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La morte del commissario Cattani

Il primo finale di stagione di una serie televisiva italiana è stato un evento partecipato, discusso, criticato. Oggi quell’episodio ci insegna a riflettere su come è cambiata la narrazione seriale, insieme ai suoi obiettivi, e i suoi possibili finali.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          La morte del commissario Cattani

Lunedì 20 marzo 1989 il commissario Corrado Cattani moriva su Raiuno davanti a 17 milioni e 200 mila spettatori. Prima del finale di Game of thrones – certo quest’ultimo seguito in contemporanea da milioni di spettatori sparsi per il mondo – ci fu, almeno per noi italiani, la morte del commissario antimafia interpretato da Michele Placido. I finali di stagione, e di intere serie, sono grandi catalizzatori di pubblico.

Crimen meum, tuum, suum. Che sera criminale è stata quella di lunedì” suggeriva Oreste del Buono sul Corriere della Sera del 22 marzo. Impegno civile e successo di pubblico, La piovra è stato uno sceneggiato moderno per i tempi, capace di dare voce e forma a un tema (e un genere) della nostra realtà. Lontano da quelle agiografie storiche e letterarie di cui la nostra tv è sempre stata piena. La piovra non finisce con la morte di Cattani, va avanti. 

E l’anno dopo c’è una polemica sempre sul “finale di stagione”. Un giornale mostra sulle sue pagine i due possibili finali che sarebbero stati girati, uno lieto e uno tragico: oggi sarebbe impensabile suggerire spoiler così evidenti. Dalle pagine de L’Unità il capostruttura di Raiuno Giancarlo Governi afferma: “Come stiamo ripetendo da oltre un mese, de La piovra furono girati due finali ma d’accordo con i coproduttori e gli autori ne fu scelto immediatamente uno: quello che è stato già montato nella quinta puntata e consegnato per la messa in onda già da diverso tempo. L’altro è rimasto in moviola e nessuno ha mai pensato di montarlo”.

Come andrà a finire una storia che amiamo è sempre materia d’interesse, ma oggi è come se ne fossimo ossessionati. Le serie americane dovevano andare avanti il più possibile. Il problema di finire – come, quando e perché – era un obiettivo da rimandare il più possibile. Lo scopo – economico, produttivo, narrativo – era durare il più possibile. Poi è cambiata l’estetica: linee narrative sempre più sviluppate su più stagioni tendono paradossalmente a una chiusura, perché è necessario rispondere a domande come “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, “Che cos’è l’isola?”, “Chi salirà sul trono di spade?”. Poi sono arrivate le cable e soprattutto gli streamer, con nuovi modelli economici: tanti titoli da vedere in binge-watching per mantenere gli abbonamenti. Meno puntate a stagione, meno stagioni, più enfasi sul finale. Come gli sceneggiati di una volta? Così, paradossalmente, c’è anche più delusione: ci si aspetta un’unica, solida, chiusura coerente e convincente per una narrazione seriale che nasce per essere potenzialmente infinita. Così, un finale “deludente” sembra cancellare tutto il percorso fatto precedentemente. Ma questa è la vera fine del concetto di narrazione seriale. Il cui scopo è il percorso, non la meta. Il cui scopo è continuare, sempre e comunque, anche se muore il commissario Cattani.


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Un logo è per sempre – o quasi

La televisione non è solo immagini in movimento, ma design dinamico, un universo di loghi, forme e suoni che diventano per il pubblico segni riconoscibili dell’esperienza audiovisiva.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Un logo è per sempre – o quasi

Erberto Carboni è un celebre designer, architetto, pubblicitario. Realizza il primo logo del servizio pubblico: è squadrato, ha un forte impatto visivo, e il suo lettering ricorda il carattere cosiddetto Egiziano. In una versione diversa la “i” di Rai ha, al posto del punto, la pupilla di un occhio spalancato. Successivamente le palpebre spariscono ma il punto resta grande, a sottintendere quell’occhio. Un altro suo logo è quello in cui la “T” e la “V” si sormontano a formare una sorta di antenna. In un certo senso, i due loghi suggeriscono la potenza del nuovo mezzo, che si diffonderà da lì a breve.

Il logo Rai varierà nel tempo, e anche la storia di questa evoluzione è una delle tante storie del piccolo schermo (un po’ la trovate qui). Vale anche per la storia del primo logo di Canale 5, nel quale il “5” è affiancato dal biscione, simbolo di Milano, con un fiore in bocca al posto del fanciullo. Attualmente il “5” è stilizzato e simula il serpente di una volta, sempre con il suo fiore.

HBO ha una intro per le sue serie: mima una tv appena accesa e non ben sintonizzata su cui poi appare il logo della rete, accompagnato da un suono ormai distintivo. Netflix ha la sua “N” che appare e si scompone in mille colori e quel suono, quel tudum, che scritto così è diventato addirittura il nome dell’evento con cui l’azienda comunica le sue novità ai fan. Perché il logo, e tutto ciò che ci sta intorno, crea l’identità visiva di una rete, ma crea anche un rapporto con gli spettatori, fatto di familiarità e abitudine. 

Fin dai suoi primi anni la tv è anche design. Arriva nelle case degli spettatori attraverso loghi, font, forme e poi colori e suoni, musiche e jingle. Un design in movimento. E movimento significa anche che nel corso dei decenni l’identità visiva muta e si evolve, si adatta e cambia, eppure non deve mai rompere il filo con gli spettatori.
Nell’introduzione al libro Video Sign: l’immagine coordinata delle televisioni nel mondo, Mirko Pajé e Carlo Branzaglia scrivono che l’identità televisiva tende “a essere percepita dall’utente attraverso l’esperienza stessa della fruizione. Un elemento del design, lavorare sull’esperienza, risulta molto tipico sul piccolo schermo, da prima che l’experience diventasse parola d’ordine del marketing […] Il dinamismo tecnico dell’identità televisiva, se non causa, è metafora anche del suo dinamismo evolutivo”. La tv è design basato sull’esperienza, e non smette mai di muoversi, e mutare.


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Maya, o della visibilità popolare

La dimensione televisiva popolare non è solo la culla del mainstream, ma anche un palcoscenico dove storie e identità, solitamente inascoltate, trovano nuova voce per narrarsi.


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Ci sono troppe trame in Beautiful, e io ho troppe poche righe. La questione chiave però è che, dopo un tot di puntate, amori, tradimenti, rivelazioni, sputtanamenti, si scopre che il personaggio di Maya Avant – che ha una relazione con il figlio di Brooke ed Eric, cioè Rick – è una donna trans. È il 2015. È una soap opera. Scrive così Usa Today: “Transgender characters (and sometimes actors who play them) are suddenly everywhere in pop culture – they’re so mainstream they can even turn up on CBS’ long-running daytime drama with a blast of proud network publicity”. Il pezzo cita anche gli esempi della serie Transparent (2014) e di Orange is the New Black (2013). Quelle però sono serie di nicchia, questo è un personaggio della tv generalista, in una soap, in onda nel pomeriggio.

Ci sono realtà prima messe sotto silenzio – per deliberata censura, bigottismo, ignoranza – che a un certo punto diventano rappresentate e rappresentabili, escono insomma allo scoperto sui media, raggiungono una nuova visibilità. Il processo è complesso, i media sono un riflesso di nuove conquiste e nuovi diritti e allo stesso tempo possono essere in anticipo sui tempi, modificando le sensibilità e accelerando i cambiamenti, anche in maniera paradossale. Su certi temi serve la spinta raffinata e complessa rappresentata dalle serie moderne. 

E però serve anche il popolare nel senso più ampio del termine: è più “semplice”, eppure è capace di entrare in tutte le case. Vittoria Schisano è su Netflix con La vita che volevi, ma già nel 2019 era a Un posto al sole e poi nel 2020 a Ballando con le stelle. E cosa c’è di più famigliare di un programma di cucina, tanto più se condotto da Antonella Clerici? In una puntata di È sempre mezzogiorno in onda nel 2021 Chloe Facchini ha spiegato tutto alla conduttrice, come riportato da un articolo del Fatto Quotidiano: “Fare una transizione non significa cambiare vita: ero chef prima, sono chef adesso. Immagina cosa significa crescere con delle etichette: io ho vissuto come gay per 39 anni della mia vita ma io mi sentivo una donna. Alle famiglie voglio dire: quando hanno dei figli omosessuali, transgender o non binari mi raccomando, sosteneteli”. E Facchini diceva tutto questo mentre cucinava un meraviglioso parfait alle fragole.


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La carbonara di Franca Valeri

In tv si cucina da quarant’anni, prima ancora della nascita del food porn e dei celebrity chef. Il primo programma di cucina in Italia racconta gli albori dell’appetito televisivo con una sfida tra ospiti e una carbonara d’alta moda.


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“Mentre cuoce la pasta in abbondante acqua salata – e per cuocere le penne ci vogliono almeno 15 minuti circa – io faccio soffriggere il guanciale in una pentola unta di strutto o semmai di un goccino d’olio. Quando è ben sfrigolata, bella tostata, e la pasta è cotta, ci verso dentro la pasta e mescolo tutto sul fuoco. Intanto ho preparato in una terrina le uova battute con la metà delle due quantità di formaggio, e il pepe e un pochino di sale, in modo che diventi come una crema. Verso il tutto nella terrina, cioè pasta e guanciale, e poi sai non c’è che servirla con il resto del formaggio sopra”. Questa è la ricetta di Franca Valeri per la carbonara. La racconta nel 1974 alla conduttrice Ave Ninchi e al critico enogastronomico Luigi Veronelli, lei nel ruolo della donna pratica, lui in quella dell’esperto. È A tavola alle sette, andato in onda per la prima volta appunto 40 anni fa. È il progenitore di tutti i Mezzogiorno in famiglia e i Masterchef. Alla regia Alda Grimaldi, una delle rare registe donne della tv.

La puntata ha per tema la pastasciutta, e a sfidare Valeri c’è l’attore Raoul Grassilli con le sue tagliatelle al ragù. Mentre i due cucinano, Ninchi e Veronelli intervistano vari ospiti ed esperti pastai, e sottopongono alcune persone comuni a un quiz per imparare a cucinare meglio. Quando le tagliatelle e la carbonara sono pronti, è il turno della giuria: tre cuochi si siedono a tavola, assaggiano, votano sempre coadiuvati da Veronelli. A un certo punto ho pure pensato che avrebbe ribaltato la decisione come Borghese. C’è pure il cibo etnico: nella puntata sul riso un cuoco cinese prepara il riso alla cantonese.

La tv è medium famigliare e per famiglie, che entra in casa a ogni ora, prima dopo e durante i pasti. Non può che avere un rapporto strettissimo con il cibo. Eppure in A tavola alle sette il cibo non è ancora così esibito come oggi, gli ospiti non li vediamo cucinare costantemente. Percepisco la mancanza, perché ormai sono assuefatta, di quella opulenza, che sconfina nel food porn, che è propria dei programmi di oggi. Mi mancano evidentemente tutti quegli ingredienti che rendono ancora più goloso il cibo visto: le inquadrature dall’alto, il montaggio veloce, i primissimi piani sulle pietanze e il rumore degli ingredienti tagliati, sbucciati, sfrigolati – in un mix sinestetico che deve tanto alla tv quanto al web e ai social. Certo, quando Valeri dice che fa rosolare il guanciale nello strutto il mio stomaco reagisce immediatamente. E però mi manca il colore per mangiare con gli occhi quella carbonara. Tanto che quando Valeri deve ingraziarsi la giuria dice che il suo piatto ha tra i suoi pregi anche il colore, è “bianco, giallo e rosa, direi che è un piatto di alta moda”. Grassilli controbatte che mica si mangia con gli occhi. Valeri insiste: “Le persone fini mangiano con gli occhi”. E ha ragione: noi tutti – anche se non siamo persone fini  – ormai mangiamo con gli occhi televisivi. E la vittoria così è della carbonara di Franca Valeri.


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Il teen drama all’italiana

Alla fine degli anni Ottanta i fratelli Vanzina inventano il teen drama italiano, anticipando l’immaginario giovanile americano con un seriale televisivo che ancora oggi influenza la rappresentazione dell’adolescenza nostrana.


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Uno dei grandi successi degli anni Ottanta è Vacanze in America di Carlo e Enrico Vanzina, un teen movie nostrano, casereccio, con qualche tocco lieve da romanzo di formazione. Ai due viene così chiesto di raccontare ancora una volta quel mondo lì, ma in episodi. Nasce così nel 1987 I ragazzi della terza C, “un seriale televisivo moderno (post sceneggiati Rai e pre-fiction) su una classe liceale, una terza C, com’era anche quella di Vacanze in America, dalla quale si recuperano alcuni attori combinandoli con altre intuizioni di casting in famiglia da Amarsi un po’… e Yuppies. I giovani di successo. Titolo mitico, ancora trent’anni dopo, con ascolti ormai impensabili (non solo sul target giovane-giovanissimo), oggi sedimentato nella memoria e nell’immaginazione, un miscuglio irripetibile di (stereo)tipi universali e di notazioni precisissime d’epoca” scrive Rocco Moccagatta nel suo libro Carlo & Enrico Vanzina. Artigiani del cinema popolare.

Dunque, ecco il paradosso: i Vanzina omaggiano i teen movie americani con Vacanze in America, poi da quel successo modellano l’idea per un teen drama televisivo ben tre anni prima di quel titolo che si associa per convenzione alla nascita del genere, cioè Beverly Hills 90210.

C’è pure una puntata di metatelevisione: è la quarta della terza stagione, dal titolo Tele terza C. I ragazzi e le ragazze fondano infatti una loro tv: la bella e ricca Sharon Zampetti fa l’annunciatrice, il trascinatore della classe Chicco fa il regista, l’autore, il produttore ma anche il televenditore, piazzando il placido Bruno in un idromassaggio o elogiando ammirato un sospetto Van Gogh. A corto di soldi, i nostri vanno a chiedere aiuto al commendator Zampetti, l’industrale degli insaccati papà di Sharon (il mitico Guido Nicheli), che propone loro di fare due ore di spettacolo e venti di… pubblicità. Vanno così in onda spot come “Se qualcuno ruba un prosciutto per te, sotto sotto c’è Zampetti”. Lo sponsor non è contento ma ormai ha pagato! Ecco allora il tg con le secchione Elias e Tisini, il talk con “sociologi, opinionisti, tuttologi e intellettuali”, il quiz “quanti würstel ci sono nel recipiente” condotto dall’eterna fidanzata Rossella. Purtroppo però il sogno svanisce, e i ragazzi e le ragazze discutono del loro fallimento su un divanetto, credendo che la telecamera sia spenta. E invece da Milano, qualcuno sta guardando: “Pronto? Sì, sono Silvio. Senti, ho visto per caso in tv certi ragazzi della terza C, li conosci? Uno si chiama Sacchi… mi sta venendo un’idea per il martedì sera su Italia 1”.

I ragazzi della terza C è la valorizzazione tutta italiana di un target importante per la tv commerciale (e non solo): quelli che stanno diventando grandi, un po’ teen e forse anche un po’ più grandi, ma magari già nostalgici dell’adolescenza. È il primo passo traballante di quel genere, il teen drama, che ha saputo creare altri titoli mito a distanza di diversi decenni, grazie a prodotti diversissimi quali Skam e Mare fuori


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Le Coccodè di Graziella Pera

Negli anni Ottanta il corpo diventa veicolo di un nuovo linguaggio televisivo audace e sperimentale. Ad amplificare i suoi messaggi più significativi, e spesso fraintesi, sono i costumi, e la visione di chi li realizza.


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Le gambe delle Kessler, l’ombelico della Carrà, il sedere delle Coccodè. La televisione è anche corpo – per lo più femminile – che si copre e si svela, e che segna il cambiamento. Nel 1956 una calza maglia color carne indossata dalla ballerina Alba Arnova costa la chiusura del programma La piazzetta: lei sembra nuda a causa del bianco e nero! Così poi le Kessler vestono calze nere e pesanti, eppure proprio perché così fasciate quelle gambe si vedono, eccome. Carrà è puro corpo in movimento, al di là di quell’ombelico. Tutto questo allora significa progressiva liberazione dei costumi, emancipazione e libertà, magari naïf eppure inarrestabile. Arrivano gli anni Ottanta e forme, colori, linguaggi, corpi non si tengono più grazie anche alle tv commerciali, al nuovo senso di benessere, alla nuova voglia di evasione. C’è Drive In con le ragazze Fast Food, c’è Colpo Grosso con i suoi spogliarelli, c’è Indietro tutta con le ragazze Coccodè. 

I costumi del programma sono di Graziella Pera, una laurea in architettura. Lavora in teatro, con Marisa Laurito, e viene chiamata da Arbore. “Le Coccodè, gallinelle della porta accanto che devono emanare un’aura di sensualità innocente, non costruita, vengono abbigliate di bianco, di ‘stoffe e tagli infantili’, le penne e le crestine ritagliate nel panno lenci. L’elemento del costume che presenta maggiori problemi ovviamente è la coda: Pera vuole per le ragazze ‘un culetto a punta’ che nasca quasi naturalmente dal corpo. Un banale posticcio in gommapiuma è dunque impossibile, allora viene chiamato uno scultore, Rino Carboni, che lavora sul lattice espanso. Una volta foderato, decorato, arricchito con la testa della gallina, con le piume, garantisce l’effetto che i filmati del programma, ancora molto visionato sul web, testimoniano”. A raccontare il costume delle Coccodè è Fabiana Giacomotti che nel libro del 2014 La Tv alla moda si è occupata di mappare quel gran serbatoio di stili che è il piccolo schermo italiano.

Arbore vuole dare uno stile unico a ogni elemento del programma, tanto che “Pera finisce per vestire anche il pubblico: un cappellino, una coccarda, una cravatta. È la prima volta che accade e, trent’anni dopo, si potrebbe leggere come segnale della trasformazione dell’uomo comune in soggetto televisivo” scrive sempre Giacomotti.

Indietro tutta è la parodia della nuova tv commerciale degli anni Ottanta. È la nascita di uno stile da varietà metalinguistico che influenza ancora oggi tanta tv. Eppure molti non capirono o finsero di non capire l’ironia delle Coccodè, e di tutto il resto. Sarà anche che mettere sempre tutto tra parentesi, ironizzare sempre su tutto, a volte non fa davvero capire le differenze, e c’è chi se ne approfitta. Dice Pera – sempre a Giacomotti – che i suoi epigoni “non hanno saputo cogliere l’ironia limitandosi all’immagine. Per anni il video è stato popolato di presentatori con giacche orrende: io vestivo Frassica di capi che rileggevano le inquartate settecentesche, usando stoffe francesi. Altrove si vedevano taffetà a quadretti con decori di plastica”. Tolta l’ironia dalle Coccodè, ecco allora che diventa facile sdoganare la volgarità, il cattivo gusto, la nudità intesa come pura esibizione del corpo femminile in quanto oggetto.


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La sigla che cantiamo, sempre

Dal 1996 la sigla di Un posto al sole è diventata, per milioni di italiani, l’inno d’elezione della serialità nostrana, leitmotiv del rituale televisivo. Nasce la nostalgia verso un paesaggio sonoro lontano, ricordo della tv di un tempo e del suo legame con la dimensione quotidiana.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          La sigla che cantiamo, sempre

“Se questa vita siamo noi / Lascia le cose che non vuoi / È così poco il tempo per amare / E un posto al sole ancora ci sarà”. C’è chi l’ha letta cantando e chi mente: è la sigla storica di Un posto al sole, la prima soap opera italiana che nel 1996 dà la svolta, insieme ad altri fattori, alla nostra serialità. E sì, perché è anche con Un posto al sole che scopriamo il piacere di produrre e consumare storie di vita lunghe tutta una vita. Da quel momento cominciamo pian piano a pensare sulla lunga distanza, e non più per sceneggiati. 

Siccome – nel momento in cui scrivo – siamo alla puntata 6.471 di Un posto al sole, è questa la sigla che probabilmente ha risuonato e risuonerà di più nella storia del piccolo schermo nostrano. È firmata da Antonio Annona e Bruno Lanza. Così nel 2017 Annona disse in un’intervista a Tv Soap: “Mi capita spesso di ascoltarla per strada, incontrare persone che ne canticchiano il ritornello. E devo essere sincero, tra le tante cose scritte e realizzate questa della sigla di Un posto al sole è l’unica cosa che non mi ha mai scocciato. C’è una sorta di magia e, nonostante la senta e risenta più volte, non mi è mai venuto da dire ‘Basta, non riesco proprio più a sentirla!’. Altra cosa che ho potuto constatare è che piace davvero tanto ai bambini. Addirittura ci sono degli amici di famiglia che mi hanno “costretto” a inviare loro spezzoni di sigla da poter mettere all’occorrenza per far mangiare i propri figli”. 

Quando si parla di sigle tv, lo studioso pesca da quelle in bianco e nero, da Carrà a Mina. Per fortuna a poco a poco è diventata “storia che conta” anche la tv degli anni Ottanta e Novanta, e dunque Cuccarini e Parisi. C’è Cristina D’Avena sul versante dei cartoni animati, insieme ai Cavalieri del Re. Quello che ci lega a queste sigle è l’abitudine (spesso giovanile) più che la bellezza. I clic sonori che riportano alla mente momenti di visione e condivisione televisiva sono tanti. Perfino su TikTok e Instagram alcuni creator elogiano il refrain dell’ora esatta del Tg5 come momento di vita significativo. Figurarsi cosa può far scattare una sigla che va in onda ininterrottamente o quasi dal 1996. 

Il piccolo schermo ha creato una sorta di paesaggio sonoro che non ci abbandona. Mi riporta alla mente una frase di David Lynch sulla differenza tra cinema e tv: “Al cinema si può mettere in scena una sinfonia, mentre in televisione ci si deve limitare a un cigolio. Unico vantaggio: il cigolio può essere continuo”.


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Uan, l’infanzia a colori

Il personaggio più irriverente della televisione italiana negli anni Ottanta è fatto di colla e peluche rosa: si chiama Uan, è un pupazzo, ed è pronto a diventare l’impertinente beniamino di un’intera generazione.


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Ci sono passioni che nascono quando siamo piccoli e poi diventano lavori quando siamo adulti, proprio come è accaduto a Kitty Perria ed Enrico Valenti. Siamo negli anni Sessanta. Perria si trasferisce da Roma a Milano appena sedicenne, grazie al papà che lavora in Rai, e scopre l’animazione per pupazzi. Valenti, invece, si innamora dei burattini grazie a sua nonna, che lo porta a vedere gli spettacoli di un artista itinerante sul lungomare ligure.

Perria fa il suo apprendistato con diverse compagnie, collaborando anche con Enrico Cardura e Maria Perego, i creatori di Topo Gigio. Entra a far parte del Teatro del Buratto, specializzato in spettacoli per ragazzi e ragazze, e qui conosce Valenti, che nel frattempo ha lavorato come fotografo in teatro.

Perria e Valenti fondano poi il Gruppo80: iniziano a sperimentare l’animazione di pupazzi proprio mentre nascono le tv locali e la Fininvest. Servono dei volti di rete per acchiappare anche il pubblico dei più piccoli. Nasce Five, nasce Uan. Nasce una tv per ragazzi e ragazze alternativa a quella della Rai, che impone il suo immaginario a una generazione intera. Se Topo Gigio è bianco e nero, Uan è rosa e perfino fucsia. E non può che essere così in quella esplosione di colore che sono gli anni Ottanta. Perria e Valenti creano e danno vita ai pupazzi, di cui scrivono spesso anche le gag. Uan è un bambino pestifero, che nello studio di Bim bum bam vive le sua giornate tra compiti, capricci, marachelle, risate. È l’unico personaggio della tv italiana ad aver tenuto testa e parola a Paolo Bonolis.

Uan è la mia infanzia, è l’infinito ripetersi di scenette, sigle, cartoni animati, e via così finché non ti ritrovi adulto e rimpiangi pure quel tempo lì. Inteso come tempo sempre disponibile e, dunque, perso dentro storie fantastiche. Pochi anni fa, Uan è riapparso. È stato testimonial di Stranger Things, serie per i “bimbi” degli anni Ottanta e per i loro rispettivi figli. Le generazioni collassano, il passato dei genitori diventa il presente dei figli, e viceversa. E oggi farsi risucchiare il tempo dalle storie si chiama binge-watching.


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Il potere e l’immagine di Tribuna elettorale

Nel 1960 la televisione si scopre strumento e palcoscenico per il dibattito politico. È l’inizio di un rapporto tanto complesso quanto longevo, e di un nuovo, irreversibile, approccio al discorso pubblico.


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Il 26 settembre del 1960, il senatore democratico John Kennedy sfida il vicepresidente repubblicano Richard Nixon. È il primo dibattito elettorale per le elezioni presidenziali americane trasmesso in televisione. L’11 ottobre dello stesso anno sulla Rai va in onda Tribuna elettorale. È una delle tante prime volte della tv: è una sorta di conferenza stampa con i politici che rispondono alle domande dei giornalisti. Tra gli altri ci sono il ministro dell’Interno Mario Scelba, Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana, e Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista. Il programma nasce in occasione delle elezioni amministrative, che si svolgeranno un mese dopo. L’occasione è questa sì, ma dietro ci sono alcuni piccoli smottamenti politici e istituzionali. Le opposizioni che lamentano il monopolio del governo Dc. La Corte Costituzionale che ha affermato, a luglio, che il servizio pubblico deve assicurare imparzialità. La nuova fase politica che pian piano si sta aprendo, con la crisi del centrismo della Dc e lo spostamento verso sinistra.

Nelle stesse settimane, tanto negli Stati Uniti quanto in Italia, la politica abbraccia la tv, e viceversa. E progressivamente le due entità sembrano sempre più la stessa cosa, soprattutto in Italia con Berlusconi, poi arriveranno anche i social media, Trump e Grillo. Ma già allora, già a ottobre 1960, c’è tutto quel che verrà dopo. Qui qualche estratto da un articolo dell’Unità del 12 ottobre: “Per la prima volta ieri sera è andata in onda alla televisione e alla radio la rubrica Tribuna elettorale una serie di conferenze stampa dei leader politici dei vari partiti in vista delle imminenti elezioni amministrative. Ha esordito Scelba. La Dc infatti ha preteso una trasmissione preliminare dedicata a un esponente del governo, in modo da occupare microfoni e telecamere per più tempo di tutti gli altri partiti; e Scelba, come vedremo, ha approfittato sfacciatamente dell’occasione per parlare non come uomo di governo ma proprio come uomo di partito”.

L’articolo sostiene che il ministro avesse il viso cosparso di cerone rosa. Così la critica alla parola detta si lega già alla critica all’immagine mostrata, e anche chi parla ne è consapevole: “Scelba ha cominciato mettendo le mani avanti: si è scusato presso i telespettatori di non essere bello come i divi della TV e ha detto che in queste serate saranno più coloro che parleranno male del governo di coloro che ne parleranno bene (…) Continuando a farsi bello con le penne del pavone, il ministro Scelba ha insistito – come se fosse merito suo, e come se si trattasse di chissà quale concessione – sul fatto che tutti i partiti potranno usufruire della radio e della televisione (…)”. Già nel 1960 dunque sembra impossibile l’imparzialità, e sono possibili solo le polemiche. Che sono le stesse di oggi, o quasi.


Schegge

La pioniera Elda Lanza

Esperta di galateo, femminista, socialista: agli albori della televisione italiana, nasce la prima presentatrice della storia nazionale. E la sua tv sperimentale lascia il segno.


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Il 3 gennaio 1954 iniziano le regolari trasmissioni della Rai. Il televisore, oggetto magico, invade progressivamente le case degli italiani, affascinandone gli abitanti con il suo flusso di persone, spettacoli ed eventi. In quella fase, conta la volontà pedagogica di quella Rai: deve educare gli italiani, in generale e alle meraviglie del nuovo mezzo. Gli spettatori vanno traghettati dentro quel nuovo mondo: tocca al conduttore, volto e voce, un po’ persona e un po’ personaggio. È una tv quasi tutta maschile, nei volti, nella dirigenza, nei dipendenti. Ci sono le annunciatrici – un ruolo minore, certo, eppure importante, che segna l’immaginario. E poi, c’è Elda Lanza.

Classe 1924, nel 1952 viene scelta per condurre i primi programmi del mezzo non ancora nato, con i quali si sperimenta la stessa idea di tv: «Mi affidarono una rubrica intitolata Prego Signora per la tivù sperimentale: la televisione sarebbe nata solo nel ‘54. Avevo passato quattordici provini, ci sapevo fare. Ero carina e spigliata. Studiavo filosofia all’università, ero allieva di Abbagnano e mi appassionava Sartre, che andai ad ascoltare alla Sorbona di Parigi» spiegherà poi in un’intervista a Repubblica nel 2013.

Nel 1954 conduce un programma televisivo in onda nel tardo pomeriggio, scoprendo il pubblico femminile casalingo: è Vetrine, dedicato a moda, arredamento, cosmetica. Educa chi sta dall’altra parte dello schermo al gusto, alle forme, allo stile. In un certo senso, Lanza sperimenta il primo programma di lifestyle, genere che riempie oggi la nostra tv. Può sembrare riduttivo adesso, ma allora era tutto nuovo, e a suo modo rivoluzionario: «Non ero una bellezza sfolgorante, ma sapevo parlare. Ero disinvolta e informata. Oltre che femminista. L’illuminazione, per me, era stata la lettura de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Alle donne, in televisione, dicevo: imparate a camminare bene da sole, se volete camminare meglio in due. Era un periodo di passaggio e di fermento. Inoltre ero una socialista militante».

Sono anche gli anni di Carosello, ecco allora Lanza protagonista nel 1957 di quelli per i Pavesini, che forse oggi giudicheremmo come un buon branded content. Nel 1958 inizia a raccontare i libri per ragazzi in Avventure in libreria. Pesca ancora in un genere (stavolta letterario) “minore” per allargarne il significato: «Presentavo storie di Calvino, Buzzati, Arpino…». Poi ha lasciato la tv, ha fondato un’agenzia di comunicazione, è diventata scrittrice di gialli. È stata una pioniera, Elda Lanza. È stata la prima presentatrice della tv italiana. Una tv pedagogica, certo, ma nel più alto senso del termine.