Una parola che si è diffusa da poco negli spazi digitali, carica di significato e spesso intraducibile. Ma anche un modo di guardare alle situazioni molto più radicato, sui social e anche in televisione.
Capisco bene quel fastidio a metà tra un oltranzismo purista e l’illusione che la nostra lingua possa restare immune ai cambiamenti sociali e culturali che ci spinge a mal sopportare una serie di anglicismi spesso inutili, a partire dallo slang dei paninari degli anni Ottanta. Aveva ragione Nanni Moretti quando prendeva a ceffoni la giornalista che diceva cheap, e sentir parlare qualcuno di deliverare è disarmante: in quello schiaffo dato a bordo piscina c’è un po’ di soddisfazione per ogni amante del bel parlare, convinto che se la parola esiste in italiano si dovrebbe farne uso. Ma, come dice Michele Apicella in Palombella rossa, “le parole sono importanti”, e ci sono alcune usanze linguistiche che prescindono dalle mode giovanili o dal gergo di businessman dalla fattura facile. Parole e modi di dire che si intrecciano con la nostra vita sia per via di un prestigio culturale, sia per il bisogno di condividere un codice uguale per tutti nei territori di scambio digitali. Internet non è solo uno spazio fatto di social e account, è un luogo dove anche la lingua si modifica e si adatta a nuove usanze, a nuove regole: per questo non tutto ciò che sembra vezzo modaiolo lo è davvero. Se esiste un modo italiano di dire mission, deadline o call, non è altrettanto facile tradurre di preciso qualcosa come Ok boomer, né è semplice spiegare cosa sia una “Karen”, o cosa si intenda per wholesome meme.
Certi termini hanno un carico concettuale non indifferente: cringe è uno di questi. Cosa vuol dire esattamente non è semplice da spiegare, motivo per cui non esiste ancora una traduzione esaustiva che racchiuda bene tutte le sue sfumature di senso; l’Accademia della Crusca lo ha inserito nel suo elenco delle parole nuove, ma ciò ha forse reso la sua presenza nel linguaggio contemporaneo ancora più oscura e ostile. È un meme, una reazione, una parola chiave, un termine jolly usato – spesso anche sconfinando dal suo significato – principalmente per accreditarsi dal lato giusto della barricata. Se non sai cos’è il cringe, forse è perché sei tu stesso a essere cringey.
La vecchia imbellettata, c’est moi!
Nel suo saggio L’umorismo del 1908, Luigi Pirandello – che di ironia si occupava da prima che questa fosse condensata in fiumi di meme – fa una distinzione tra avvertimento del contrario, proprio della comicità, e sentimento del contrario, proprio invece dell’umorismo, usando il celebre esempio della vecchia imbellettata. Una signora di una certa età, vestita in modo esageratamente giovanile, truccata male, con i capelli unti; noi osservatori avvertiamo che quel modo di apparire non si confà alla sua età, e da qui la risata, il grottesco che si traduce in divertimento, come uno scivolone sulla buccia di banana dove però la caduta è di stile. Ma l’osservazione di quel fenomeno da baraccone si può spingere più in profondità se oltre ad avvertire cominciamo a sentire, e la risata piomba nel silenzio – come si dice, “fa ridere ma fa anche riflettere”. La vecchia imbellettata sta provando a camuffare la sua essenza di donna ormai sfiorita con orpelli e artifici, che invece di aiutarla a sembrare più bella la rendono solo ridicola; sta facendo ciò che su internet si direbbe try hard. Riflettere su questo sentimento del contrario, andare un po’ più in là della semplice visione di un’immagine dove qualcosa non quadra, ci porta a vederne non solo l’aspetto comico, ma anche quello tragico, morboso, voyeuristico e crudele.
Sprofondare in una spirale di Schadenfreude – ecco, altro forestierismo, ma suona più colto per l’austerità teutonica – è qualcosa a cui siamo avvezzi, una forma di intrattenimento che fa leva sull’aspetto catartico e rincuorante di non trovarsi nel luogo dell’imbarazzo ma di limitarsi a un disagio indiretto – c’è infatti a chi questa forma di umorismo non piace affatto. Internet, da questo punto di vista, è il regno delle vecchie imbellettate, una vasta prateria di imbarazzo, un palcoscenico a cui tutti possiamo accedere, spesso senza filtri, molto spesso senza successo, una sorta di freak show a banda larga in cui ciascuno può illudersi che quegli abiti, quella parrucca e quel rossetto facciano per lui o per lei. Per questo il cringe non è solo un’espressione cool da usare con i nipoti adolescenti per mostrare quanto siamo al passo coi tempi perché abbiamo sentito la canzone di Beba o abbiamo visto che fa fico dirlo ogni tre per due: è un vero e proprio genere, una categoria estetica e ontologica. Del resto il brutto, inteso come asimmetria, assenza di forma armoniosa, è stato oggetto di indagine anche di pensatori di un certo livello, di allievi di Hegel – Karl Rosenkranz e il suo Estetica del brutto –, di Umberto Eco; il fascino dell’orrendo, spesso inteso solo in termini oppositivi al bello, ha in realtà una sua precisa ragion d’essere, e il cringe ne è solo una delle molte varianti.
Cringe like nobody’s watching
Il web, dunque, con la sua moltitudine di occasioni per mettersi in mostra, è il terreno più fertile per questo tipo di esibizionismo osceno. La differenza sostanziale tra qualcosa di imbarazzante, una brutta figura, una gaffe o una papera – tutti elementi cari al pubblico ma che appartengono a uno spettro diverso di sensazioni – e qualcosa di cringe è che se nei primi casi il disagio è provato consapevolmente anche dal protagonista della scena, nel secondo il legame tra soggetto e azione si spezza. Il caso più esemplificativo di cringe è, per esempio, tutto quello che riguarda il mondo dei cosplayer: una persona che dedica molto tempo, cura e attenzione per somigliare a un eroe di qualche manga giapponese, ma che ottiene un pessimo risultato emulativo; il try hard, appunto, portato all’ennesima potenza in un universo dove l’emulazione è lecita solo quando è perfetta. Noi ce ne rendiamo conto, ma il soggetto interessato no, e se nel caso di un inciampo o una gaffe il momento di tensione si interrompe con la consapevolezza da entrambe le parti della straordinarietà di ciò che sta accadendo, nel cringe rimane sospeso e univoco.
Tik Tok è il regno per eccellenza del cringe, proprio per via della sua natura comunicativa strettamente codificata e idiosincratica, elementi che lo rendono tutt’altro che un safe space per chi non è avvezzo alle sue rigide regole espressive. Motivo per cui esistono fior di compilation sul cringe di Tik Tok, minuti e minuti di video montati in sequenza, raccolti in giro per il social della Generazione Z con titoli come “Try not to cringe”, che potremmo considerare in qualche modo prosecuzione del genere memetico epic fail. Il fallimento, infatti, è il cuore pulsante del cringe: fallimento come gamer, fallimento come ballerina, fallimento come qualsiasi cosa si stia provando a fare con convinzione ma che risulta in una performance tanto brutta da far rabbrividire chi la guarda. E non c’è luogo migliore per apparire inadeguati di un social fatto perlopiù da teenager – dove la performance, canora, danzereccia o recitativa che sia, è al centro del contenuto – che non vedono l’ora di vederti fallire per cacciarti fuori. Proprio come in una bellissima scena di Caterina va in città in cui il padre Sergio Castellitto entra nella stanza di Caterina per fare il ganzo con l’amichetta della figlia, “Chiedi a mamma se mi prepara un coffee?”; ahia, che cringe.
Lolcows e altre amenità
In un interessante approfondimento sul tema, la youtuber Natalie Wynn, anche se forse il termine in questo caso è riduttivo, sul suo canale ContraPoints raccoglie una serie di esempi concreti di personaggi di internet – perlopiù parte delle comunità trans o LGBTq e che lei definisce “beta-female/male” – che sui social sono diventati protagonisti di saghe del cringe. Il termine preciso che inquadra il fenomeno, quello di individuare una persona ritenuta cringe e spronarla a esserlo sempre di più in nome dello spettacolo, è lolcow: così come si munge una mucca, è possibile trarre dal soggetto cringe quanto più contenuto umoristico possibile, senza che questo sia consapevole della vera natura dello show in atto.
Nella storia dell’internet italiano, ci sono vari esempi di famose “mucche del lol”, tutte perlopiù attive su canali YouTube in cui il pubblico accorre numeroso per assistere a questo circo fatto in casa. C’era Gemma del Sud, ragazza che cantava come fosse Lady Gaga, ballava come fosse Shakira, e si esibiva come se il palco degli Mtv Music Awards fosse nella sua stanza con il pavimento di marmo a scaglie; nulla di tutto ciò le riusciva bene, anzi, era decisamente poco portata per queste esibizioni – di lei si disse che era morta, che era stata rapita, che quei video strani erano un appello per salvarsi da una prigionia. Pure Sara Tommasi per molto tempo è stata una lolcow italiana in vista – ora per fortuna sembra essersi del tutto ripresa da quel periodo oscuro –, dal momento che Andrea Diprè, personaggio di dubbia morale che rastrellava fenomeni da baraccone per il suo show grottesco, l’ha coinvolta in uno strano giro di pornografia e droga, da cui vennero fuori video che più che erotici sembravano appunto comici.
Tra gli esempi più recenti, spiccano FolletinaCreation e Chiara Dalessandro: la prima, palermitana, consacrata al grande pubblico televisivo grazie a Ciao Darwin e varie ospitate da Barbara D’Urso, riproduce le dinamiche della vita di un’influencer coltivando una macabra passione per le bambole reborn – oggetti molto cringe; la seconda, invece, nutre il suo canale YouTube con ore e ore di vlog in cui racconta qualsiasi aspetto della sua vita o membro della sua famiglia. Dalessandro utilizza il linguaggio, i temi, lo stile di una influencer ma lo fa in una vita di periferia, in un corpo tutt’altro che conforme ai canoni instagrammatici, con la quotidianità sottoproletaria di un mondo che imita la forma ma fallisce nei contenuti. Gli haul sono all’Eurospin o da Primark, le vacanze non sono a Bali ma a Milano Marittima, il matrimonio in pompa magna celebra l’unione con il marito con un buffet servito su piatti di plastica.
Chiara Dalessandro è sostanzialmente l’anti-Chiara Ferragni: se una è bionda, magra, ricca, l’altra è in evidente sovrappeso – cosa che non la ferma dal fare svariati video mukbag –, con una chioma scura e crespa, e vive in un quartiere periferico di Milano certo non famoso per le architetture avveniristiche. Entrambe hanno un pubblico, anche se l’intento con cui le si guarda è diametralmente opposto, visto che una fa da icona aspirazionale e l’altra, probabilmente, da capro espiatorio per i nostri incubi peggiori, quello di essere qualcuno che ci prova tanto ma non ci riesce.
Il re è nudo, il cringe è forte
Sebbene sia internet lo spazio prediletto per il cringe, vista l’insita libertà di contenuto e condivisione, anche la televisione non è da meno. Barbara D’Urso, che in questo circo di personaggi che diventano popolari per il fatto di essere chiaramente impopolari ha di diritto cilindro in testa e frustino in mano, riporta in modo sistematico sotto ai riflettori tutto ciò che il “popolo del web” – come piace tanto dire ai presentatori televisivi – individua e celebra. Ma il lavoro di talent scouting non è confinabile solo a una riproposizione di anti-star dei social, dal momento che è la tv stessa a fornire grandi momenti di cringe, solitamente ritenuti però accessorio di programmi che hanno invece il focus sul talento, il successo, il conformismo agli standard di bellezza e bravura che ti rendono l’America’s next qualcosa.
Non bisogna però confondere il cringe con il trash consapevole e orgoglioso: per intenderci, sarebbe cringe vedere Bianca Berlinguer che da seria professionista del giornalismo si agghinda senza traccia alcuna di auto-ironia per un falò di confronto con un compagno fedifrago che le rinfaccia di aver ballato reggaeton con quel burino palestrato – sentimento del contrario, imbarazzo, confusione. Il cringe in tv è un contenuto extra, parallelo al concetto stesso di reality: basti pensare alle audizioni andate male di X Factor, ai provini del Grande fratello – e su questo la Gialappa’s ha fatto scuola –, distillati puri di Schadenfreude che convergono in un profondo senso di disagio, meno male che là non ci sono io. La terra sconfinata del sentimento più spontaneo non manca di generare situazioni cringe, quando vediamo concorrenti famosi immersi in un contesto di sincerità a cui non siamo abituati. Il re è nudo, la parrucca è caduta, la tinta per capelli è colata, il rossetto è sui denti, insomma l’artificio è svelato e così anche il tentativo di apparire migliori o diversi da quello che si è. Ma il confine tra sadismo e imbarazzo di seconda mano è, come spesso succede per temi così ambigui, molto sottile, ed è interessante notare che esiste una biforcazione anche all’interno del cringe stesso, visto che si può intraprendere sia la via della compassione sia quella del disprezzo, entrambe valide per fruire di questi contenuti.
In tutti e due i casi, l’oggetto dell’intrattenimento è in una posizione di svantaggio, dal momento che non è consapevole di ciò che sta avvenendo – altrimenti, appunto, sarebbe semplice imbarazzo. Ma non tutto il male viene per nuocere: guardare qualcosa di cringe può stimolare anche un senso di empatia, investendo di una certa autorità anche chi da anti-eroe si prende lo spazio sotto al riflettore. Insomma, la verità è che c’è spazio per tutti, sia nel mondo scintillante del successo e dello splendore, sia in quello sommerso della bruttezza e del fallimento, senza cui il primo non esisterebbe: come facciamo a dire che cosa è vincente se non sappiamo che cosa è perdente? E se la bellezza è negli occhi di chi guarda, lo stesso vale per il cringe, e non è scritto da nessuna parte che i due concetti non si possano invertire.
Alice Valeria Oliveri
Giornalista e autrice. Nata a Catania nel 1992, dal 2014 si occupa di televisione, cinema, musica e nuovi media collaborando con diverse testate. Dal 2019 è analista nel programma di Rai3 Tv Talk e dal 2022 è autrice e host del podcast Il decennio breve, prodotto da Hypercast. Collabora con Mediaset Infinity come autrice di format video. Nel 2023 ha pubblicato il suo primo romanzo, Sabato champagne, edito da Solferino e nel 2024 ha pubblicato il saggio Mondovisione per Einaudi.
Vedi tutti gli articoli di Alice Valeria Oliveri