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Faccio schifo e mi dissocio

Dal goblin mode alle preoccupazioni sulla salute mentale, la rappresentazione di adolescenti e giovani americane nel drama e nella comedy mostrano nuove consapevolezze, alla ricerca di un equilibrio.

A partire dallo scorso marzo sono usciti diversi articoli sul cosiddetto goblin mode: un nuovo trend che a partire da febbraio ha iniziato a spopolare sui social, tra meme e video di ogni sorta. Come spiega Kari Paul sul Guardian, il termine “abbraccia il bello della depravazione”, e consiste nel fare cose tipo passare giornate intere a letto guardando programmi trash e mangiando patatine, o “uscire di casa in calze e pigiama solo per comprare una Coca Cola Zero”. Essere in goblin mode significa prendersi del tempo per sé, non curarsi del proprio aspetto e rifiutare la retorica della produttività a ogni costo. “No more girl bosses, only goblin bosses”, scrive una persona in un tweet diventato virale; e su TikTok si trovano migliaia di video di ragazze che ironizzano sul loro stato mentale, definendo il proprio corpo “un bidone della spazzatura senza data di scadenza” o affermando di essere “un bellissimo disastro”. In questi video non sempre è presente l’hashtag #GoblinMode, ma, come scrive The Face, questo è un trend nato in modo imprevisto, per errore – tutto è partito da un titolo falso su Julia Fox e Kanye West –, che ha catturato perfettamente un mood cinico, pessimista. E un sentimento anticapitalista diffuso, contrapposto a quello iper-positivo della cultura consumistica promosso (soprattutto su Instagram) da “girlboss” e “that girl”: quel tipo di ragazza-influencer sempre truccata, curata, impegnata, e magari anche imprenditrice di sé stessa, che mangia sano e che ha una casa che sembra uscita da un catalogo di arredi. “Cosa diceva Kim Kardashian? ‘Alza il culo, e lavora’? No, grazie, preferisco perdere la testa e iniziare a strisciare a quattro zampe per cercare uno spuntino per la casa”, scrive Jade Wickes sempre su The Face.

“Entrare in modalità goblin” è diventato insomma un nuovo modo di esprimere l’accettazione della perdita di controllo, su di sé e su quello che ci succede intorno, e il rigetto di tutte quelle convenzioni, pressioni sociali e standard di bellezza che colpiscono soprattutto le donne. Già nel 2019 su BuzzFeed Emmeline Clein parlava di “dissociation feminism”: una controreazione al “femminismo iperottimistico, #girlboss,‘Run the World (Girls)’ degli anni Duemila” (rappresentato da Sex and The City), portata avanti da donne sarcastiche, nichiliste, all’apparenza distaccate da tutto, e con atteggiamenti autodistruttivi che non producono nulla di buono. Come Fleabag, regina indiscussa di questo approccio alla vita, caotico e distaccato, che a tre anni dal finale ispira migliaia di video su TikTok con tanto di #FleabagEra: un altro trend che conta 19 milioni di views e fa il paio con il più recente #GoblinMode (2,5 milioni di views). “Ho la terribile sensazione di essere una donna così avida, perversa, egoista, apatica, cinica, depravata e moralmente in bancarotta da non potermi definire nemmeno femminista”, diceva la protagonista in una delle battute più celebri. La serie tv ideata e interpretata da Phoebe Waller-Bridge è uno spartiacque nella serialità televisiva, che ha aperto la strada ad altrettante protagoniste incasinate, sballate, distaccate e disagiate che mentre rivendicano il diritto di fare schifo, sdoganano tabù e ispirano nuovi trend. 

Spirale autodistruttiva

Quello che aveva reso così speciale e originale Fleabag era l’espediente della rottura della quarta parete, attraverso cui la protagonista instaurava un dialogo diretto con il pubblico, estraniandosi dalla realtà. Anche Euphoria (andata in onda su Sky Atlantic), sin dalla prima stagione ha messo in atto lo stesso meccanismo con Rue Bennett, portandolo all’estremo nella seconda. Nel corso dei nuovi episodi la protagonista bipolare e tossicodipendente – brufoli, occhiaie e capelli perennemente spettinati –, con la solita sfacciataggine e (finta) noncuranza ci racconta che vuole continuare a fare uso di droghe ma senza farsi scoprire. Inizia a mentire, manipolare e dissociarsi sempre più da tutto e tutti: nel quarto episodio, per esempio, Rue lascia bruscamente Jules e il nuovo amico Elliot, e corre a casa per abbandonarsi a una potente allucinazione da oppiacei e riabbracciare il padre, morto da tempo. “Hey Lord, you know I’m tired / Hey Lord, you know I’m fighting / I’m sure this world is done with me / Hey Lord, you know it’s true”, canta Labrinth durante la scena. Proprio come Fleabag, anche Rue è una donna a pezzi, e si nasconde dietro una maschera di indifferenza come meccanismo di difesa. Il punto più basso arriva nell’episodio dopo quando scopre che la madre ha buttato la sua valigia piena di droga e inizia a urlare, lanciare oggetti, sfondare porte, spaventando e traumatizzando la sorella: “Vorresti che fossi diversa? Pure io. Mi odi? Pure io, cazzo”, dice la protagonista, per poi crollare a terra un attimo dopo e chiedere scusa, in lacrime, esausta e imbarazzata. “Vorrei disintossicarmi, ma non ci riesco. È che non voglio più stare qui”. Rue preferisce infatti vivere nel passato, in un’illusione che vede il padre ancora vivo e al suo fianco.

Il creatore della serie Sam Levinson ha definito l’episodio un “turning point” perché mette in scena quel momento in cui tutto si infrange, “la vita ti trafigge, e puoi vedere con assoluta chiarezza i danni che la dipendenza può causare in famiglia, agli amici, alle persone che ami”. La seconda stagione, molto più caotica e confusa della prima, sembra per molti versi una scheggia impazzita, come Rue: premurosa e perfida, apatica e iperattiva. La protagonista però non è l’unica a essere un “bellissimo disastro”. Anche Cassie in questa stagione finisce in una spirale autodistruttiva molto simile, pur incarnando un modello femminile opposto con le sue unghie perfette, i completi coordinati e le scarpe firmate: in un episodio, per esempio, appare trasandata e inerte sul divano; in un altro la vediamo alzarsi alle 4 del mattino e fare una beauty routine maniacale; e in un altro ancora vomitare in una vasca idromassaggio, stravolta e ubriaca perché Nate (con cui fa sesso di nascosto) inizia a ignorarla. Cassie è, insomma, una “that girl” che entra ed esce dal goblin mode, oppressa da una società fallocentrica – impersonificata da Nate – che la riduce a oggetto sessuale e la distrugge lentamente. 

“Cosa diceva Kim Kardashian? ‘Alza il culo, e lavora’? No, grazie, preferisco perdere la testa e iniziare a strisciare a quattro zampe per cercare uno spuntino per la casa”. Entrare in modalità goblin è un modo di esprimere l’accettazione della perdita di controllo, su di sé e su quello che ci accade intorno, e il rigetto delle convenzioni, pressioni e standard di bellezza che colpiscono soprattutto le donne.

Con la seconda stagione, Euphoria è diventata la serie tv più tweettata dell’ultimo decennio, al centro di meme come “Sono tipo lei, anche io mi do del genio da sola per idee super di merda”, con riferimento a una battuta di Rue. Su TikTok è sufficiente inserire l’#Euphoria – che conta 45 miliardi di views – per trovare un’infinità di video, che includono commenti dettagliati sui personaggi e rifacimenti di scene. Una delle più popolari è quella in cui Cassie, in piena crisi di nervi, per un momento si estranea e immagina di confessare alle amiche di essere innamorata di Nate: la battuta “I have never ever been happier” è così replicata e applicata nei contesti più disparati, diventando un nuovo trend.

Loop mortale

Alla fine, sia Rue che Cassie vivono in uno stato di negazione, per traumi del passato mai realmente elaborati. Lo stesso succede alla protagonista di Russian Doll (Netflix), Nadia: programmatrice solitaria, sarcastica e nichilista, così dissociata e bloccata nel passato da vivere in un loop che la costringe a morire all’infinito, o tornare indietro nel tempo, letteralmente nei panni della madre e della nonna. “Sono l’abisso”, afferma in un episodio della prima stagione. “Penso di essere un’ombra”, dice in un altro. Nonostante siano passati molti anni, Nadia si sente da un lato in colpa per aver abbandonato la madre Lenora, affetta da disturbi mentali, ma dall’altro è arrabbiata per l’infanzia difficile che ha affrontato a causa sua. Per questo vive una non vita, in un limbo di solitudine, disperazione e autodistruzione, tenendo a distanza tutti per paura di ferire ed essere ferita. Del resto, quando continua a rivivere il giorno del suo compleanno, inizialmente si rifugia nell’alcool, nella cocaina, nel sarcasmo – “Questa è la festa più bella di sempre. Possiamo fare quello che vogliamo e farci chi vogliamo […]. Ci sarà sempre e solo questa festa” – ma finisce anche per trattare la questione con incredibile distacco: “Questa non è una cosa brutta o cattiva. È solo un bug”. Un errore da risolvere, come fosse un videogame.

Alla fine della prima stagione, Nadia smette di morire quando trova il coraggio di condividere ciò che da anni la tormenta, ma anche quando incontra Alan – anche lui bloccato in un loop mortale – e lo aiuta, salvandolo dal tentato suicidio. Allo stesso modo, nella seconda stagione entrambi riescono a tornare nel presente solo dopo aver capito che il passato non si cambia, perché fa parte di noi e va accettato con tutti i suoi traumi, personali e familiari. “Solo guardando a queste cose più in profondità Nadia e Alan possono vivere nel presente. Devono affrontarle, non c’è altro modo”, ha detto in un’intervista la protagonista e showrunner Natasha Lyonne, spiegando l’importanza di guardare indietro per guardare avanti. Qualcosa di molto simile avviene anche nella serie animata Undone (Prime Video): Alma è una millennial cinica, apatica e ossessionata dalla possibilità di cambiare il passato, prima per riportare in vita il padre e poi per aiutare la nonna, affetta da schizofrenia. “Sembra la tana senza fine di un coniglio, è una follia. Stai peggiorando le cose. Devi lasciar stare”, le dice la sorella, grazie a cui riesce a cambiare gli eventi ma a un prezzo altissimo: la perdita di sé. La seconda stagione si chiude con Alma che torna indietro, non per cambiare le cose ma per fare pace con se stessa e imparare a vivere nel “suo presente”. 

Capitalizzare il dolore

È evidente come in tutte queste storie il tema della malattia mentale sia centrale. Proprio in Undone, per esempio, non è chiaro se la protagonista Alma soffra di depressione, schizofrenia o bipolarismo, e fino alla fine rimane il dubbio se abbia davvero viaggiato nel tempo o meno. Di sicuro non è “pazza” e non ha “nulla di sbagliato”, come ripete più volte, respingendo alcuni dei pregiudizi più persistenti sui disturbi mentali. Lo scorso gennaio la rivista studentesca Writer’s Block Magazine ha pubblicato un lungo articolo dedicato al dissociation feminism, intitolato “The Fem Cel™ and Sad Girl Core”, che parte dall’epoca di Sylvia Plath – quando “le donne erano lobotomizzate se esprimevano un briciolo di sofferenza” – e indaga lo sdoganamento della malattia mentale, che andrebbe di pari passo con una glorificazione e capitalizzazione nei media e non solo. “La ragazza triste, depressa, antisociale e autodistruttiva è romanticizzata ovunque”, scrive l’autrice Emilia Barriga, citando Fleabag, la cantante Fiona Apple e il romanzo Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh. In questo modo, secondo Barriga, le ragazze di oggi finiscono per chiedere aiuto, emulando questi personaggi autodistruttivi che “vivono ancora in un mondo misogino, ma fingere che quel mondo sia completamente immutabile mentre ci si ritira da esso è l’epitome del privilegio”. 

Scrollando i video su TikTok sotto l’#FleabagEra, sembra davvero che tutte vogliano essere Fleabag, tra chi si mostra con il trucco colato e chi invece con l’iconica jumpsuit nera indossata dalla protagonista. In molti video, a fianco a #FleabagEra compare anche #RussianDoll (54 milioni di views): una ragazza per esempio reinterpreta l’iconica scena del bagno parlando da sola allo specchio, un po’ stravolta perché in quarantena; un’altra si mostra sdraiata dentro una vasca, mentre cammina con un cappotto nero (come quello di Nadia), con i capelli arruffati e il trucco sbavato, affermando di vivere nella “Russian Doll era”, “la cugina esistenziale più cupa di Fleabag”. A ben vedere, le serie propongono due personaggi che anche quando toccano il fondo non perdono mai la loro coolness, non solo per l’atteggiamento che hanno ma anche per lo stile. Sia Fleabag che Nadia rientrano in quella categoria di protagoniste millennial carine, bianche, cisgender e con diversi gradi di privilegio di classe – come notava Emmeline Clein nel suo pezzo per BuzzFeed – che possono quindi permettersi di non agire, non lottare, non produrre nulla per smantellare il sistema e attuare un reale cambiamento. “Sembra che il femminismo di oggi si stia ribellando a quello delle girlboss ma non si stia ribellando contro nulla”, critica @c.a.i.t.l.y.n in un popolare TikTok sui limiti e sulle contraddizioni di questa tendenza. 

In fuga da se stessa

La domanda sorge allora spontanea: la lotta collettiva viene prima o dopo la propria salute mentale? Pretendere che si faccia sempre qualcosa, invece di crogiolarsi nel proprio malessere o nichilismo improduttivo, rischia di colpevolizzare il singolo e non il sistema che ha prodotto quel disagio, spesso invalidante. In un popolare tweet dello scorso marzo una ragazza scrive “you’re not “going goblin mode” you have clinical depression”, mentre un’altra le risponde “yeah but the clinic is expensive so its fucking goblin mode”, alludendo a quanto sia costosa e inaccessibile la terapia. Prendersi cura di sé e della propria salute mentale però non dovrebbe essere un privilegio né una colpa. E come dice anche Lyonne, a volte è necessario fermarsi e guardare indietro per andare avanti; distruggere per poter ricostruire e ricostruirsi, affrontando tutti gli stadi di un percorso fatto di alti e bassi e mai lineare, in una sorta di elaborazione del lutto. Ne è un esempio la storia di Cassie Bowden in The Flight Attendant, incentrata su un’assistente di volo pasticciona, impulsiva e alcolizzata, così ubriaca da non accorgersi di aver dormito a fianco di un cadavere. Insomma, l’ennesima millennial bianca, magra e cisgender che è anche un “hot mess”.

Fleabag, la serie tv ideata e interpretata da Phoebe Waller-Bridge è uno spartiacque nella serialità televisiva, che ha aperto la strada ad altrettante protagoniste incasinate, sballate, distaccate e disagiate che mentre rivendicano il diritto di fare schifo, sdoganano tabù e ispirano nuovi trend.

Nel corso degli episodi, Cassie entra ed esce continuamente dalla goblin mode – porta sempre con sé delle bottigliette di vodka, fatica a reggersi in piedi, a volte va in giro in tuta e ciabatte – ma anche quando riprende a truccarsi e viaggiare da una città all’altra, in realtà, continua a dissociarsi per “ritornare” da Alex: l’uomo con cui è andata a letto e ha trovato morto la mattina seguente, al centro di varie allucinazioni. La protagonista discute, fa congetture con Alex e solo a lui, per la prima volta, racconta il trauma che la perseguita sin da ragazzina, legato alla morte del padre: “Ero la sua compagna di bevute. Beveva così tanto solo quando era con me. È colpa mia se è morto. […] Ma non volevo che la gente mi guardasse e lo capisse. Così sono scappata, come se non fosse mai successo. Come ho fatto con te e come faccio sempre con tutto”. The Flight Attendant racconta una storia su dipendenza, elaborazione del trauma e della perdita, ma anche sulla difficoltà di rimanere sobri. All’inizio della seconda stagione Cassie ha smesso di bere, lavora per la Cia e ha una vita all’apparenza stabile, ma ben presto tutto ricomincia a precipitare, a causa di un nuovo mistero da risolvere che diventa solo l’ennesimo tentativo di fuga dalla realtà: “Già che sei qui, perché non fai qualcosa di utile e ti scavi una fossa?”, dice Cassie mentre parla con se stessa. Ora la protagonista non vede più Alex durante le sue allucinazioni ma solo tante versioni di sé – lucida, festaiola, nichilista –, che la deridono, la mortificano ed esprimono i suoi pensieri più cupi e profondi. Specie quando ha una nuova ricaduta, e ritorna a bere e a mentire, anche a se stessa. “Pensavo che se avessi smesso di bere tutti i miei problemi sarebbero svaniti. E invece sono ancora tutti lì”, ammette in un momento di maggiore onestà. Come scrive Angie Han su The Hollywood Reporter, “The Flight Attendant, come Single Drunk Female, riconosce che il momento in cui Cassie smette di bere rappresenta solo l’inizio del suo viaggio, e che i momenti più bassi possono arrivare quando la nebbia intossicante dell’alcool si è dissolta”.

Ordinary girl

Anche Single Drunk Female è un altra dramedy incentrata su una ragazza bianca, carina, sarcastica, egoista e allo sbando, che cerca di rimettere in sesto la propria vita e rimanere sobria dopo aver collezionato disastri di ogni sorta. Come arrivare tardi al lavoro, ubriaca e con in mano una bottiglia di vodka, e rifiutare di lasciare l’edificio dopo esser stata licenziata. “Ehi, sono la sopracitata Sam. Stavo solo dicendo la verità ma il patriarcato non sa accettarlo, mi senti? Ma sai che c’è? Mi licenzio!”, urla Sam nel primo episodio, parlando al telefono con la sicurezza, poco prima di azzuffarsi con il capo e colpirlo in testa con la cornetta. Il pilot include una scena che la vede schiantarsi con l’auto, dopo aver ripreso a bere, nonché finire in prigione. Sam si inserisce perfettamente in questo filone di messy/broken girls – non manca il trauma per la morte paterna – ma con alcune, notevoli differenze. 

In primis, il racconto ironico ma realistico sulla sobrietà. Rispetto a The Flight Attendant, Single Drunk Female si concentra molto di più sul percorso di guarigione della protagonista, che passa dal riconoscere che l’alcolismo è una malattia al fare ammenda con la madre e le amiche. L’attrice protagonista Sofia Black-D’Elia l’ha persino definita “una storia gioiosa e piena di speranza”, e solo a tratti malinconica. “Per me, che interpreto Sam, non è del tutto cupa e tetra, il che non vuol dire che non esista quella parte, ma Sam è un personaggio realistico, quindi è tutte queste cose insieme”. Del resto, anche nella seconda stagione di Fleabag, la protagonista mette da parte la maschera di cinismo e per la prima volta si innamora ed entra in connessione con un’altra persona, il famoso hot priest, senza rinunciare al sarcasmo e al suo essere disfattista: “Non farmi diventare un’ottimista, mi rovinerai la vita”, dice al Prete in una scena. Diversamente da Fleabag, però, Sam non ha uno stile sofisticato, né fa una vita cool come Cassie in The Flight Attendant, ma anzi indossa jeans e t-shirt anonime e fa la commessa in un supermercato. Single Drunk Female evita il rischio di glamourizzazione del dolore, mettendo in scena la storia di una ragazza come tante. Lo stesso vale per le protagoniste di Smilf, Shrill, I May Destroy You: tutte millennial incasinate, perse, spesso sballate, un po’ rotte e allo sbando, che tentano come possono di andare avanti con le loro vite.

Diventare feral

Se è vero che Fleabag ha creato un prima e un dopo nella serialità tv e nell’immaginario collettivo, non si può dimenticare che qualche anno prima Girls di Lena Dunham fece lo stesso. Anticipando l’archetipo della millennial bianca, caotica e tormentata, così popolare oggi, ma suscitando reazioni opposte: Hannah Horvath venne ribattezzata l’unlikeable woman per eccellenza, “uno dei personaggi più antipatici della tv”, spesso percepita come lagnosa persino dal suo pubblico di riferimento. Inoltre, come scrive Emmeline Clein su BuzzFeed, Hannah non si dissociava affatto ma “viveva pienamente nella sua pelle, per quanto scomoda fosse”, sdoganando l’idea che anche le donne possono essere pigre, combina guai, inaffidabili, meschine e poco attraenti. Tratti di norma socialmente accettati (e quindi rappresentati) nelle controparti maschili. Anche la comedy Broad City ha fatto qualcosa di simile, raccontando la storia di due amiche scansafatiche, pasticcione, strafatte, così sregolate da sembrare sempre in goblin mode. Non perché stiano male ma perché semplicemente gli va. Tra le serie più recenti, invece, l’unica che sembra abbracciare la modalità goblin come vero e proprio stile di vita è la comedy Awkwafina is Nora from Queens (inedita in Italia), ideata e interpretata dalla comica Awkwafina: l’attrice veste i panni di una millennial asian-american irresponsabile e disillusa dalla vita, che lavora solo perché costretta ma in realtà non vorrebbe fare nulla se non giocare ai videogiochi, farsi le canne e masturbarsi. 

Jade Wickes su The Face scrive: “Il bello del goblin mode è che ognuno ha la propria visione di ciò che significa e di come dovrebbe essere. È aperto all’interpretazione, è uno stato d’animo assolutamente democratico in cui chiunque può entrare e uscire quando vuole. Non ha confini e non ha genere”. Eppure, sono proprio le donne a voler lasciarsi andare e abbracciare il disfacimento più totale, come dimostra anche un altro trend esploso su TikTok di recente, chiamato feral girl summer: al momento, l’hashtag dedicato conta 3,4 milioni di views e comprende migliaia di video in cui ragazze millennial o della Gen Z rivendicano il diritto di essere “selvagge”, fregandosene di tutto. “Non mi pettinerò i capelli. Deciderò quale t-shirt indossare in base a quanto puzza di crema solare”, dice una tiktoker, mentre un’altra afferma: “Non sarò that girl. Al contrario, perderò il telefono e lascerò i miei amici al bar per parlare con gente che non conosco. Diventerò una feral club rat in una bettola”. Un’altra ragazza ancora, invece, dice che non si alzerà mai alle 5 del mattino per bere frullati, piuttosto preferisce bere “Coca Cola Zero di prima mattina” e mangiare “un pugno di pasta cruda come spuntino”. Quest’ultimo trend non aggiunge molto di nuovo, anzi non fa altro che attribuire un nuovo nome a un fenomeno già esistente, tanto che anche le icone di riferimento combaciano quasi del tutto – oltre all’immancabile Fleabag, sui social si citano le protagoniste di Girls e Broad City, ma anche Rob di High Fidelity. Eppure, è proprio nella ripetitività che si trova la novità di questo cambio di paradigma, la stessa ripetitività proposta anche dalla serialità tv ossessionata dal raccontare queste donne stufe di sforzarsi, di fingere di star bene, di essere piacenti, altruiste, virtuose tanto da essere ormai un cliché. Roxane Gay in Bad Feminist scriveva “Quando una ragazza è antipatica, una ragazza è un problema”, ma come direbbe Rue di Euphoria “Lasciati andare. Lascia fare a Dio”, perché ormai non ha alcuna importanza.


Manuela Stacca

Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.

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