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Serial Fatigue

Presentiamo il nuovo numero Link. Un’indagine sulla morte della serialità per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni. Dalla fine della complex tv alla profonda trasformazione dei modelli economici che influenzano la produzione e la scrittura. Tra scioperi, nostalgie e tanta fatica, da entrambi i versanti dello schermo.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 30 - Serial Fatigue del 28 ottobre 2024

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Con questo numero di Link registriamo la fine di una stagione, quella della complex tv, che ha trasformato le serie in un fenomeno culturale d’élite. A dispetto dei tanti titoli ancora prodotti, non sembra esserci più posto per quel tipo di serialità che aveva messo al centro la scrittura e un nuovo linguaggio, facendo di ogni serie un prototipo che non somigliava a nient’altro. Alcuni titoli, per mettere a fuoco il fenomeno: Twin Peaks, I Soprano, West Wing, The Wire, Lost, Mad Men, Breaking Bad. Qualche mese fa, David Chase si riferiva a questo quando, in occasione dei venticinque anni dalla nascita de I Soprano, diceva “altro che compleanno, dovremmo celebrare un funerale”.

Quando le serie complesse sono apparse sulla scena hanno convinto molte persone che la tv poteva essere un mezzo capace di raccontare storie con una profondità degna dei romanzi e del cinema. Molti critici si sono affrettati a dire, per nobilitare il genere, che le serie tv erano la nuova letteratura. Anche noi abbiamo ceduto a questa retorica, pur non condividendola del tutto. Se le serie tv sono la nuova letteratura, ci siamo detti, allora gli showrunner sono i nuovi autori di cui indagare il lavoro per capire le persone e la società. Da questa idea nacque Serial Writers, un numero fatto di interviste, sul modello della Paris Review, ad alcuni dei più importanti showrunner di allora, da Matthew Weiner a Vince Gilligan. Lì abbiamo imparato a riconoscere la centralità dello showrunner, depositario della coerenza e dell’unità estetica dell’universo narrativo messo in scena – universo, è bene sottolineare, quasi sempre originale e non derivato da opere preesistenti. Con Autori seriali, qualche anno più tardi, abbiamo poi indagato la figura dello showrunner in Italia. Esisteva? Era possibile che attecchisse? Ebbene, qualcosa si muoveva anche da noi. Qualcuno ci provava, almeno.

Oggi nessuno si riferisce più alle serie tv come alla nuova letteratura, e probabilmente non si sente neppure il bisogno di una nuova letteratura. La notizia non è lo showrunner che arriva in Italia, ma la sua scomparsa da tante produzioni americane.

A distanza di una manciata di anni sono cambiate molte cose. Oggi nessuno si riferisce più alle serie tv come alla nuova letteratura, e probabilmente non si sente neppure il bisogno di una nuova letteratura. La notizia non è lo showrunner che arriva in Italia, ma la sua scomparsa da tante produzioni americane. 

Cos’è successo? È la domanda alla base di Serial Fatigue. Qui ci limitiamo a fare un elenco sommario di alcune questioni approfondite in questo numero.

Intanto, è cambiato il mercato. E a cambiarlo sono state soprattutto le piattaforme di streaming. Per tenere l’equilibrio della loro folle corsa alla crescita globale hanno avuto bisogno di forniture continue di contenuto fresco. Molti titoli, molti abbonati. Questo meccanismo ha messo in moto molteplici trasformazioni che hanno finito per industrializzare la produzione oltre ogni limite conosciuto, fino a eliminare quasi del tutto quel meraviglioso spreco di creatività che erano i pilot. L’accresciuto fabbisogno di contenuto ha comportato un modo diverso di produrre, e quindi di scrivere. Perché la scrittura televisiva è sempre figlia dei modelli economici all’interno dei quali agisce. 

Oltre al ridimensionamento della season pilot, altre conseguenze industriali sono state:

  1. l’introduzione del binge watching. Si vede tutto subito. Il titolo si consuma in fretta. Addio attesa. E con essa, per inciso, addio anche al vecchio fandom che proprio sull’attesa aveva fondato la sua ragione di esistere: riempire i buchi tra una puntata e l’altra, tra una stagione e l’altra.
  2. Tanti titoli diversi della durata di una stagione sola non hanno bisogno di complessi mondi narrativi. E neppure che questi siano originali. Conseguenza: writers’ room più piccole, non piramidali, minore controllo sui contenuti, tempi di scrittura più brevi (e paga minore per gli sceneggiatori). 
  3. La peak tv. I titoli prodotti aumentano di anno in anno, tanto che è difficile farsi notare. Si mette a punto il meccanismo dell’hype. È importante che di un nuovo titolo si parli il più possibile prima dell’uscita. Conseguenza: ricorso a intellectual properties importanti, nomi importanti, facce importanti. Poco conta se di registi cinematografici riconvertiti al piccolo schermo, attori o showrunner che hanno guadagnato il loro status nella seconda golden age (Ryan Murphy, Shonda Rimes).
  4. Sempre al fine di farsi notare si cerca un dialogo costante con i social e con le loro tendenze. Che possono essere estetiche o legate a battaglie identitarie, di diversità e inclusione. Non c’è più spazio per i personaggi negativi, moralmente ambigui. L’antieroe protagonista della complex tv esce di scena. Lo spettatore vuole identificarsi in un modello comportamentale e in una narrazione che portino un messaggio positivo. Dall’antieroe si torna a una versione aggiornata dell’imperfect hero.
  5. L’accelerazione è stata possibile grazie al massiccio afflusso di capitali dalla finanza. Il taglio dei tassi di interesse della FED, seguito alla grande recessione del 2008, ha spinto fondi come Black Rock a investire ingenti capitali in vari settori privati, tra cui Hollywood. Di per sé non è una novità, da sempre la finanza investe nei contenuti, ma lo è nel metodo adottato che non persegue uno scopo industriale ma puramente speculativo. 
  6. Sono stati i fondi a finanziare la guerra tra piattaforme. Quando Disney o Paramount decidono di imitare Netflix, di diventare Netflix, spostano il focus dai network televisivi, commerciali e via cavo, e dal cinema, per puntarlo sulla piattaforma. Il monopolio, tra le varie cose, uccide la biodiversità del contenuto.
  7. In tempi recenti la corsa delle piattaforme ha subito un arresto: il mercato abbonati rallenta e si torna alla cara vecchia pubblicità. Come tutte le trasformazioni industriali anche questa incide sul modo di pensare i contenuti. Avete notato come negli ultimi tempi molti titoli degli streamer strizzino l’occhio al generalismo?

E quali sono stati i riflessi sulla scrittura?

  1. La caduta dei vincoli rappresentati dalle interruzioni pubblicitarie, dalla distribuzione settimanale delle puntate e da quella annuale delle stagioni, si diceva, avrebbe liberato la scrittura e la creatività. Le cose sono andate diversamente e abbiamo ricevuto “in dono” il formato del film lungo. Il ritmo interno alla puntata, i classici tre atti, è saltato a favore di una struttura che si sviluppa sulla singola stagione. Con il risultato che la puntata ha perso ritmo e complessità. Pensare alle serie come fossero cinema è mostruoso. Non nobilita il formato, lo deprime.
  2. Il mondo narrativo messo in scena non è più aperto, ma chiuso. Il formato che si privilegia è quello della miniserie. I nuovi titoli nascono con una fine già scritta. 
  3. Questo ha portato a una progressiva perdita delle qualità specifiche della scrittura seriale, che si sviluppava in modo organico nel tempo e che nasceva per morire il più tardi possibile (qualità che l’accomuna alle cose viventi). Le molte trame, come i molti personaggi che spesso da comprimari diventano protagonisti, richiedono tempo per crescere. 
  4. Anche i personaggi perdono complessità e si “risolvono” in fretta, hanno archi narrativi veloci. Non è più tempo di antieroi, si diceva, e non è più tempo neppure per quei personaggi che restano legati per anni a un nodo psicologico prima di risolverlo (perché, se si risolve, addio narrazione). È come quell’amico che alla fine trova la donna giusta, si sposa e non racconta più tutte quelle storie divertenti con cui ci ha tenuto compagnia per anni.
  5. Il ricorso a opere preesistenti è diventato spasmodico. Libri, film, fumetti, videogiochi. Esaltazione dei vecchi franchise. Per farsi notare, per trovare storie già note al pubblico, per avere più titoli a disposizione: un duro colpo al cuore dei mondi originali.
  6. L’attenzione al discorso social ha favorito un certo tipo di eroe, e finito per condizionare anche la dimensione estetica e la struttura narrativa delle nuove serie. Negli ultimi tre anni aesthetics e vibes hanno avuto un impatto importante sulle produzioni di piattaforma (da Wednesday a Saltburn). Serve costruire una retorica visiva seducente. Più della narrazione è importante la performance visiva e il suo legame con il vissuto emotivo degli spettatori. Cottagecore, dark academia e tutte le altre aesthetics diventano quasi nuovi generi, dove la narrazione non deve essere originale o stupire ma solo svolgere un ruolo funzionale alla messa in scena di quelle atmosfere.

Pare che il modello finanziario delle piattaforme si sia inceppato. Assistiamo a tagli al personale, riduzioni di budget e ridimensionamento delle ambizioni. Emerge il desiderio di soddisfare gusti meno di nicchia, più larghi, popolari, in una versione inedita, e qui la giravolta è completa, delle vecchie serie dei network novecenteschi.

Tutto questo, unito al calo di attenzione dello spettatore contemporaneo – non si sa bene se incapace, distratto o semplicemente non disposto a concentrarsi su storie stratificate e personaggi contradditori – ha portato alla scomparsa della serialità complessa. E all’eclissi di quell’estetica funzionale il cui tratto precipuo è la capacità di generare sorpresa e stupore, con il sovvertimento delle regole interne della narrazione. E che, detto altrimenti, non è che la capacità della scrittura di tenere più fili, tesserli e legarli fino a creare una trappola perfetta da cui solo un genio dell’escapismo può liberarsi di fronte agli occhi strabuzzati dello spettatore. 

E quindi, oggi, a che punto siamo? Pare che il modello finanziario delle piattaforme si sia (momentaneamente?) inceppato . Assistiamo a tagli al personale, riduzioni di budget e ridimensionamento delle ambizioni. Emerge il desiderio di soddisfare gusti meno di nicchia, più larghi, popolari, in una versione inedita, e qui la giravolta è completa, delle vecchie serie dei network novecenteschi. In questo giro sfiancante e terribilmente costoso tutto è cambiato, ed è difficile dire se la scrittura tornerà al centro dei progetti e a splendere di nuovo, che sia in una sitcom alla Friends o in un prototipo che non somigli ad altro che a se stesso come I Soprano. Quello che invece si può constatare facilmente è la fatica e la frustrazione dello spettatore contemporaneo, che si rivede un po’ in quegli stracchi eroi Marvel costretti a tripli e quadrupli turni di lavoro per stare al passo con il progresso degli sterminati cataloghi globali.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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