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Tutta colpa di Antonio

Tutti lo usano, pochi lo capiscono fino in fondo. Evoluzione del concetto di nazionalpopolare da Antonio Gramsci a Pippo Baudo.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 16 - Quel che resta del nazionalpopolare del 01 marzo 2014

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Gramsci non ha mai usato il concetto di nazionalpopolare. Perlomeno non nel modo in cui ce ne serviamo volgarmente oggi, e soprattutto intendendolo come un concetto e sostantivo unitario. La ragione della più recente torsione del concetto gramsciano, e anche del suo successo attuale, ha origine nella polemica esplosa nel gennaio 1987 tra l’allora presidente della Rai, Enrico Manca, e il conduttore della trasmissione Fantastico 7, Pippo Baudo. Il casus belli fu (già allora) Beppe Grillo, il quale invitato a intervenire in una puntata della trasmissione in onda il sabato sera, si divertì a sbeffeggiare il recente viaggio in Cina del Presidente del consiglio, Bettino Craxi. “La cena in Cina… c’erano tutti i socialisti, con la delegazione, mangiavano… A un certo momento Martelli ha fatto una delle figure più terribili… Ha chiamato Craxi e ha detto: ‘Ma senti un po’, qua ce n’è un miliardo e son tutti socialisti?’. E Craxi ha detto: ‘Sì, perché?’. ‘Ma allora se son tutti socialisti, a chi rubano?’”. By the way, la battuta avrebbe determinato il definitivo allontanamento del comico genovese dalla tv pubblica, anche per l’intervento immediato di Enrico Manca, che in un’intervista disse “Basta con questa tv nazionalpopolare”, e aggiunse “e non lo si prenda per un complimento”. Il concetto di nazionalpopolare nella sua torsione attuale veniva così lanciato con clamore, e da una figura di rilievo dell’allora parterre politico. Già a capo della Commissione stampa e propaganda del Psi all’inizio degli anni Settanta, Manca aveva un certo profilo intellettuale e anche un passato “in prima linea” nella tv pubblica. Entrato in Rai nel 1959, dal 1961 al 1972 era stato redattore del Giornale radio Rai, poi caporedattore centrale del tg e direttore dei servizi culturali.

Alla dichiarazione di Manca rispose stizzito Pippo Baudo, che proprio alla fine dell’ultima puntata del programma, appena prima della tradizionale estrazione dei numeri vincenti della lotteria, disse: “Considero questa definizione un’offesa. Il presidente Enrico Manca rilascia spesso interviste, anche troppe. Vuol dire che d’ora in poi farò programmi regionali e impopolari”. Una risposta talmente acida e fuori dalle righe da aprire la strada al successivo passaggio del conduttore siciliano alla concorrente Fininvest, insieme a Lorella Cuccarini che di Fantastico 7 era stata l’altro asse portante. Una decina di anni dopo, ironia della sorte, sarà lo stesso Pippo Baudo a rivendicare il valore nazionalpopolare delle proprie trasmissioni, e questa volta nel presentare il Festival di Sanremo. Nel 1996 infatti dirà: “Il Festival è uno spettacolo nazionalpopolare nel senso gramsciano del termine”.

Il concetto di nazionalpopolare trovava così una “nuova” identità. Nelle parole di Manca il sottointeso era che con quel termine si veniva a identificare qualcosa di triviale e volgare, che solleticava gli appetiti più bestiali del pubblico, qualcosa di molto basico, non culturalmente dignitoso, proprio dei gusti del popolino. La torsione data al concetto da Manca si inseriva per la verità nella temperie ideologica dell’epoca, in cui gli esponenti di punta del Partito socialista, alla ricerca di un proprio spazio politico autonomo, non perdevano occasione per polemizzare con il Partito comunista. Insomma, la frase di Manca si colloca perfettamente nello spirito dell’epoca, ma ciò non spiega appieno il successo che invece avrebbe avuto la sua lettura dell’importante concetto gramsciano.

Enrico Manca, in un’intervista disse “Basta con questa tv nazionalpopolare”, e aggiunse “e non lo si prenda per un complimento”. Alla dichiarazione di Manca rispose stizzito Pippo Baudo, che proprio alla fine dell’ultima puntata del programma, disse: “Considero questa definizione un’offesa. Vuol dire che d’ora in poi farò programmi regionali e impopolari”.

Ma cosa intendeva Gramsci?

È appropriato far risalire al pensatore comunista la definizione di nazionalpopolare? Se si vanno anche solo superficialmente a spulciare i Quaderni del carcere, del termine “nazionalpopolare” non si trova traccia. Gramsci parla difatti di nazionale-popolare e talvolta di popolare-nazionale. I due termini, nazionale e popolare, il più delle volte vengono utilizzati in ambiti distinti, ma senza mai dar vita alla categoria “unitaria” nazionalpopolare.

Per Gramsci uno dei temi cruciali della questione ideologica del nostro Paese stava nella grande distanza esistente tra i ceti intellettuali e il popolo, e nella impossibilità e incapacità degli intellettuali di rappresentare gli interessi e i gusti della gente e quindi in tal modo di farsene guida. Sulla scorta della sua precedente esperienza professionale – Gramsci era stato difatti negli anni torinesi il recensore teatrale de L’Avanti! – l’attenzione che il filosofo sardo-torinese dedica al panorama culturale dell’epoca appare veramente minuziosa, tanto da spingerlo a definire una vera e propria tassonomia dei generi letterari e del loro successo tra il popolo(1)Come emerge nel Quaderno 21 (1934-35), “Problemi della cultura nazionale italiana; I Letteratura popolare”.. La sua lettura del Risorgimento da questo punto di vista è emblematica: la mancanza di una scrittura e di trame adeguate aveva fatto sì che il Risorgimento esprimesse figure distanti, aristocratiche, talvolta ispirate dalla morale cattolica, come nel caso di Manzoni, ma che non erano mai riuscite a costruire un vero epos nazionale. Per Gramsci la letteratura italiana dell’Ottocento non offre risposte a questa necessità pedagogico-politica, tranne forse il timido tentativo letterario di Cesare Abba (Da Quarto al Volturno) e poco più. Alla fine l’intellettuale italiano resta una figura distante, distaccata, espressione di una casta lontana dal popolo e dai suoi interessi. Una casta dai tratti anche cosmopoliti, legata all’alta cultura europea, ma che rifugge in modo distratto dal tema della costruzione di un epos nazionale, da radicarsi nel popolo. La mancanza di queste figure intellettuali induce pertanto Gramsci a valorizzare quelle poche che invece agiscono in una direzione profondamente differente, come per esempio Francesco De Sanctis. Agli occhi di Gramsci il critico letterario napoletano ha un approccio militante, profuso direttamente non solo nel suo impegno politico ma anche nel suo approccio alla cultura: “lottò per la creazione ex novo in Italia di un’alta cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuitismo”(2)Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, a cura di V. Giarratana, pp. 2188-89, Einaudi, Torino 1975., in questo anni luce lontano da quanto avrebbe fatto invece Croce.

Ma ancora più avanti Gramsci prosegue: “L’assenza di una letteratura nazionale-popolare, dovuta all’assenza di preoccupazioni e di interesse per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il ‘mercato’ letterario aperto all’influsso di gruppi intellettuali di altri paesi, che ‘popolari-nazionali’ in patria, lo diventano in Italia perché le esigenze e i bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia”(3)Ivi, p. 2197. “Così il popolo italiano si è appassionato, attraverso il romanzo storico-popolare francese alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie e conosce la figura popolaresca di Enrico IV più che quella di Garibaldi, la Rivoluzione del 1789 più che il Risorgimento, le invettive di Victor Hugo contro Napoleone III più che le invettive dei patrioti italiani contro Metternich, si appassiona per un passato non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente più francese che italiano”(4)Ivi, pp. 2197-98.

Come correttamente segnalava Garin nell’ambito del Convegno internazionale di studi gramsciani tenutosi a Cagliari nel 1967: “Il problema degli intellettuali fu il nodo intorno a cui ruotarono i Quaderni, fino a costituire il terreno su cui si svilupparono alcuni dei più caratteristici temi gramsciani, come quello del partito, ‘moderno Principe’ e intellettuale collettivo”(5)G. C. Jocteau, Leggere Gramsci, p. 99, Feltrinelli, Milano 1975. E sul fondo chiaramente la nozione di egemonia, che del resto avrebbe garantito al pensatore comunista un’importanza cruciale non solo in Italia, ma anche e soprattutto nei Cultural Studies all’estero.

L’origine dell’originale

Secondo la ricostruzione fatta da un giovane storico russo, Jaroslav Leontief, sul complesso dei rapporti tra Gramsci e la moglie russa Julia Schucht, conosciuta dal leader comunista in un sanatorio ai tempi della sua permanenza a Mosca nel 1922, lo stesso concetto di nazionale-popolare sarebbe derivato da una serie di discussioni avute con il suocero Apollon, all’epoca militante comunista, ma di formazione populista. Il concetto gramsciano di nazionale-popolare sarebbe per certi versi quindi la trasduzione del termine russo narodnost.

Seguire la traccia russa porta a risultati suggestivi. Il termine infatti compare già ai tempi dello zar Nicola I, agli inizi dell’Ottocento. Il suo ministro dell’istruzione, Uvarov, lo poneva rigorosamente al terzo posto dopo pravoslavie (ortodossia) e samoderžavie (autocrazia): ovvero la qualità nazionale dei russi sta nella piena sottomissione, e visto l’effettivo carattere dell’impero zarista, anche nella più assoluta devozione nei confronti dello zar. Il concetto di narodnost, dopo la valorizzazione operata da Herzen, conoscerà in seguito una seconda primavera proprio ai tempi della Rivoluzione russa(6)Vittorio Strada, nel ragionare intorno alla questione del realismo socialista in Unione sovietica, sottolinea in esso il peso del carattere popolare della letteratura del passato. E la narodnost comporrà insieme a partijnost (partiticità) e ideojnost (valore ideologico) la triade fondamentale nel dibattito ideologico di quegli anni. 
V. Strada, “Dal realismo socialista allo zdanovismo”, in Storia del marxismo, vol. III, p. 242, Einaudi, Torino 1981.La discussione sull’alta cultura e la bassa cultura, e di converso sul ruolo della letteratura d’appendice, è un tema che viene quindi ampiamente discusso dagli scrittori russi subito dopo la rivoluzione. C’è una ricerca continua e animata di una dimensione popolare dell’attività letteraria che porta a continue discussioni anche all’interno di movimenti di massa quali Proletkult. Immaginare che queste discussioni possano aver trovato una eco nel pensiero gramsciano non sembra a questo punto un’ipotesi così azzardata.

Tanto più che la sua stessa riflessione sembra sottolineare una genesi russa della categoria. Nella parte intitolata “Concetto di nazionale-popolare”(7)A. Gramsci, Quaderno 21, p. 2114, Gramsci insiste con forza sulla fortuna “popolare” dei grandi romanzieri russi. E poco più avanti argomenta: “Perché non esiste in Italia una letteratura ‘nazionale’ del genere nonostante che essa debba essere redditizia? È da osservare che in molte lingue ‘nazionale’ e ‘popolare’ sono sinonimi o quasi (così in russo, così in tedesco […] così nelle lingue slave in genere)”(8)A. Gramsci, op. cit., p. 2117. In Italia invece ciò non avviene perché gli intellettuali sono “lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta”(9)Ibidem. “Tutto ciò significa che tutta ‘la classe colta’, con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi […], ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione”(10)Ibidem. Una questione cruciale, come sottolinea nel proseguo Gramsci, che sta alla base della nascita dello stato italiano e che spiega il ritardo della sua formazione come entità statale unitaria.

Ma oltre alla pista russa è da mettere in rilievo (come acutamente segnala Asor Rosa in Scrittori e popoli) anche la derivazione diretta di molta dell’analisi gramsciana sulla letteratura da Gioberti. In particolare nell’ultimo suo libro importante, apparso nel 1851 appena dopo la fine della sua esperienza come Primo ministro, Del rinnovamento civile dell’Italia, appare ben scandita quella che sarebbe diventata la struttura portante del ragionamento gramsciano: “Invero una letteratura non può essere nazionale se non è popolare, perché, sebbene sia di pochi il crearla, universale deve esserne l’uso e il godimento”(11)V. Gioberti, Del rinnovamento civile dell’Italia, a cura di F. Nicolini, 3 voll., Laterza, Bari 1911-12. E più avanti: “Il Rinnovamento italiano dovendo essere democratico, anche la letteratura dee partecipare di questo carattere e venire indirizzata al bene del popolo”. “L’ingegno e la nazione sono il nativo ricompimento della plebe, la quale non può essere civile se non è nazionale, cioè unita con le altre classi, e progressiva, cioè guidata dall’ingegno e informata di gentilezza”. Certo, in Gramsci non sembra così centrale il ruolo assegnato alla tradizione, ma per il resto molti temi sembrano mutuati di peso dal sacerdote torinese.

Per Gramsci uno dei temi cruciali della questione ideologica del nostro Paese stava nella grande distanza esistente tra i ceti intellettuali e il popolo, e nella impossibilità e incapacità degli intellettuali di rappresentare gli interessi e i gusti della gente e quindi in tal modo di farsene guida. Sul fondo c’è chiaramente la nozione di egemonia, che avrebbe garantito al pensatore comunista un’importanza cruciale non solo in Italia, ma anche e soprattutto nei Cultural Studies all’estero.

Sopravvivenza ed evoluzione

Con la fine della Seconda guerra mondiale il concetto di nazionale-popolare va incontro alla sua gloriosa primavera. I testi dal carcere di Gramsci verranno pubblicati subito dopo il ritorno della democrazia in Italia. Su impulso di Palmiro Togliatti, che aveva già avuto modo di leggerli alla fine degli anni Trenta e che a questa operazione dedicò grande cura, i Quaderni, suddivisi per temi, usciranno gradualmente e in particolare il volume su Letteratura e vita nazionale apparirà nel 1950. Non era solo una ragione di tipo editoriale a spingere verso questa decisione, ma anche politica: la necessità di corroborare attraverso gli scritti del pensatore sardo le concrete scelte politiche nel frattempo adottate dai vertici del Partito comunista. Il primo passo controverso era difatti consistito nella cosiddetta Svolta di Salerno del 1944, quando cioè Togliatti offrì di trovare un compromesso tra forze antifasciste, monarchia e Badoglio, affinché fosse formato un governo di unità nazionale, posticipando al Dopoguerra la risoluzione della forma istituzionale del Paese, attraverso l’indizione di un referendum sulla monarchia. Come è noto, a questa soluzione si opposero in un primo momento molte delle forze politiche che componevano il CLN, tra cui i socialisti e il Partito d’Azione. La giustificazione addotta da Togliatti è che in questo modo non solo si rafforzava il fronte di guerra antitedesco, ma si costruiva finalmente una vasta unità di popolo che poteva permettere al nostro Paese di non essere debole sullo scacchiere del Mediterraneo che, a detta di Stalin, era invece l’obiettivo dell’Inghilterra. Ecco dunque comparire il concetto di popolo, che nell’elaborazione politica dell’immediato Dopoguerra andrà ad affiancare, e poi sempre più spesso a sostituire, il più radicale concetto marxista di classe.

La Svolta di Salerno per certi versi confermava però l’impostazione “popolare e interclassista” che era stata data alla Resistenza fin dal suo esordio, tranne forse alcuni episodi chiaramente “di classe” come gli scioperi del marzo ’43 e ’44. Come confermerà, sempre nell’aprile del 1944, lo stesso Togliatti a un gruppo di militanti comunisti napoletani, convocato per spiegare il senso della Svolta salernitana: “Oggi il dovere nazionale non è discutibile ed è uguale per tutti: esso ci impone di unirci tutti e di lottare per cacciare lo straniero dal suolo della Patria”. Nella stessa occasione Togliatti non solo sviluppa la necessità per i comunisti di dover costruire una grande forza popolare, ma lo fa rivendicando il carattere nazionale di questa lotta, riannodandola alle iniziative e alla tradizione risorgimentale. Quindi forza popolare sì, ma fortemente nazionale. I due concetti portanti dell’analisi gramsciana sulla letteratura, diventeranno così l’architrave strategico della politica comunista perlomeno fino alla fine degli anni Quaranta, come confermeranno del resto altri due importanti episodi: l’amnistia del 1946, estesa anche ai collaborazionisti, voluta da Togliatti quando era ministro di Grazia e Giustizia, e la strategia perseguita duranti i lavori della Costituente, e in particolare la decisione assunta sul famoso articolo 7, che regola i rapporti tra Stato e Chiesa.

Sul fronte culturale, al contempo, centrale fu il ruolo e l’influenza esercitata dal ministro della cultura sovietico Andrej Aleksandrovič Ždanov, che non solo teorizzò il realismo socialista nelle arti e nella letteratura con lo slogan “conoscere la vita del popolo per poterla rappresentare”, ma operò una drastica cesura verso ogni forma di avanguardia artistica e “decadentismo”, che pure grande importanza avevano avuto nella costruzione ideologica e culturale dell’Unione sovietica. Mutatis mutandi, il realismo impegnerà così in modo importante la politica del Pci verso la cultura. L’articolazione italiana del realismo socialista assumerà i segni del cosiddetto “populismo”, principalmente in letteratura. A partire soprattutto dalla sconfitta elettorale comunista nelle elezioni politiche del 1948 e in particolare con l’inizio su scala globale della Guerra fredda, si assiste a una stretta, a un ritorno all’ordine realista-populista nella politica culturale del PCI, chiudendolo per almeno una ventina d’anni verso ogni avanguardia e cultura cosmopolita. L’artefice italiano della svolta zdanoviana fu Emilio Sereni, un caledoiscopico e focoso intellettuale napoletano dalle conoscenze enciclopediche, già condannato nel 1931 a cinque anni di carcere dal regime fascista, a cui Togliatti affidò la direzione della politica culturale del Pci. “Gli interventi di Sereni nel campo della politica culturale si fondano su una strategia esplicitamente rivendicata: identificare Ždanov e Gramsci – dei cui Quaderni era proprio allora cominciata l’edizione – intorno a un minimo comune denominatore di temi continuamente ribaditi”, quali la lotta contro la spontaneità dell’intellettuale (un tema già presente nella precedente, astiosa polemica di Togliatti e Alicata contro Vittorini e Il Politecnico) e la ribadita necessità dell’approccio pedagogico che l’intellettuale deve imprimere al suo lavoro tra le masse(12)Corti, Ždanovismo all’italiana. Gli intellettuali del dopoguerra e l’“ingegneria delle anime”, disponibile in rete.. È quindi di Sereni l’iniziativa di innalzare il livello di preparazione dei quadri politici del partito, creando tra le masse un vero e proprio senso comune condiviso, seppur ispirato dalla direzione del partito stesso, tramite la creazione di una rete di iniziative editoriali, biblioteche, filodrammatiche, cinema e case della cultura. Ma come dicevamo, dopo il 1948, all’acuirsi della Guerra fredda il mondo comunista reagisce con un “serrate le fila”, in cui il problema identitario diventa l’architrave decisivo. In particolare, in Italia questa tematica si articola valorizzando ed esaltando il fattore nazionale, e i suoi valori tradizionali, contro “l’aggressività decadente dell’imperialismo americano”, per esempio attraverso l’istituzione diffusa di comitati per la pace. Con la morte di Stalin, nel 1953, la politica culturale del Pci cambia. Da fine tattico, Togliatti intuisce per primo il mutamento di clima in corso nel Pcus, e affida la direzione culturale del partito al più duttile Carlo Salinari. Ma l’impianto di Sereni-Ždanov (peraltro morto nel 1948) resta ancora una carta carbone fortemente incisa nell’azione culturale del Pci. Di fatto gli anni Cinquanta vedono il Pci sposare una sorta di strategia meridionalista, che sostiene da una parte forme di dialettismo regionalista (come suggerisce, a mio avviso correttamente, Asor Rosa) e dall’altra una sorta di ritorno al realismo in letteratura, mentre sul piano filosofico ricompone indebitamente in un tutto unitario l’asse De Sanctis, Croce e Gramsci.

Ironia della sorte

Poco prima della rivolta ungherese del 1956, si accende nell’intellettualità comunista un’aspra discussione su due romanzi, emblematici del ritorno letterario del populismo: Le terre del Sacramento (1950) di Francesco Jovine e Metello (1955) di Vasco Pratolini. Mentre il primo descrive le lotte del mondo contadino molisano che si scontra con le prime squadracce fasciste, lotte che hanno come punto di riferimento la figura di Luca Marano, uno studente universitario di origine contadina, che interpreta e “capisce” i loro bisogni, in una narrazione che alla fine delega a lui, un capo “piccolo-borghese”, la rappresentanza in quelle stesse lotte, in Metello, invece, la narrazione è incentrata sulle lenta ma costante presa di posizione del protagonista che progressivamente diventa consapevole della propria coscienza di classe. Una storia operaia, fiorentina, che ha come epilogo anche la ricomposizione familiare quando, all’uscita del carcere, Metello trova ad aspettarlo la moglie. Alla fine l’intellighentia comunista, in un’accesa discussione che coinvolse anche Muscetta e altri importanti critici, tra i due romanzi scelse il secondo. In particolare “Carlo Salinari ritenne che Metello segnasse il passaggio dal neorealismo al realismo, il superamento di tutto quanto di decadente e sperimentale ci fosse nel neorealismo, e il ritorno allo schema del romanzo ottocentesco”(13)V. Spinazzola, Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice l’Unità, Roma 1987. Sembrava pertanto che si stessero creando alcune di quelle condizioni tanto auspicate da Gramsci, quali la creazione di una letteratura nazionale e popolare, indirizzata e letta dal popolo, in grado di assolvere a una funzione pedagogica. Ma era il canto del cigno della stagione del realismo all’italiana, che chiudeva la prima fase storica della diffusione del concetto di nazionalpopolare. Stavano arrivando di gran carriera le avanguardie letterarie degli anni Sessanta, che avrebbero ribaltato totalmente ogni visione “realistica” della letteratura e con essa l’interpretazione data del Pci relativamente al rapporto con il popolo. Nel 1963 Asor Rosa scrive un libro acido e corrosivo, Scrittori e popolo, in cui non salva nessuno – tantomeno Pasolini, Cassola e Pratolini – della più recente storia patria della letteratura del dopoguerra. Intanto, agli inizi degli anni Sessanta, arrivano in Italia il pensiero di Lévi-Strauss e lo strutturalismo, la fenomenologia e la pubblicazione della Crisi delle scienze europee di Edmund Husserl, la cibernetica e il pensiero di Bateson, infine le considerazioni sui media di McLuhan. Per non parlare della riflessione autoctona italiana, incentrata su una figura come Umberto Eco, e la nascita del Gruppo 63. Insomma, un nuovo scenario culturale dai chiari connotati cosmopoliti si profilava con forza all’orizzonte. Mentre la storia, beffarda, stava già scavando la sua ironica vendetta…


Raf Valvola Scelsi

Lavora come editor in una grande casa editrice. Ha curato/scritto: Cyberpunk (1990), No copyright (1993), Ribellione nella Silicon Valley (1997) e, con Toni Negri, Goodbye Mr. Socialism (2006).

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