicità e lo sviluppo dell’abbonamento digitale. E poi dare ai propri utenti un prodotto bello, utile e coinvolgente.


Lelio Simi

Giornalista, si occupa di innovazione, tecnologia e industria dei media (con inchieste pubblicate su il Manifesto, Pagina 99, Eastwest, Altreconomia tra gli altri). Ha scritto un libro, Mediastorm. Il nuovo ordine mondiale dei media (2021). Mediastorm è anche il nome della sua newsletter.

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