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L’eterno ritorno del Tamagotchi

Per milioni di bambini in tutto il mondo il tamagotchi non è stato solo un giochino portatile, ma una tecnologia di cura e un compagno digitale contro la solitudine. Analizziamo uno dei simboli più amati del kawaii, figlio del disagio sociale giapponese e oggetto di culto degli anni Novanta.

Se vi capitasse di fare una vacanza a Tokyo, consiglio di fare un giro ad Harajuku. Il quartiere, che si raggiunge facilmente, è a una fermata di linea Yamanote da Shibuya. Scesi alla stazione, ci si trova di fronte a Takeshita-dori, una (non troppo lunga) via piena zeppa di negozi di cose pop: keyring con personaggi della Sanrio, santini di musicisti del visual kei, magneti a forma di sushi o ramen; chioschi di crepes con centinaia di gusti da scegliere (prelibatezza iperglicemica del posto). Se ci si infila nelle viuzze laterali si scoprono negozietti di bigiotteria, di fronte ai quali alcune ragazze, col sogno di diventare idol, si fanno fare servizi fotografici; spuntano ovunque servizi di nail-art e negozi di vestiti di seconda mano, soprattutto provenienti dagli Stati Uniti. Qui ad Harajuku (così come a Shibuya stessa o Shinjuku) è dove si viene per cercare di carpire le mode giovanili che esplosero negli anni Novanta, soprattutto da un punto di vista femminile: il goth, harajuku-punk, le lolita, e decine di altre sottoculture per le quali mi manca un dizionario. 

Gli anni Novanta sono un periodo fondamentale per capire il Giappone contemporaneo. Una crisi economica, dovuta a una bolla speculativa esplosa nel 1991 (conosciuta come baburu keiki), segnò l’inizio di un decennio nefasto, al quale si aggiunsero eventi altrettanto traumatici: il terremoto del Kobe, che causò più di seimila morti e l’attentato alla metropolitana di Tokyo per mano della setta di ispirazione buddhista Aum Shinrikyo. In una società che scopriva la morte per lavoro (il karoshi), la solitudine degli hikikomori, la depressione e il suicidio, la cultura popolare esplose di riflesso a livello artistico, con opere che riflettevano le angosce generazionali (basta citare la sofferenza dei protagonisti di Neon Genesis Evangelion, le storie oscure e orrorifiche dei film di Kiyoshi Kurosawa, i racconti underground di Ryu Murakami). Ed è proprio in questi anni che ad Harajuku e dintorni esplode il movimento delle kogal, lo stile delle liceali giapponesi che si contrappone agli schemi tradizionali richiesti dalla società civile nipponica. Le kogal erano dedite al consumismo più sfrenato, indossavano la divisa scolastica sessualizzandone alcune parti, come accorciando la gonna o indossando calze da ginnastica, adoravano le cose kawaii, passavano le serate a farsi fototessere nei purikura e alcune praticavano l’enjo kosai, ovvero si prostituivano con uomini molto più grandi. È tra le vie di Harajuku, plasmato dai desideri modaioli delle kogal, che è nato uno degli artefatti più iconici degli anni Novanta. Una creatura virtuale di pochi centimetri, bisognosa di cure frequenti, dispettosa, piuttosto fragile e comunque destinata a vivere per pochi giorni: il Tamagotchi.

Un insetto per amico

Difficile immaginare qualcuno che non sappia cosa sia il Tamagotchi (combinazione delle parole tamago, uovo, e uotchi, per watch), ma per completezza lo descriveremo. Nella sua versione originale è un ovetto di piccole dimensioni. Per avviarlo si deve premere il tasto reset sul retro, regolare l’orario e poi schiacciare il pulsante centrale nel basso. A quel punto appare un uovo che pulsa, il quale dopo cinque minuti si schiude e assume le fattezze di una pallina sorridente. Utilizzando i pulsanti in basso si possono selezionare otto icone, ognuna delle quali rappresenta una forma di bisogno del pet: il cibo; le luci, che devono essere spente quando il Tamagotchi dorme; il gioco, che avviene tramite attività ludiche; la medicina, che viene somministrata quando il pet si ammala; la pulizia, necessaria dopo che la creatura ha fatto i bisogni; il misuratore di salute, che è una scala che indica quanto è felice e in salute il Tamagotchi; la disciplina, che viene somministrata premendo un pulsante; e l’attenzione, che si manifesta con luci e segnali acustici dalla creatura che indicano quando ha bisogno di qualcosa o – come suggerisce la guida nel libretto d’istruzioni – sta semplicemente facendo i capricci. Chi possiede un Tamagotchi diventa responsabile di una piccola creatura di pixel.

Nella sua versione originale (prima generazione) la durata media della creatura è di circa quindici giorni. Quando il processo vitale giunge al termine appare su schermo una lapide con una piccola croce sopra e lo spirito della creatura che fluttua fuori lo schermo. Considerato un po’ troppo traumatico per i bambini americani, il finale venne riscritto per l’edizione statunitense: il pet diventa un angioletto che vola verso un mondo alieno. Ma al netto di censure, tutti i bambini hanno sempre interpretato l’evento come la morte del proprio Tamagotchi, e nel tempo gli utenti hanno sviluppato diversi modi di vivere e gestire il “lutto”. Sul web sono nati memoriali virtuali, con testimonianze e necrologi.

Il Tamagotchi fu inventato da Akihiro Yokoi nel 1995 e, secondo quanto si racconta, l’idea nacque dai suoi ricordi d’infanzia, quando vedeva in televisione una pubblicità in cui un ragazzo portava la sua tartaruga in vacanza dentro una scatola di plastica. Per generazioni molti giapponesi hanno coltivato l’hobby di collezionare insetti, esaminandoli mentre crescono o facendoli combattere tra loro. Girando per le grandi città, si incontrano gashapon o ufo catcher in cui si possono vincere coleotteri in plastica o peluche di qualsiasi dimensione; sui treni si vedono persone giocare con lo smartphone a simulatori di battaglia di insetti come Mushiking: The King of Beetles, mentre Kamen Rider, noto supereroe degli anni settanta – famoso ancora oggi – indossa il costume di una cavalletta. Infine, alcuni kaiju hanno le forme di insetti, come Mothra, che è una sorta di falena gigante. Se questo vi fa venire in mente i Pokémon è proprio perché il loro creatore, Satoshi Tajiri, ha dichiarato più volte di essersi ispirato a quello che – indovinate un po’ –, faceva da bambino: catturare insetti.

Il Tamagotchi è kawaii, parola che usiamo per descrivere le cose carine che vengono dal Giappone. Il Tamagotchi, così come tutti i prodotti di questa “carineria” nipponica, hanno rappresentato e rappresentano ancora una forma di cura verso un malumore creato dalla società stessa.

Come raccontato nel libro Pop di Matt Alt (ADD, 2023) Yokoi era direttore di un’agenzia di design che si chiamava Wiz ed ex dipendente della Bandai, con la quale continuava ad avere rapporti professionali. Infatti, a collaborare alla nascita dell’animaletto virtuale è stata essenziale la presenza di Aki Maita, responsabile marketing di Bandai e figura determinante per lo stile kawaii che avrebbe avuto il Tamagotchi. Maita era convinta che il Tamagotchi sarebbe stato prima di ogni cosa un prodotto per ragazze e, in particolare, l’oggetto del desiderio di ogni kogal. Indossabile, come l’invenzione rivoluzionaria di Morita Akios, il Sony Walkman. Ma colorato, strano, elettronico e stiloso.

Sedici pixel di lunghezza per trentadue, incapsulati in uno schermo LCD di poco più di cinque centimetri di altezza in bianco e nero. Questa era la base tecnica che certamente non consentiva il dettaglio di uno dei personaggi ispirati alla Sanrio, ma che per forza di limitazioni doveva essere più primitivo di una Hello Kitty. Decisero di ispirarsi all’heta-uma, lo stile del disegnare male, una corrente artistica dell’underground del manga (si vedano le copertine della rivista Garo fatte da Teruhiko Yamura). Venne organizzato un concorso aperto a tutti, in cui si doveva inviare alla sede di Wiz un prototipo su carta del design della creatura. Quando fu scelto il disegno vincitore (fatto da una ragazza venticinquenne), Maita e i suoi colleghi scesero tra le strade di Harajuku, intervistando le ragazze e chiedendo loro quanto fosse carino il design del mostriciattolo. Dopo vari miglioramenti estetici il Tamagotchi prese forma ed entrò nel mercato locale il 23 Novembre del 1996, mentre negli USA nel Maggio del 1997.

Nei suoi primi due anni il Tamagotchi divenne un fenomeno mondiale, come auspicato da Bandai, la quale mirava a creare un oggetto dal linguaggio universale, che andasse ben oltre il cerchio delle ragazze delle scuole superiori giapponesi. Durante il boom di vendite, nelle aule delle scuole giapponesi e americane le lezioni erano interrotte dai costanti biip dell’animaletto virtuale, con il risultato che il dispositivo venne vietato nelle classi. Mentre il fenomeno si consolidava – 40 milioni di unità vendute – gli insegnanti e i genitori furono colpiti da come i propri bambini dimostravano cura nei confronti di una creatura (virtuale). Gli psicologi rimasero affascinati dall’inedito rapporto bambino-cyberspazio e dallo spiccato senso di empowerment che il Tamagotchi conferiva ai ragazzini, rendendoli responsabili di un bene così piccolo.

Il kawaii come antidoto al disincanto

Cosa c’è dietro alla pucciosa carineria del Tamagotchi? Il Tamagotchi è kawaii, parola che usiamo per descrivere le cose carine che vengono dal Giappone. Termine carico di una certa ambiguità, si ha la sensazione che dietro il kawaii si nasconda un fantasma, un elemento perturbante. O almeno è quello che pensa Simon May, autore del saggio Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili (Luiss University Press, 2021) in cui scrive: “Il cute sta colonizzando il nostro mondo. Ma perché? E perché in modo tanto esplosivo nella nostra epoca?” Nella visione di May il kawaii è il riflesso del nostro periodo storico, caratterizzato dalla difficile distinzione tra infanzia ed età adulta, espressione di una mancanza di chiarezza, di inquietudine, “del flusso continuo o del divenire che sono al centro di tutta l’esistenza”.

Seppur May non citi mai espressamente il Tamagotchi (ma nomina più volte Hello Kitty), penso che la definizione che dà del kawaii valga anche per il pet virtuale: come tanti altri prodotti dell’epoca il Tamagotchi rispondeva al disagio giovanile dilagante, il fuan, l’ansia. Il Tamagotchi e più in generale i prodotti del kawaii rappresentavano (e rappresentano ancora) una forma di cura verso un malumore creato dalla società stessa. Il giornalista Nagao Takeshi scriveva che il successo dei mostri virtuali (che fossero Pokémon o Tamagotchi) era frutto dello stile di vita dei bambini giapponesi degli anni Novanta: soli, occupati e stressati dal sistema scolastico. Nessun gioco aveva richiesto così tanto a dei ragazzini, ovvero mettere in pausa il proprio status di figli per farsi genitori.

Sempre a proposito di genitorialità, il kawaii potrebbe spiegarsi anche con un grande trauma della storia moderna del Giappone: la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Questa costrinse l’imperatore Hirohito, l’ultimo dell’era Showa, a cedere il proprio status di divinità, ponendo fine alla condizione di “sudditi” dei propri cittadini (come testimonia la costituzione in vigore, scritta dagli americani nel 1946). La fine di questa importante fase storico-politica, portò il popolo a subire una sorta di “disincantamento del mondo”, come lo avrebbe definito il sociologo tedesco Max Weber: una razionalizzazione delle società. Alla fine della grande autorità paterna – in cui l’imperatore divenne un mero simbolo – e in un mondo in cui i padri erano per lo più morti in guerra su piccoli atolli del Pacifico o in Indocina, la società giapponese si apriva a un capitalismo in cui le merci simboleggiavano l’assenza della distinzione tra infanzia e vita adulta. Ma poiché il disincantamento non fu un processo naturale, bensì la conseguenza di una sconfitta militare, la dimensione magica continuò a vivere, stavolta incarnata nella tecnologia del futuro.

Dopo le vendite stellari del 1997, il Tamagotchi perde il primato di oggetto del desiderio giovanile, ma continua a rappresentare un prodotto di culto. Quello che negli anni Novanta era un uovo che sembrava provenire dal futuro oggi è l’ennesimo pezzo di capitalismo culturale basato sulla nostalgia.

Mentre a ricordare il trauma della tragedia atomica (di Hiroshima e Nagasaki) c’è l’anti-padre, il lucertolone gigante Gojira (da noi conosciuto come Godzilla), i giapponesi hanno finito per instaurare legami affettivi con i dispositivi elettronici, in un tecno-animismo dal sapore shintoista. Prima che arrivasse lo smartphone moderno, che come l’unico anello tolkieniano avrebbe dominato su tutto, il Tamagotchi, proprio come il walkman, il lettore cd portatile, i vari lettori mp3, il game boy, i keitai denwa (i telefoni cellulari autoctoni, che non sono mai usciti dal mercato locale), diventava uno dei tanti dispositivi indossabili di un soggetto sempre in movimento. Questi dispositivi sono stati sperimentati, studiati e amati in Giappone prima che altrove. Figli illegittimi karaoke – di una invenzione che ha permesso al soggetto di cantare ovunque, rendendo lo spazio malleabile – i dispositivi elettronici sembrano aver dato ragione al filosofo Gilles Deleuze quando (in Millepiani) elencava le qualità di singolarità dell’uomo postmoderno, “anonimo, impersonale, pre-industriale e nomadico”. Quello che il professor Shuhei Hosokawa scriveva in un profetico articolo che si chiama The Walkman Effect è vero per il Tamagotchi così come per tutto quello che sarebbe arrivato dopo (in un certo senso, anche con i reel di Instagram o i video di Tiktok): nella “distanza positiva” la tecnologia funge da intermediario che permette una connessione individualizzata e personalizzata con il mondo esterno, in cui l’utente è simultaneamente distaccato e connesso, creando un’esperienza unica di intimità e autonomia.

Cool Japan alla conquista dell’Occidente

Dopo le vendite stellari del 1997, il Tamagotchi perde il primato di oggetto del desiderio giovanile, ma continua a rappresentare un prodotto di culto. Negli anni si sono succeduti decine di modelli (il Tamagotchi angelo, le creature sottomarine, il Tamagotchi diavolo, la versione ispirata all’uomo delle caverne), edizioni su licenza (come quello di Pac-Man) e generazioni che hanno implementato nuove funzionalità a ogni uscita. Per esempio, con l’introduzione del modello Connection (nel 2004), era possibile connettere i Tamagotchi tramite infrarossi, mentre con il Color (2008) viene proposto uno schermo a colori. Infine, la versione Smart (2021) lo rende finalmente indossabile come uno smartwatch e introduce lo schermo touch.

Questa estate la Bandai ha rilasciato una nuova versione, il Connection – 20th Anniversary che sarebbe una riedizione dell’edizione del 2004. Sul sito della casa produttrice si legge “un gioco di cura coinvolgente e nostalgico”, in cui è possibile utilizzare centinaia di oggetti e in cui ci sono cinquanta tipi diversi di creature (in vendita al prezzo di 29.90 dollari). Quello che nel 1997 era un uovo che sembrava provenire dal futuro oggi è l’ennesimo pezzo di capitalismo culturale basato sulla nostalgia. Prima dell’era del gaming in multiplayer, dei social, di The Sims, il Tamagotchi ha suggerito il futuro: flussi di merci globali gestite da automazioni digitali, generazioni cresciute con un rapporto continuativo col digitale; proprietà personali, interazioni vitali e simulazioni di esistenze, mondi virtuali.

Dopo aver invaso mezzo mondo con l’industria automobilistica e dispositivi elettronici per l’utilizzo casalingo – come radio e televisori – il Giappone negli anni Novanta scopre di poter allargarsi con la propria produzione pop. La conseguenza di quello che era cominciato qualche anno prima con le console videoludiche (Nintendo, Sega) e i primi anime dal successo internazionale (Heidi, Gundam, Dragon Ball), fu l’esportazione di brand che non erano nati per essere fin da subito un prodotto per gli stranieri: Hello Kitty, Power Rangers, Pokémon. Negli anni duemila il governo giapponese, in parte fuori dalla crisi del decennio precedente, fonda un vero e proprio organo politico dedicato alla diffusione dei prodotti pop: Cool Japan, il soft power giapponese a base di anime, videogiochi e kawaii con il compito di investire sulle esportazioni e richiamare un turismo a tema. Oggi tra i più giovani il “cool” giapponese compete a pari livello con quello statunitense, soprattutto sull’economia degli immaginari moderni e di come il worldbuilding delle storie giapponesi influenza le nuove generazioni. Pensiamo a come gli atleti delle recenti Olimpiadi francesi abbiano più volte omaggiato One Piece, Jojo, L’attacco dei giganti o Jujutsu kaisen, imitando le pose di alcuni personaggi, mettendo in confusione giornalisti e cronisti che per scarto d’età o di interessi spesso non coglievano la citazione.

Il Tamagotchi è stato fin da subito un brand che avrebbe dovuto resistere al calo di vendite del dispositivo, motivo per cui la Bandai ha fatto sì che l’universo delle creature virtuali si espandesse con cartoni animati, manga, bigiotteria e altro. Se si va ad Harajuku, a pochi passi da Takeshita-dori c’è un piccolo negozio dedicato esclusivamente ai Tamagotchi: per ricordare da dove tutto è partito, cioè da una responsabile del marketing che voleva creare qualcosa per le strane, anti-modello, ragazze di Tokyo degli anni Novanta.


Diego De Angelis

Diego De Angelis è laureato in Storia, fa il redattore culturale e il programmatore informatico. Ha collaborato con Vice, Esquire, Not, occupandosi perlopiù di cultura e arti. Oggi scrive regolarmente per la rivista Indiscreto.

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