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Immaginari

Nuovi divos, belli e possibili

Per decenni i divi maschili hanno incarnato un canone di bellezza virile e irraggiungibile. Oggi, una nuova generazione di celebrità mette in discussione questo modello, anteponendo un certo fascino sofisticato alla mascolinità tradizionale, senza spezzare l’incanto del divo da sognare.

Nel 1985, Clizia Gurrado è una studentessa di sedici anni del liceo Berchet di Milano. Il suo nome potrebbe non dire nulla, ma il titolo del suo romanzo cult probabilmente sì. Sposerò Simon Le Bon: Confessioni di una sedicenne innamorata persa dei Duran Duran, un caso di fanfiction ante litteram che racchiude l’essenza del divismo anni Ottanta. Come tutte le adolescenti, Clizia ha un idolo che ama incondizionatamente, sa tutto di lui, lo segue, lo venera, vorrebbe sposarlo, appunto. Passano i decenni, le mode cambiano, e dai capelli vaporosi di Simon Le Bon si procede su quelli lunghi e pieni di gel degli anni Novanta, o alle meches degli anni Zero.

Per quanto l’industria dell’intrattenimento possa inventarsi nuovi trend e nuovi idoli per le generazioni che si alternano, c’è una cosa che non cambia: ogni Simon Le Bon ha una Clizia pronta a fare di tutto per incontrarlo. Ciò che cambia, invece, è il modo in cui la celebrità entra nelle nostre vite da osservatori, spostando, per esempio, la distanza tra chi idolatra e chi è idolatrato. Chi sono dunque i divi del presente, quelli da poster in cameretta o da trend su X, quelli con le fancam cucite addosso, quelli che, adolescenti e non, vorremmo tutti un po’ sposare. Ma soprattutto, cosa vogliamo da loro? 

Sposerò Leonardo Di Caprio

Rating 90s Heartthrobs With My Daughter è un trend su TikTok che ha spopolato negli ultimi mesi. Come suggerisce il titolo, consiste nel sottoporre sex symbol degli anni Novanta e dei primi anni Zero ad adolescenti nate nel ventunesimo secolo: la mamma, millennial o poco più, chiede alla figlia di dare un voto da zero a dieci, ottenendo spesso risultati deludenti. Quelli che negli anni Novanta potevano essere classificati come divi irresistibili, cotte adolescenziali senza via d’uscita, agli occhi di una nativa digitale risultano poco attraenti, viscidi, o peggio, per usare l’etichetta peggiore che ci si possa aspettare da un GenZ, cringe. La mascella di Dawson, la riga in mezzo di Nick Carter, l’acconciatura finto bagnata di Josh Hartnett, non sempre stimolano la reazione desiderata, creando un piccolo dramma familiare in cui il genitore si sente vecchio e incompreso, il figlio annoiato e incompreso.

Al di là di come il singolo, di generazione in generazione, percepisca la bellezza e di quanto universale questa possa essere, senza spingersi in interrogativi kantiani, è chiaro che il canone muti a seconda delle contingenze storiche in cui ci troviamo. Negli anni Novanta, infatti, il concetto di divismo americano, specialmente quello legato allo star system per i più giovani, ha forse raggiunto un picco che non si è più replicato. Nel turbinio dell’edonismo che Bret Easton Ellis racconta bene nel suo Glamorama, le celebrities da red carpet di quel periodo sono personalità di cui poco sappiamo a livello personale, e molto guardiamo da un punto di vista puramente superficiale, se per superficie si intende l’aspetto esteriore con cui questi si presentano al mondo. Leonardo DiCaprio, Johnny Depp, Keanu Reeves, Ethan Hawke, Luke Perry, Jared Leto, Hugh Grant, Brad Pitt: le foto analogiche che raccontano la bellezza maschile degli anni Novanta sono impregnate di uno splendore etereo, quasi sovrannaturale, avvolto da una patina che separa lo spettatore dallo spettacolo guardato. I divi sono lontani, irraggiungibili, mitologici, sia nel modo in cui appaiono che in quello con cui vengono raccontati.

Leonardo DiCaprio, ben prima che diventasse l’attore-meme più iconic di Hollywood – l’Oscar tanto sudato, la sua passione per le under 25, il meme-Gatsby, il meme-Inception, il meme-Wolf of Wall Street –, è il volto più emblematico di questa schiera di divi angelicati dai tratti simmetrici. E la ragione per cui la sua interpretazione di un povero disgraziato della terza classe del Titanic non risulta poi così implausibile, è proprio perché trent’anni fa, quel viso e quella pettinatura, del tutto fuori contesto per i primi del Novecento, erano perfettamente calati nel contesto estetico della fine del Novecento. Un discorso che si estende anche per il periodo successivo: pensiamo per esempio alla creazione di Samantha Jones, grande protagonista della serie cult Sex and the City. Il suo giovane fidanzato attore diventa una celebrità nel momento in cui lei lo convince a spogliarsi per i cartelloni della vodka Absolut, diventando così The Absolut Hunk. Muscoloso, biondo, viso delicato ma al contempo molto mascolino, i belli degli anni Zero continuano a essere belli impossibili. “Who would play these three if Challengers was made in the ‘90s?”, chiede un utente su X, allegando una foto di Zendaya tra Josh O’Connor e Mike Faist, “The only right answer for the boys being Matt Damon and Ben Affleck.”, risponde un altro, ottenendo quasi quarantamila like. Ed è, in effetti, la risposta più sensata a questo sforzo di immaginazione: mascelle, pettorali, nasi piccoli, occhi dolci, sorriso smagliante. La virilità delicata e perfetta dei divi degli ultimi decenni, salvo qualche piccolo difetto sexy, come i famosi denti di Tom Cruise, è legge, non morale dentro di me ma estetica attorno a me. 

Of mice and men

Tutto ebbe inizio il 15 maggio del 2024, quando la rivista Dazed pubblica un articolo dal titolo All anyone wants is a hot rodent boyfriend, tutto quello che vogliamo è un fidanzato sexy che somiglia a un roditore. Se qualcuno viaggiasse nel tempo e facesse leggere questo pezzo a un abitante del passato, magari a una giovane donna degli anni Settanta, che sognava una fuga d’amore con Roger Moore, o a una degli anni Ottanta, che si immaginava tra le braccia di Harrison Ford, è probabile che ne trarrebbe una reazione sbigottita. Perché mai un roditore dovrebbe essere sexy?

I divi rodent non sono muscolosi ma magri e svelti. Hanno visi appuntiti, tratti spigolosi, non sono convenzionalmente belli e, proprio per questo, sono molto più attraenti, per quanto riguarda il canone contemporaneo, perlomeno.

In realtà, ciò che spiega l’inchiesta di Dazed sulla deriva zoomorfa del panorama maschile contemporaneo è che, stando a un thread del 2023, esistono quattro categorie di bellezza maschile, ciascuna rappresentata da un attore del presente: l’aquila, l’orso, il cane e il rettile, rispettivamente Ryan Gosling, Henry Cavill, Heath Ledger e Timothée Chalamet – che però, secondo altri, sarebbe più simile a una calzatura medievale che a un rettile, ma siamo già abbastanza incasinati con la fauna, meglio non addentrarsi anche nelle metafore vestiarie. Il dibattito aperto dal thread, moderna agorà dove si decidono le sorti culturali dell’Occidente, conduce gli utenti coinvolti a un’altra inevitabile conclusione, ossia che esiste anche una categoria molto più ampia e in voga ultimamente, quella del roditore. Non muscolosi ma magri e svelti, visi appuntiti, tratti spigolosi, non convenzionalmente belli e, proprio per questo, molto più attraenti, per quanto riguarda il canone contemporaneo, perlomeno. “Being a sexy rat man can also be more about your general vibe than physical attributes”, precisa l’articolo di Dazed, il ratto come stato mentale, non solo fisico.

Il più in vista dei divi rodent attualmente è Josh O’Connor, fresco di collaborazione con Luca Guadagnino e Alice Rohrwacher. La sua fortuna, prima che al cinema d’autore italiano, si deve alla serie The Crown, dove interpreta il giovane Carlo – questo fa del Re d’Inghilterra un roditore? Chissà. O’Connor è un divo che sta costruendo con grande intelligenza la sua personalità fuori dallo schermo: le sfilate Loewe, le passeggiate per Bologna, i suoi romantici diari del set, l’allure indie, anti-hollywoodiana, seppur ben inserita nell’economia mainstream, come conferma l’enorme successo di Challengers, fanno di lui il perfetto divo-roditore, aiutato anche da una bellezza a prima vista fuori dagli schemi anni Novanta o anni Zero, dotata di grandi orecchie e sguardo dolce, oltre che di unghie sporche, ne La Chimera, e sudore grondante, in Challengers. Anche Mike Faist, co-star del film evento della primavera, rientra nella categoria roditore: i due diversamente belli che ronzano attorno a Zendaya, in quel cinepanettone d’autore firmato Guadagnino, sono entrati di diritto nel firmamento dei divi contemporanei.

Spostandosi sull’universo seriale, il roditore del momento è Jeremy Allen White. Protagonista di The Bear, paragonato da alcuni a Paolo Bonolis, diviso tra uno spot Calvin Klein, una hot sauce da preparare e una passeggiata mano nella mano con la cantante Rosalìa, Allen White è un altro topo-divo molto in vista; insieme a lui, Tom Holland, Kieran Culkin, Logan Lerman e perché no, anche Pietro Castellitto, se vogliamo aggiungere un po’ d’Italia al filone. Che sia Timothée Chalamet il capostipite del trend – e dunque, indirettamente, Guadagnino – è ancora incerto, visto che alcuni lo vorrebbero nel settore rettili. Ma una cosa è evidente: il suo exploit come celebrity ha ricalibrato i parametri del canone estetico hollywoodiano. La magrezza che vince sui muscoli, il pallore sull’abbronzatura, la delicatezza sulla virilità sono tutti tratti che il protagonista di Dune, con il suo french touch, ha importato sul suolo americano, e di conseguenza in tutto lo star system occidentale. Da Woody Allen allo sfondo del telefono di Kylie Jenner è un attimo.

Manifesting Elordi

Tra le tante cose che non ci saremmo aspettati di vedere quest’anno, c’è sicuramente Chiara Ferragni che usa i suoi canali social per fare manifesting su Jacob Elordi. Fresca di separazione, l’imprenditrice digitale ha cambiato strategia nel modo in cui si presenta al mondo: niente bambini, pochissime parole, molti trend. Il manifesting, appunto, ne è un chiaro esempio. Incanalare tutte le proprie energie per ottenere qualcosa che si vuole che, nel suo caso, si tratta di uno degli attori più desiderati e amati dalla Gen Z.

Elordi, infatti, fa parte della fortunatissima infornata di neo-star che ci ha regalato la serie HBO Euphoria: oltre a Zendaya, la diva del presente, vengono da lì anche Hunter Schafer e Sydney Sweeney, un cast di lusso che cresce come fenomeno andando ben oltre la conclusione delle due stagioni. Jacob Elordi però non è solo il Nate Jacobs di Euphoria, rivisitazione in chiave zoomer dello stereotipo del quarterback che fa il bullo tra gli armadietti, ma chatta anche segretamente con la ragazza trans appena arrivata in città. Elordi è l’esponente di successo di un altra tipologia di divismo maschile contemporaneo, distante dal roditore, ma comunque peculiare.

Se da un lato abbiamo i belli interessanti, con lui ci troviamo di fronte a un tipo di fascino statuario, classico, una caratteristica che lo lega anche a un altro nome fondamentale del presente, ossia quello di Paul Mescal. Elordi, dall’alto dei suoi due metri e della sua mascella da divo anni Cinquanta, reinterpreta con ironia gli archetipi del cinema hollywoodiano e mette il suo aspetto a servizio di una versione postmoderna del bello e dannato. Il suo Elvis, nel Priscilla di Sofia Coppola, è una parodia, più che un omaggio, al contrario di quello di Austin Butler nel musical di Baz Luhrmann: goffo, fuori scala, tonto, ridicolo; la sua presenza in Saltburn è esageratamente paradisiaca, al punto di farlo morire con due ali d’angelo cucite addosso, rappresentazione ai limiti con lo stilnovismo. E la sua collezione di it bags femminili completa il quadro.

Paul Mescal, di cui si lodano profilo greco e gambe scolpite, queste ultime fieramente esibite tra corse metropolitane e sfilate Gucci, ne è la versione più underground: anche lui viene fuori da una serie teen di successo, Normal People, anche lui ha ruoli che lo consacrano al grande pubblico, come quello ne Il Gladiatore 2, e anche lui, come molti divi del presente, sa quando scegliere il cinema d’autore – Aftersun, di cui è protagonista, è stato un cult istantaneo. Stile riconoscibile, Gazelle d’ordinanza e shorts, frequentatore di festival musicali, fidanzate cantanti molto cool – prima Phoebe Bridgers, poi flirt con Gracie Adams – Mescal è, oltre che un divo, un dispensatore di meme, come quello che riguarda la voce di corridoio secondo cui dopo i suoi appuntamenti romantici scappa correndo, motivo per cui è spesso paparazzato in tenuta da jogging.

Non basta essere un poster sulla parete di una cameretta ai piedi del letto di una adolescente sognante, bisogna avere una personalità, etica ed estetica. Nel caso della mascolinità, il presente chiede ai suoi divi di metterla in secondo piano per fare largo ad altri valori meno rigidi, o come si direbbe oggi, più fluidi.

Nell’economia del divismo maschile contemporaneo, Mescal ed Elordi riempiono lo spazio dell’irraggiungibile, arricchendo questa categoria con una narrazione, più o meno volontaria, che li allontana dalle caselle classiche del machismo cinematografico. Entrambi, infatti, non temono i ruoli in cui la loro sessualità si confonde, che sia l’oggetto del desiderio ossessivo di un compagno di università, come Elordi in Saltburn, o il protagonista di una storia omosessuale, come Mescal in All Of Us Strangers, siamo di fronte a qualcosa che va oltre il trend del metrosexual anni Zero. L’intento è dichiarato, oltre che rivendicato, la queerness è un punto in più su cui fare leva, senza timore di sminuire il proprio sex appeal. Si potrebbe dire che i due giovani attori fanno ciò che Harry Styles ha fatto per la musica: per alcuni è queer-baiting, per altri è ribaltare il cliché dell’idolo teen risemantizzandolo in chiave ironica, fluida e chic; tanto chic da avere un profilo Instagram chiuso, nel caso di Mescal, e un profilo Instagram che sembra un catalogo di moda, nel caso di Elordi. 

Boys do cry

Se negli anni Ottanta una studentessa del liceo Berchet doveva intrufolarsi nel backstage di Sanremo per vedere il suo idolo dal vivo, oggi la presenza delle celebrità sul piano del racconto quotidiano si è moltiplicata in modo del tutto orizzontale. Abbiamo a disposizione piattaforme di ogni tipo per seguire i passi di chi idolatriamo, basti pensare al lavoro certosino di spionaggio che le fan di Harry Styles stanno regalando al pubblico di internet raccogliendo ogni suo spostamento a Roma, dalla spesa al supermercato al litigio con i tassisti, neanche un paparazzo potrebbe fare meglio

Ma non è solo il rapporto tra pubblico e celebrità a essere cambiato, subendo i colpi della disintermediazione: è la narrazione completa – fatta di moda, appartenenza, trend, scelte dichiarate – che fa di un divo un divo oggi. Non basta essere un poster sulla parete di una cameretta ai piedi del letto di una adolescente sognante, bisogna avere una personalità, etica ed estetica. Nel caso della mascolinità, il presente chiede ai suoi divi di metterla in secondo piano per fare largo ad altri valori meno rigidi, o come si direbbe oggi, più fluidi. Il red carpet diventa così un’occasione di giocare con una varietà che un tempo apparteneva solo al lato femminile, così come l’aspetto fisico può allontanarsi dai canoni classici in favore di un fascino complesso, per quanto poi questi topi del topo abbiano ben poco, e per quanto lo star system occidentale rimanga saldamente ancorato su un modello bianco. Ma il principio è quello della kalokagathia greca: il divo di oggi non porta scandalo, non guida in stato di ebbrezza, non è un latin lover, non ci regala mug shot né relazioni pazze da titoli di tabloid che accentuano la distanza tra la sua immagine e la sua sostanza umana. E questo è, chiaramente, tutto ciò che è giusto raccontare, ciò che si può plasmare nello storytelling moltiplicato, ma proprio per questo iper-controllato.

Chi sono davvero questi nuovi divi, cosa fanno nel loro privato, cosa pensano, rimane comunque un mistero, per quanto l’illusione di conoscerli davvero, a forza di reel, meme, interviste e paparazzate fai da te, crediamo di averla. Sappiamo che Josh O’Connor ama il giardinaggio, che Jeremy Allen White porta i fiori a Rosalia, che Jacob Elordi ama scattare foto analogiche sul set e che Paul Mescal guarda con fare trasognato la sua collega di Normal People Daisy Edgar-Jones. Ciò che ci raccontano questi divi è che nel mondo dello spettacolo il macho tramonta. Nel mondo reale, invece, resta a noi scoprire se sia davvero così.


Alice Valeria Oliveri

Giornalista e autrice. Nata a Catania nel 1992, dal 2014 si occupa di televisione, cinema, musica e nuovi media collaborando con diverse testate. Dal 2019 è analista nel programma di Rai3 Tv Talk e dal 2022 è autrice e host del podcast Il decennio breve, prodotto da Hypercast. Collabora con Mediaset Infinity come autrice di format video. Nel 2023 ha pubblicato il suo primo romanzo, Sabato champagne, edito da Solferino e nel 2024 ha pubblicato il saggio Mondovisione per Einaudi.

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