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Nuovi itinerari dei paesaggi digitali

La rete è uno spazio tanto virtuale quanto fisico. Osservare il suo dispiegamento nel paesaggio quotidiano e individuarne nodi e relazioni territoriali permette una nuova comprensione tecnologica: consapevole, devirtualizzata, romantica.

Tra le mura decorate di un antico palazzo si aggira una figura argentea abbigliata come un fantasma: nelle stanze del Palais Garnier di Parigi e dello Schönbrunn Palace di Vienna, una figura meccanica incontra sé stessa per la prima volta, scoprendo la sua materialità grazie a specchi che ne rivelano l’esistenza. La figura fantasmagorica è in realtà la fotocamera utilizzata da Google per mappare gli interni di alcuni monumenti per il progetto Google Arts & Culture: l’artista catalano Mario Santamaria ha ripercorso i tour virtuali realizzati dalla piattaforma per immortalare tutte le volte che l’ingombrante fotocamera si trova a dover fare i conti con la sua esistenza fisica. 

L’immagine della videocamera automatizzata costretta a incontrare sé stessa è di certo toccante: il momento della rivelazione di ciò che si nasconde dietro quello sguardo che combacia col nostro, quell’immersività promessa dai virtual tour che di colpo lascia spazio alla verità di un mediatore. Ma l’operazione di Google volta a digitalizzare i musei – allo stesso modo in cui ha digitalizzato il mondo intero con Google Street View – presenta molto più che quest’unico toccante glitch: in Trolling Google Art Project, lo stesso Santamaria indaga tutte le volte in cui il dipinto di una collezione viene opacizzato allo sguardo per questioni di copyright. La promessa della visibilità del patrimonio culturale si scontra con motivazioni politiche: l’ambizione di mappare il mondo è possibile solo in parte, ostracizzata dai privati e dalle leggi sulla proprietà di riproduzione.

Proprio quando la pervasività di internet sembra convincerci della sua capacità di spalancare porte e fornire percorsi esclusivi per navigare il mondo fisico, la sua onnipotenza viene messa in discussione da dinamiche umane a cui il mondo di internet non riesce a far fronte. I paesaggi digitali non possono che arrendersi dinanzi alle dinamiche stringenti della “realtà”, e rivelare che il loro stesso funzionamento sia possibile solo grazie a dispositivi ben più tangibili di quell’etere rarefatto a cui si pensa quando si pensa al web.

Internet Tour

Abituati a pensare a internet come a un “cloud” infinito che interagisce con la nostra vita di tutti i giorni alla stregua di un deus ex machina, tutte le ricadute materiali della nascita di internet sembrano passare in secondo piano. Ciò avviene non solo per il modo in cui i data center stanno cambiando le topologie delle città, ma nel modo in cui internet stesso sta dando vita a nuovi tipi di gestualità e modi di interagire con lo spazio fisico circostante.

Andare alla scoperta del mondo invisibile che permette il funzionamento di internet vuol dire percorrere strade sotterranee e perdersi in un paesaggio “altro” compiendo uno di quegli atti di “deriva” suggeriti da Guy Debord.

È facile immaginare internet ricorrendo alla metafora dell’infinita rete di Indra, dove i dati viaggiano su magici fili d’argento dando vita a una complessa struttura di scambi dai meccanismi ignoti: dietro questa immagine evocativa, tuttavia, si nasconde un labirinto di cavi sottomarini in fibra ottica e una mappa alternativa costellata da grossi edifici adibiti a conservare i dati e dischi rigidi tenuti in vita da un costante lavoro di raffreddamento.

Andare alla scoperta del mondo invisibile che permette il funzionamento di internet vuol dire percorrere strade sotterranee, – nascoste sott’acqua o sotto terra – e perdersi in un paesaggio “altro” compiendo uno di quegli atti di “deriva” suggeriti da Guy Debord. Nel suo Tubi – Viaggio al centro di internet, lo scrittore Andrew Blum racconta il suo viaggio alla scoperta delle infrastrutture di internet: un itinerario che ha inizio nello stesso giardino di casa sua, quando la connessione viene interrotta da uno scoiattolo che ha rosicchiato un cavo rendendo impossibile la navigazione. Lo stesso Andrew Blum fa riferimento al testo di culto How to Lie with Maps dell’autore Mark Monmonier, il cui titolo, dice, “si riferisce scherzosamente al fatto che le mappe non mostrano mai soltanto dei posti, ma esprimono e rafforzano degli interessi”. Nell’introduzione del libro, Monmonier scrive: “Non si scappa dal paradosso cartografico: per presentare un’immagine utile e veritiera, una mappa dettagliata deve dire alcune bugie bianche. […] Per le mappe, mentire non è solo facile, è essenziale. Lo scopo del libro è scatenare un po’ di sano scetticismo.”

Dal 2018, la creazione di mappe alternative che distacchino i visitatori dai soliti percorsi compiuti è anche al centro della pratica artistica di Mario Santamaria: su tutto, la creazione di una serie di tour anti-turistici alla scoperta dei luoghi in cui circolano le nostre e-mail, messaggi, like, video e foto. Con gli Internet Tour, l’artista agisce come un tour operator che disvela le infrastrutture di internet nascoste in decine di città del mondo. Invitati a scoprire i grandi mostri metallici e i lunghissimi cavi che spesso si costeggiano senza saperlo, i partecipanti agli Internet Tour compiono una deviazione tale da svelare loro l’impatto che le tecnologie digitali hanno sul territorio, rivelando loro la verità sul fatto che internet sia decisamente più finito di quel che pensano. 

“Ho smesso di guardare i siti e gli indirizzi web, e sono andato a cercare luoghi e indirizzi fisici” scrive Blum nel suo Tubi: assecondando la stessa intuizione, lo stesso Mario Santamaria ha scelto di indossare le vesti di un pacchetto dati percorrendo fisicamente la strada che collega la sua casa a Barcellona ai server che accolgono il suo sito web personale. In Travel to my website (2016), l’artista segue una mappa che lo porta a Bergamo dopo aver rintracciato e percorso ogni tappa compiuta dai cavi che ospitano il flusso dei suoi dati personali, compiendo un viaggio assurdo che “impiega tanto tempo per essere completa quanto l’artista nel viaggiare fisicamente verso il suo server”. Il veloce e ubiquo viaggio dei dati si trasforma nel viaggio fisico del loro proprietario sulle tracce della loro fonte ultima.

Invitato a realizzare un’opera d’arte per il Centre d’Art Santa Mònica di Barcellona, Santamaria ha proposto di mappare il centro d’arte con un virtual tour uguale a quelli messi a disposizione da Google Arts & Culture. Accedendo al tour per immergersi nel centro, però, questo viene capovolto da una deviazione particolare: utilizzando le freccette che permettono all’utente di muoversi a partire dalla facciata esterna dell’edificio, il visitatore che passeggia digitalmente si ritrova improvvisamente catapultato nel sottotetto del museo, perso tra il groviglio di cavi che permette al centro di connettersi a internet. 

La flânerie ai tempi di GeoGuessr

Nel suo video saggio Flânerie 2.0, Chloe Galibert-Laine fa riferimento all’atteggiamento degli utenti ricorrendo al concetto di flânerie, come inteso dallo scrittore Walter Benjamin: quella percezione distratta che, opposta alla contemplazione, permette al cittadino di perdersi nella sua stessa città facendo scivolare il suo sguardo sugli edifici, sugli oggetti e sulle persone. Galibert-Laine descrive una modalità di interagire con il paesaggio digitale che somiglia a quello di un flâneur disinteressato, consumatore di immagini che attua uno scrolling che non posa i suoi occhi su nulla, ma si presta a porgerli eventualmente su tutto. “Il flâneur scrolla, cicca, naviga con la punta delle dita; anche lui esita, incerto, ma è pronto a comprare. In qualche modo, questa flânerie digitale è già una forma di consumo” dice la regista. Nel 2024, infatti, l’idea di perdersi sembra sempre più lontana, nonostante Google Maps abbia riversato nelle strade tanti camminatori distratti: questi flâneur praticano un nuovo tipo di percezione tattile mutuata dalla riproduzione della città sui loro dispositivi mobili – che sia in forme di mappe, immagini scattate, feedback e recensioni di posti lasciate da qualcun altro.

L’ultra-visibilità del mondo promessa da Google dà vita a una nuova serie di comportamenti e sensazioni specifiche: su tutte, la spinta a ritornare a visitare un luogo impresso nella propria memoria a cui è legato un forte valore sentimentale, che può portare a ripercorrere sentieri della propria infanzia ormai sedimentati nella memoria. La fama dello YouTuber Trevor Rainbolt, campione del videogioco GeoGuessr, attesta la realtà di questa fascinazione. Nel videogioco, i giocatori vengono catapultati in un posto randomico di Google Street View, sfidati a indovinare la loro posizione cercando di collezionare informazioni sul paesaggio in cui si trovano: cartelli pubblicitari, indicazioni stradali, numeri di telefono, targhe di auto. Arrivati a un certo numero di ore di gioco, il giocatore avrà ormai raccolto abbastanza elementi per capire dove si trova: incontrare numeri gialli su cartelli stradali verdi vuol dire trovarsi in Sud Africa; scritte bianche su cartelli rossi, Danimarca. Anche altri tipi di informazioni, più arbitrarie, permettono di indovinare il luogo: se si riescono a intravedere i supporti laterali della lente fotografica della Google Car, vuol dire che ti trovi probabilmente in Guatemala; se una macchina della polizia ti segue, sei probabilmente in Nigeria.

Navigare il paesaggio di internet diventa un modo per navigare nel paesaggio mnemonico del proprio passato, come a compiere un viaggio nel tempo e nello spazio attraverso il paesaggio fornito da Google.

La popolarità dei gameplay di Rainbolt, però, fa leva sul fattore nostalgico: su Instagram, Bolt invita i suoi seguaci a inviargli fotografie di cui desiderano scoprire la localizzazione esatta. Grazie all’esperienza di Bolt, quindi, un utente rintraccia il luogo in cui è stata scattata l’unica foto che possiede della sua madre adottiva, o incontra un luogo d’infanzia che pensava non sarebbe mai più riuscito a trovare. Navigare il paesaggio di internet diventa così un modo per navigare nel paesaggio mnemonico del proprio passato, come a compiere un viaggio nel tempo e nello spazio attraverso il paesaggio fornito da Google.

Devirtualizzare internet 

“Technoromanticismo” è il termine con cui la critica d’arte ha descritto le operazioni di una nuova generazione di artisti impegnata a riflettere sul rapporto uomo-tecnologia con uno scopo preciso: restituire materialità alle loro opere che prendono spunto dalle dinamiche del web. 

La parola chiave è “devirtualizzazione”: internet osservato in tutte le sue manifestazioni e ricadute sul mondo fisico, non più percepito come un portale oscuro impossibile da penetrare, ma come una serie di sintomi comparsi nelle topografie che abitiamo. Ben lontani dal movimento della Net-Art e da quella eccitazione all’idea di virtualizzare il mondo materiale, gli artisti del secondo decennio del XXI secolo sono mossi dal desiderio opposto. Fedeli a questa nuova materialità, fanno uso di complessi elementi scultorei come hardware elettronici e stampe 3D, restituendo corpi ingombranti, pesanti e dispendiosi alle loro opere tecnomalinconiche.

Talvolta, i sintomi del mondo virtuale su quello fisico danno vita a incontri paradossali, così come documentato dall’archivio New Aesthetic, il blog di Tumblr creato dallo scrittore James Bridle che raggruppa tutte quelle interazioni strambe tra le due dimensioni – elementi che, devirtualizzati, creano cortocircuiti dal sapore situazionista. Le influencer che filmano make-up tutorial nei quali mostrano come somigliare a un filtro di Snapchat sono un esempio diretto dei processi di devirtualizzazione, così come lo sono gli schemi di pensiero mutuati da ciò che possiamo o non possiamo fare grazie a alle interfacce di WhatsApp o Instagram.

Dopo l’era del grande fascino (e mistero) nei confronti del Nuovo Mondo – internet – è forse tempo di sottrarre il mondo digitale a quello della magia. Le immagini generate da intelligenze artificiali sono frutto di un prompt, e del dialogo di questo con un database ristretto; la nostra connessione potrebbe essere tagliata in qualsiasi momento da un roditore che mangiucchia i cavi che abbiamo in casa; i nostri dati potrebbero diventare inaccessibili perché una data warehouse si è surriscaldata più del dovuto a causa di un guasto; l’esistenza di un luogo potrebbe esserci oscurata per motivi politici di cui ignoriamo i dettagli. Osservare i sintomi dell’insistenza del paesaggio digitale su quello fisico e viceversa – facendo attenzione che il nostro sguardo da flâneur digitali non scivoli disincantato su ognuno di questi – permetterà forse di ridefinire il rapporto tra essere umano e tecnologie riportandolo a un certo romanticismo vicino ai tempi dell’early internet. E perché no? La presa di coscienza dei corrispettivi limiti potrebbe dar vita a momenti toccanti, almeno quanto una fotocamera di Google che per la prima volta interrompe il suo percorso solitario per scoprire il suo volto in una grande superficie riflessa.


Arianna Caserta

Scrittrice e studiosa di Film Studies; la sua area di ricerca verte attorno alle ibridazioni tra audiovisivo e cultura internet, con un focus su identità e auto-narrazioni online.

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