Tra le figure più rappresentative del cinema italiano contemporaneo, l’attore e regista romano si è ritagliato addosso un personaggio rappresentativo del pubblico e del Paese, il tradizionalista buono.
Edoardo Leo è un caso nel cinema italiano. È uno dei pochi attori oggi di primo piano a essere emerso quasi in autonomia, prima dirigendo un film in modo da poter essere (finalmente) protagonista di una storia che lo valorizzasse, Diciotto anni dopo (2009), e poi lavorando con registi emergenti fino a centrare quello giusto: Sydney Sibilia e Smetto quando voglio (2014). In cinque anni diventa un attore italiano di prima fascia e da lì, di ruolo in ruolo, inizia a costruire su se stesso un personaggio che diventerà quello che a tutt’oggi lo identifica e che porta con sé in quasi tutti i film che interpreta. Lo ha fatto scegliendo accuratamente i titoli a cui prendere parte e i personaggi da interpretare, ma anche contribuendo a dare forma a quei personaggi con la sua personalità e infine continuando a dirigere.
Così, dal 2014 in poi, nasce il film da Edoardo Leo, quello cioè in cui il centro di tutto è il “personaggio Edoardo Leo”, un carattere molto ben definito da cui si stacca in casi rari (è capitato per esempio in Non ci resta che il crimine, in cui è un criminale da operetta, o in Noi e la Giulia e Gli uomini d’oro) e che nel tempo si è affermato come il ritratto più affidabile del piccolo borghese medio contemporaneo.
Un uomo qualunque
L’uomo Edoardo Leo non si siede alla tavola dei migliori, non è affermato, non è certo il borghese in crisi che domina il nostro cinema impegnato né tantomeno l’affermato professionista delle nostre commedie, né ancora è lo squattrinato buffo degli anni Cinquanta o Sessanta. Non è uno spietato profittatore come le nostre maschere migliori (non ultimo Checco Zalone), è medio, è innocuo, forse non vota, si accontenta di poco e se non riesce ad averlo non ce la fa sempre per un pelo. Se si potesse usare una sola parola per definire questa tipologia umana sarebbe “tradizionale”. Preferisce la pizza e un supplì se può, vorrebbe avere un figlio e ci sa fare con i bambini perché “è ancora un po’ come loro”, di certo non ha alcuna ambizione di carriera, anzi. Tifa una squadra di calcio. A scuola non andava bene ma la sfangava sempre. Vede gli amici di sempre la sera, anche se la moglie o fidanzata un po’ lo riprende per questo, gioca a calcetto anche se forse non ha più l’età per farlo e spesso si fa male, in vacanza sta dai genitori ma i parenti in linea di massima non li sopporta troppo e ha litigato con uno di loro. È uno di quelli che online condivide i meme meno divertenti e più abituali, quando usa internet almeno. Perché tutte queste sono caratteristiche ordinarie, ma quello che davvero rende Edoardo Leo l’interprete dell’italiano medio è la maniera particolare in cui incarna il fastidio per il nuovo.
I personaggi di Edoardo Leo non sono mai marcati, quindi la tecnologia la usano ma non ne vanno matti e non la usano bene. Il sushi lo mangiano ma senza grandi entusiasmi e se possono preferiscono “una bella spaghettata!”, sono esseri umani che il mutamento sociale ha lasciato un passo indietro. Non sono maschilisti, perché sono sempre brave persone, però sono attaccati alle vecchie ritualità dei ruoli di maschio e femmina. È l’italiano che adora immaginare il ritorno al passato, che sogna la casa in campagna lontano dal fragore della città, che maledice i social scrivendo post sui social, che pensa che la società stia andando in malora perché esistono gli smartphone. È quello che tollera tutto e tutti ma comunque non capisce le nuove forme di sessualità liquida ed è fiero di dirlo. Il mondo di mamma e papà, le cose di una volta, la piccola sicurezza della strada già battuta invece di quella nuova.
Figura del contemporaneo
Sembra poco e invece è tantissimo. Su questa figura sono impostati la maggior parte dei film di cui è protagonista o in cui è co-protagonista (come in Perfetti sconosciuti). È l’unico tra gli attori italiani di primo piano di oggi arrivato a identificare la propria immagine con una tipologia precisa di italiano, non con una maschera o un carattere preciso (come Marco Giallini o Rocco Papaleo), ma con un modello di italiano tipico di questo periodo storico, nello stesso modo in cui Sordi aveva identificato la propria con l’italiano cialtrone e arraffone degli anni Cinquanta e Sessanta, o Vittorio De Sica, in tarda età, con l’uomo di mondo decaduto, o ancora Nino Manfredi con il tenero sconfitto dalla società dei consumi.
È medio, è innocuo, forse non vota, si accontenta di poco e se non riesce ad averlo non ce la fa sempre per un pelo. Ma quello che davvero rende Edoardo Leo l’interprete dell’italiano medio è la maniera particolare in cui incarna il fastidio per il nuovo.
Tuttavia, ognuno di questi attori dell’era classica quando rappresentava una categoria umana specifica lo faceva per criticarla e prenderla in giro, non per offenderla ma per mostrarne i difetti e la pochezza, mai per esaltarla. Edoardo Leo invece il suo italiano medio contemporaneo lo interpreta per blandirlo. Certo è preso in giro (del resto le sue sono molto spesso commedie) ma il finale lo assolve senza dubbi, lo salva e spesso eleva la sua medietà a stile di vita autentico, assecondando la diatriba inventata tra ciò che è considerato in teoria “autentico”, intendendo tradizionale, e ciò che invece è ritenuto “artificiale”, cioè nuovo. Quest’uomo sempre un passo indietro a tutto, indietro sul lavoro, indietro sul proprio tempo, indietro sulle sue donne (sempre più sveglie, dinamiche e attive di lui) nei film con Edoardo Leo è nobilitato da un cuore d’oro, dalla capacità, alla fine, di fare la cosa giusta in virtù dei saldi valori e della “vecchia scuola” che in Italia è l’unica scuola possibile. Molto spesso ha un lavoro di cui non è soddisfatto ma non è colpa sua, è incapace di dare alla sua vita la forma che vorrebbe ma di nuovo non è colpa sua, è che tutto va troppo veloce.
Edoardo Leo è uno dei pochi attori la cui carriera racconta davvero un pezzo di Paese importante, quello che guarda i suoi film. Uno dei pochi che continua a raccontare i mutamenti antropologici e sociali visti negli ultimi venti anni, e indirettamente anche il rapporto diverso che oggi il cinema ha con il pubblico. Per buonissima parte del Novecento il cinema in Italia è stato il luogo in cui si andava per essere provocati, per guardare qualcosa di sconvolgente o per vedere il prossimo preso in giro. Non lo facevano solo i film maggiori, anche Bombolo prendeva in giro il suo pubblico di riferimento, ne mostrava l’ignoranza e la rozzezza (salvo poi esaltarlo con l’altra mano). Anche Carlo Verdone lo ha sempre fatto, e in un certo senso più blando anche il più recente Pieraccioni ha sempre ritratto il suo medio borghese come uno sconfitto un po’ ignavo per quanto simpatico.
Rappresentare e blandire
Edoardo Leo invece è figlio di un atteggiamento completamente diverso del cinema, che vuole interpretare il sentire dello spettatore e rappresentarlo, che mette in scena direttamente turbe e patimenti, spaesamenti e tensioni dichiarandoli, per poi chiudere sempre all’insegna dell’assoluzione. Anche in Mia, un dramma tragico in cui è il padre di una ragazza abusata psicologicamente dal fidanzato e da questo condotta al suicidio, è il solito uomo-Leo: padre amorevole e tradizionale, dimesso e di basse aspirazioni, di leggera scolarizzazione e nessuna lettura ma alta dignità, uno che soffrirà come si soffre nelle tragedie e ma uscirà fuori come il personaggio migliore di tutti. Se il film non può essere paragonato a Un borghese piccolo piccolo è proprio perché qui il padre non è un mostro del fascismo, ma lo specchio degli spettatori che rimanda l’immagine migliore possibile.
Il successo che Leo ha trovato tra il 2014 e oggi, quando Era ora, film italiano di Netflix diventato in fretta uno dei più grandi successi italiani distribuiti dalla piattaforma, nel nostro Paese e soprattutto all’estero, è il punto più alto di questo lavoro di identificazione e quindi racconto di quegli spettatori. Molti attori sono ammirati, seguiti e scelti perché hanno conquistato gli spettatori con il fascino, il carisma o la verve, mentre Leo non punta su niente di tutto ciò ma sull’evidente capacità di rappresentare chi guarda o il suo vicino di casa. La ricaduta di tutto ciò è l’elevazione a grande parabola umana delle meste avventure dei suoi personaggi in film di elementare riflessione. Il suo cinema, e quello a cui prende parte, è del tutto in linea con i gusti semplici e senza pretese della tipologia umana rappresentata, garanzia di facile impegno. Sono commedie con un sottofondo profondo che sta in superficie, che fanno riflettere senza però mai riflettere, dense di una forma originale di impegno disimpegnato.
Impegno disimpegnato
Proprio perché non ridiamo mai di lui ma sempre con lui, questi film sono l’apoteosi dell’uomo in maglietta, jeans e scarpe da ginnastica, il quarantenne con felpa o in giacca e maglietta (nelle occasioni migliori), e l’apoteosi al tempo stesso dei film che si rivolgono a questo pubblico e lo trattano nella stessa identica maniera in cui Leo tratta questi suoi personaggi: pettinandoli. Al contrario di Sordi e di Fantozzi, i personaggi di Leo sono delegati di massa, sono quelli che dicono ciò che i loro spettatori pensano ma non articolano, che sentono ma sono sempre a un passo dall’esprimere chiaramente. Non a caso è diventato in breve il re di un classico moderno del cinema italiano: il lancio del cellulare. La scena in cui si impreca contro le nuove tecnologie che implicano nuovi costumi, nuovi atteggiamenti e nuove impellenze. Con l’approvazione silenziosa del pubblico si maledice il cellulare e lo si lancia. Preferibilmente in mare ma va bene ovunque. In alternativa si può anche rompere un computer.
Quest’uomo sempre un passo indietro a tutto, indietro sul lavoro, indietro sul proprio tempo, indietro sulle sue donne (sempre più sveglie, dinamiche e attive di lui) nei film con Edoardo Leo è nobilitato da un cuore d’oro, dalla capacità, alla fine, di fare la cosa giusta in virtù dei saldi valori e della “vecchia scuola” che in Italia è l’unica scuola possibile.
Quella della resistenza non violenta al mutamento e della fatica dell’esplorazione e della scoperta del nuovo, preferendo la tradizione, il mondo in cui si è cresciuti e rimanere quanto più possibile refrattari ai cambiamenti, è il tema che striscia in tutto il cinema popolare italiano degli ultimi vent’anni (per rimanere stretti). Nessuno però lo espone chiaramente come Edoardo Leo, che con i suoi personaggi lo mette in primo piano e ne fa (secondo declinazioni ogni volta diverse) il contrasto che vivono lungo lo svilupparsi dell’arco narrativo dei vari personaggi. Talmente tanto che adesso c’è chi usa proprio questo personaggio che Leo ha attaccato a sé. Un regista abile e intelligente come Gianni Zanasi per esempio l’ha usato in War. La guerra sognata. Lì la storia è di totale fantasia: l’Italia entra in guerra armata con altri Paesi europei, di colpo piombando in una situazione da carri armati nelle strade, bombardamenti e resistenza armata. In mezzo a tutto questo Miriam Leone è un personaggio eroico e idealista, la figlia di un generale. Lei potrebbe evitare l’inevitabile e incontra Edoardo Leo, l’essenza dell’uomo medio di buon cuore, come sempre travolto dagli eventi, un po’ vigliacco, facile a innamorarsi, ideologicamente debole e quindi disposto anche a unirsi a gruppi dalle idee discutibili, ma in fondo pronto a fare la cosa giusta di fronte agli eccessi. Anche nella fantaguerra Edoardo Leo è Edoardo Leo, e il paradosso è che proprio in questa ricerca del contrario della modernità incarni alla perfezione una fetta importante degli italiani contemporanei essendo, per estensione, anche lo specchio di molti atteggiamenti del Paese che li contiene. È uno dei pochi attori ad aver realizzato l’obiettivo di raccontare lo spirito del proprio tempo attraverso il cinema. Non è l’unico a provarci, Massimiliano Bruno per esempio in tantissimi film diversi ha tentato di fare critica sociale e di costume, partendo sempre da una posizione piccolo borghese e mai da quella più acuta e intellettuale da cui di solito, in Italia, si fa critica sociale. Ma di certo è stato il più efficace e quello in cui, numeri alla mano, gli spettatori più si sono riconosciuti.
Gabriele Niola
Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.
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