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Giornalisti o creator? L’ascesa degli info-encer

I social network non si sono limitati a sfidare l’autorevolezza delle testate tradizionali. Hanno rivoluzionato il panorama mediatico, dando voce a figure ibride, a cavallo tra influencer e giornalisti, il cui stile dinamico e interattivo sta ridefinendo ruoli, linguaggi e modelli del giornalismo contemporaneo.

Agli inizi degli anni Dieci del Duemila, i giornalisti hanno capito che non potevano più fare a meno dei social network. Non solo perché – come per molte altre professioni che prevedono un’esposizione pubblica – gli allora dominanti Facebook e Twitter rappresentavano uno strumento ideale per comunicare direttamente con i colleghi e con il pubblico, ma anche perché la creazione di una presenza social veniva consigliata o caldamente raccomandata dalle testate di appartenenza.

In breve tempo, abbiamo così visto celebrità del giornalismo italiano diventare anche personalità online (come Enrico Mentana e le sue “blastate”), firme note sfruttare i social per aumentare la loro visibilità (come il caso di Andrea Scanzi) e blogger già di successo ampliare enormemente il loro seguito (com’è avvenuto con Selvaggia Lucarelli). E poi – qualche tempo dopo e soprattutto su altre piattaforme – abbiamo osservato l’ascesa di nuove stelle del giornalismo come Francesco Costa e Cecilia Sala, costruita anche tramite un uso consapevole e professionale dei social.

L’era della reputazione digitale

In molti casi, lo sbarco sui social era considerato dai giornalisti un mezzo, non un fine: con l’obiettivo – come scrive il Nieman Lab – di “costruire il loro brand” e “fornire nuovi sbocchi” alla testata o trasmissione di appartenenza. Il concetto era chiaro: avere una presenza su Twitter e Facebook era considerato uno strumento utile soprattutto a diffondere i propri articoli, contribuendo così ad aumentare il traffico delle testate online.

Le cose, poi, hanno iniziato a cambiare. Le ragioni sono soprattutto due: la prima è che, a partire dal 2015, Facebook ha iniziato a limitare drasticamente la visibilità dei contenuti che portavano al di fuori della piattaforma, come i link degli articoli, riducendo sempre di più il traffico che i giornalisti più noti – e le pagine social delle testate – erano in grado di veicolare verso il sito (dal canto suo, Twitter non è mai stato un importante vettore di traffico). La seconda ragione è che, contestualmente, si è compreso quanto la presenza social dei giornalisti potesse avere uno scopo molto più ampio della sola possibilità di portare click ai loro articoli. Anzi, sfruttando le due parole d’ordine dei social network usati a scopo professionale – disintermediazione e personal branding – Facebook e Twitter, a cui si sono poi aggiunti Instagram e TikTok, potevano aumentare l’autonomia dei professionisti dell’informazione, allentando il legame con un’editoria tradizionale sempre più in crisi.

Il mondo dell’informazione è diventato sempre più personalizzato, permettendo in alcuni casi ai giornalisti di portare a termine il processo di disintermediazione e di svincolarsi, completamente o in parte, dalla propria testata.

Le pagine social dei giornalisti, in questa fase, smettono gradualmente di essere uno strumento per generare traffico e diventano sempre di più una vera e propria piattaforma, a cui fornire anche contenuti nativi (che quindi nascono e muoiono all’interno del social) allo scopo di aumentare il proprio seguito e creare nuove opportunità professionali ed economiche (eventi, corsi, spettacoli, workshop, ecc.).

È una dinamica che ha peraltro messo i giornalisti, o almeno quelli più bravi a coltivare la propria community, al riparo dalla costante perdita di credibilità e autorevolezza delle testate tradizionali, consentendo di creare un rapporto di fiducia diretto. Anche il giornalismo entra così in quella che la filosofa Gloria Origgi ha definito l’epoca della reputazione: “Dall’età dell’informazione ci stiamo muovendo verso quella della reputazione, in cui le informazioni avranno valore solo se sono già state filtrate, valutate e commentate da persone di cui fidiamo” (esempio italiano di questo fenomeno è il già citato Francesco Costa e la sua rassegna stampa Morning). 

Il trasferimento della fiducia dal quotidiano di riferimento al singolo giornalista ha però finito per sfuggire di mano proprio alle testate che, incentivando le proprie firme a costruirsi una presenza sui social network, avevano innescato questa dinamica. Il mondo dell’informazione è infatti diventato sempre più personalizzato, permettendo in alcuni casi ai giornalisti di portare a termine il processo di disintermediazione e di svincolarsi, completamente o in parte, dalla propria testata.

E così, il rapporto si inverte: non sono più le testate ad assoldare le firme più note, ma sono le firme più note a liberarsi dei giornali, diventando una one person media company. Di casi, soprattutto internazionali, ce ne sono tantissimi. A titolo di esempio basti citare l’ex giornalista di The Verge Casey Newton, che ha abbandonato la testata per dedicarsi esclusivamente alla sua newsletter The Platformer, o la ex giornalista di Forbes Laura Shin, che da anni si occupa esclusivamente del suo podcast Unchained, dedicato al mondo delle criptovalute.

Eccola la sacra triade del giornalismo contemporaneo: social network (nel frattempo diventati sempre più “media”), newsletter e podcast. Tre mezzi usati con scopi e per produrre contenuti molto diversi, ma che si sostengono l’un l’altro: i social media permettono di aumentare il proprio pubblico, anche offrendo contenuti nativi; la parte più fidelizzata di questo pubblico può poi essere “monetizzata” tramite newsletter e podcast (attraverso varie forme di abbonamento o di partnership commerciali). In tutti e tre i casi, l’attenzione si sposta dalla testata al singolo giornalista, premiando soprattutto chi è specializzato in un ambito molto specifico.

Come nasce un info-encer

Da qui, si arriva inevitabilmente alla nascita di giornalisti, divulgatori e altre figure parzialmente assimilabili che dalle testate tradizionali non sono mai nemmeno transitati e sulle quali non hanno mai pubblicato un articolo. Figure che nascono e crescono sui social media. Veri e propri creator del giornalismo o influencer dell’informazione. Insomma, quelli che il New York Times ha definito “info-encer”.

Questa figura ibrida tra giornalista e creator (termine quest’ultimo che sta però perdendo di significato, mano a mano che i social diventano solo un altro pezzo dell’ecosistema mediatico) conserva ancora parecchie differenze con il giornalista strettamente inteso. Il ruolo dell’info-encer, coerentemente con le competenze richieste nell’epoca della reputazione, è infatti soprattutto di filtrare, spiegare e contestualizzare le notizie, più che di scovarle. 

Esempi tutti italiani di info-encer possono essere quelli di Alessandro Masala, il cui canale YouTube Breaking Italy, attivo da ormai 12 anni, ha 850mila iscritti e ha la missione di “presentare e commentare le notizie più interessanti della giornata”. Un esempio ancora più social è quello di Olimpia Peroni, 200mila follower tra TikTok e Instagram, che sui suoi canali racconta soprattutto vicende di cronaca del recente passato e che è stata poi assoldata dalla testata online Fanpage.

È un curioso cortocircuito: giornalisti sempre più autonomi abbandonano le testate tradizionali e online, mentre le testate tradizionali e online assoldano creator dell’informazione per avvantaggiarsi delle loro nuove competenze e del loro seguito. Sotto questo aspetto, nessuno ha spinto più sull’acceleratore del gruppo britannico Reach (editore di Daily Mirror, Daily Express, Manchester Evening News e parecchi altri), che sul finire del 2023 ha licenziato 450 tra giornalisti e altre figure professionali, assoldando degli influencer al loro posto.

Come ha spiegato l’amministratore delegato Jim Mullen parlando con il Telegraph, “a nessuno piace quando uso la parola influencer, ma abbiamo portato a bordo persone che hanno un seguito e abbiamo iniziato ad addestrarle per assicurarsi che sappiamo scrivere nel modo giusto”. Criticando questa svolta, la rivista The Drum scrive: “Quando l’influencer valica il confine e diventa un ‘info-encer’ vengono coinvolti anche aspetti etici, qualcosa che i giornalisti esperti sono bravi a navigare – essere messaggeri della realtà e questo genere di cose – e che invece agli influencer spesso manca”.

Al di là dei legittimi dubbi che potrebbero esserci sulla statura morale di molti giornalisti e di molte redazioni, non si capisce perché i creator del mondo dell’informazione – crescendo professionalmente – non dovrebbero sviluppare quell’etica professionale che gli stessi giornalisti acquisiscono con l’esperienza (soprattutto laddove manca un codice deontologico ufficiale e un ordine che dovrebbe farlo rispettare). E se invece – come già avviene con cantanti, comici, presentatori e altri – i social fossero semplicemente la fucina dei giornalisti del futuro? E perché le redazioni non dovrebbero integrare figure appassionate di informazione e che hanno competenze molto più ampie del classico giornalista (presenza video, scrittura di testi, montaggio, gestione dei social, ecc.)?

Cos’è più facile, che un giornalista impari ad avere la giusta presenza in video e a produrre e diffondere i suoi contenuti social o che un creator impari a rispettare la deontologia della professione? Forse, dietro questa trasformazione dei ruoli, si nasconde un’opportunità per entrambe le categorie. 

O forse era semplicemente inevitabile che tutto ciò avvenisse: secondo una recente indagine di Pew Research, esattamente il 50% della popolazione statunitense si informa “spesso o a volte” tramite i social network. Uno studio dell’Eurostat ha mostrato come per il 28% della popolazione europea i social media siano il principale veicolo d’accesso all’informazione online (in crescita rispetto al 23% del 2018), superando i siti di news e i motori di ricerca. Non solo: la predilezione per i social vale soprattutto per la fascia anagrafica 18-24, che “ha molta più probabilità di usare i social media invece di un sito o di una app d’informazione”.

Se le cose stanno così, è inevitabile che siano avvantaggiati i professionisti del mondo dell’informazione (o aspiranti tali) che meglio navigano le dinamiche di Instagram e TikTok, e che possono portare in dote alle testate tradizionali un seguito già nutrito. Come ha spiegato il creator di TikTok Dylan Page (10 milioni di follower) in un’intervista, “si tratta di trovare il modo migliore di creare dei contenuti affidabili e di qualità per i mezzi di comunicazione del futuro”.

Sfide e insidie del giornalismo su piattaforma

Lo scetticismo verso questa trasformazione viene solitamente giustificato spiegando che “i social media non vanno bene per l’informazione”, come se fossero intrinsecamente avversi al giornalismo di qualità e adatti solo all’intrattenimento spiccio. Certo, a differenza di quanto avviene sui siti o sulle app delle varie testate giornalistiche, la ricerca dell’informazione sui social non è quasi mai attiva: le notizie compaiono sul nostro feed a seconda di quanto l’algoritmo ci ritenga interessati a politica, temi sociali, ecc (o quanto l’abbiamo addestrato a farlo, seguendo varie testate, giornalisti, divulgatori e così via). Non si tratta però di niente di nuovo: è più o meno quanto avviene con la televisione e lo zapping al posto dello scrolling.

Le logiche algoritmiche possono favorire una ricerca del sensazionalismo ma, fino a questo momento, a diffondere notizie poco accurate e a ricercare la viralità sono state anche e soprattutto le pagine social delle testate tradizionali. Forse gli info-encer sapranno coniugare le metriche quantitative con l’informazione di qualità.

Sicuramente ci sono dei rischi in questa transizione: sui social – ma non su YouTube – funzionano contenuti molto brevi e di facile accesso (video da un minuto e grafiche esplicative), con il rischio di semplificare eccessivamente questioni che richiederebbero maggiore attenzione. 

Non solo: le logiche algoritmiche potrebbero continuare a favorire una ricerca del sensazionalismo e delle opinioni urlate ed estreme. Fino a questo momento, però, a diffondere notizie poco accurate, a ospitare personaggi controversi e a ricercare la viralità a scapito della qualità sono state anche – se non soprattutto – le pagine social delle testate tradizionali, che anche così hanno contribuito a perdere la loro credibilità. Forse gli info-encer, come già avvenuto con i giornalisti più competenti sui social, sapranno coniugare le metriche quantitative con l’informazione di qualità.

Il rischio forse più importante è un altro: quello di cedere troppo potere a piattaforme che possono da un momento all’altro modificare le loro logiche e lasciare i creator dell’informazione con il cerino in mano. È qualcosa che in effetti sta già avvenendo: nel febbraio scorso, Instagram ha deciso di limitare i contenuti di natura politica (a meno che non disattiviate l’apposita impostazione). Da quel momento, i principali account informativi in lingua inglese presenti su Instagram hanno ridotto il loro engagement di oltre il 26% (dati Dash Hudson). E questa potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.

Su TikTok la situazione si complica ulteriormente. A differenza di Instagram, che si è storicamente affidato all’engagement generato tra i follower per decidere quale contenuto rendere virale, il social della cinese ByteDance si affida quasi interamente alle valutazioni, se così si può dire, del suo algoritmo, riducendo l’importanza dei follower, aumentando l’imprevedibilità e quindi anche la necessità di produrre sempre e comunque contenuti che facciano colpo.

In questa transizione ci sono insomma parecchie insidie, ma ciò non vuol dire che si debba ostacolarla. Un po’ perché sarebbe una battaglia persa in partenza (meglio quindi provare a gestirla) e un po’ perché, come si legge su The Critic, “non c’è niente di normale nei giornali di carta o nei programmi d’informazione in tv. Tutti sono meri prodotti di un’epoca e di una tecnologia particolare che l’ha definita”.

Tutti i media e gli strumenti informativi si devono adattare alla loro epoca e approfittare delle opportunità che si presentano. Le newsletter hanno successo perché permettono, grazie al lavoro di chi le cura, di resistere al sovraccarico informativo che caratterizza l’epoca di internet. I podcast hanno successo anche perché si prestano alle vite multitasking che spesso conduciamo, consentendoci di ascoltarli mentre facciamo altro e di scegliere il momento più adatto. L’informazione sui social funziona perché è lì che la gente trascorre gran parte del suo tempo ed è quindi lì che bisogna andare a trovarla. Nel bene o nel male.


Andrea Daniele Signorelli

Giornalista freelance, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per Domani, Wired, Repubblica, Il Tascabile e altri. È autore del podcast Crash - La chiave per il digitale.

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