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La seduzione della guerra in Vietnam

Alcune guerre sono più raccontate di altre dal cinema e dalla tv. E così, per più generazioni, la sconfitta statunitense in Vietnam è stato uno snodo cruciale, un modo di posizionarsi e farsi un’idea.

Steven Spielberg, nel 2017 (con The Post), e Spike Lee, nel 2020 (con Da 5 Bloods – Come fratelli), hanno riportato l’attenzione sul Vietnam, in un periodo in cui i grandi registi americani sembravano aver abbandonato il racconto di quella guerra che ha visto l’esercito degli Stati Uniti entrare via terra nel Paese del sud-est asiatico nel 1965 e uscirne soltanto nel 1973. Il film di Spielberg si svolge soprattutto negli Stati Uniti, perché si concentra sullo scandalo creato dalla pubblicazione dei Pentagon Papers, mentre Lee ha messo in scena i personaggi classici del filone sul Vietnam, i reduci, e li ha fatti tornare dopo decenni a Saigon per provare a chiudere i conti con il passato. Anche grazie alla distribuzione di Netflix, quest’ultimo film del regista afroamericano ha riportato per qualche settimana in voga il Vietnam, quanto meno nelle discussioni social. Agli spettatori nati tra i primi anni Sessanta e la fine dei Settanta, la cosiddetta Generazione X, ha fatto tornare in mente un periodo della loro adolescenza in cui abbondavano i soggetti cinematografici sul conflitto. Queste persone, che all’epoca della guerra non erano ancora nate o stavano vivendo la loro infanzia, negli anni Ottanta avevano il cinema e la tv come punti fermi del proprio svago, e anche grazie ai frequenti passaggi televisivi dei film sulle truppe in azione nella giungla vietnamita e sui reduci tormentati avevano sviluppato una buona familiarità con l’evento storico, e non contava se il proprio Paese avesse avuto o meno un ruolo nel conflitto.

Guerre più o meno attraenti

Nell’estate del 2014, il critico cinematografico Andrew Pulver sul Guardian si chiedeva perché fossimo tanto ossessionati dai film sulla seconda guerra mondiale: “Alcune guerre da film – il Vietnam, la guerra fredda, l’Iraq – vanno e vengono, ma quella del 1939-1945 non si esaurisce mai. È impossibile stilare una lista definitiva ma, per fare un confronto, l’elenco di Wikipedia dei film sulla prima guerra mondiale ammonta a poco più di 130 titoli, mentre quello sui film della seconda guerra mondiale arriva a più di 1.300, e non è ancora finito”. Qualche anno dopo, a fine 2019, Lewis Beale, sul Los Angeles Times, analizzando le differenze tra i film sulla prima e sulla seconda guerra mondiale, sottolineava un fatto storico che può dare una risposta indiretta alla domanda di Pulver: il minore coinvolgimento degli americani nel primo caso. E lo conferma proprio il periodo in cui Hollywood ha dato così tanto spazio a una guerra, in Vietnam, in cui l’Europa non era coinvolta (tranne la Francia negli antefatti), capace comunque di attirare il grande pubblico di molti Paesi europei. La guerra in Vietnam, infatti, per poco più di dieci anni è stato un tema trattato a ripetizione dagli sceneggiatori statunitensi, anche per script televisivi, e il filone che si è creato ha avuto un successo enorme, soprattutto in Occidente, tanto che sembrava quasi destinato a contendere il primato alla narrazione della seconda guerra mondiale. 

Dalla propaganda statunitense fatta per “posizionarsi” in piena guerra fredda al culto dell’eroe invincibile e “giusto”, fino all’approccio realista, al punto di vista critico e magari alla condanna, passando per film di genere e opere d’autore. Nella seconda metà degli anni Ottanta, in particolare, c’è stata una vera inflazione di pellicole su questo conflitto, alcune molto apprezzate anche in Italia.

Se le scorie di guerra presenti nel reduce costruito a regola d’arte da Martin Scorsese e Paul Schrader per Taxi Driver (1976), Travis Bickle, hanno fatto da preludio agli exploit di Il cacciatore (1978) di Michael Cimino e di Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, dall’uscita di questi ultimi film in poi si è generata una sorta di serie antologica con “puntate” spalmate negli anni che offrivano approcci e punti di vista diversi. Dalla propaganda statunitense fatta per “posizionarsi” in piena guerra fredda (l’esercito dava consulenze a molte case di produzione) al culto dell’eroe invincibile e “giusto”, fino all’approccio realista, al punto di vista critico e magari alla condanna, passando per film di genere e opere d’autore. Nella seconda metà degli anni Ottanta, in particolare, c’è stata una vera inflazione di pellicole su questo conflitto, alcune molto apprezzate anche in Italia. Il box office italiano della stagione 1986/87 vede Platoon di Oliver Stone al terzo posto, mentre quello del 1987/88 Full Metal Jacket di Stanley Kubrick al quarto. Due uscite nelle sale che – come ricorda chi ha vissuto quel periodo – erano imperdibili, con un pubblico realmente trasversale, che partiva dai ragazzini delle scuole medie e arrivava agli adulti di orientamenti diversi, dal filoamericano al pacifista. E oltre a questi titoli, negli stessi anni hanno avuto un’eco nel nostro Paese anche Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson con Robin Williams, Giardini di pietra (1987) di Francis Ford Coppola, Hamburger Hill: collina 937 (1987), Bat*21 (1988), Saigon (1988) con Willem Dafoe (che in Platoon interpretava uno dei personaggi più amati), Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma e Nato il quattro luglio (1989), ancora di Oliver Stone, particolarmente sensibile al tema perché reduce dal Vietnam dopo essersi arruolato volontariamente. La televisione, inoltre, non si limitava a trasmettere questi film circa un anno dopo l’uscita nelle sale, perché dal 1987 al 1990 su Italia 1 è andata in onda una serie di tre stagioni dal titolo esplicito, Vietnam addio.

Dai festival alla televisione

In un articolo uscito su Repubblica nel 1987, Enrico Franceschini, allora corrispondente da New York, contestualizzava l’uscita di Full Metal Jacket in questo modo: “Forse l’America ha trovato il sistema per esorcizzare una guerra dolorosamente perduta: basta continuare a combatterla al cinema, all’infinito”, e poche righe dopo aggiungeva che “indubbiamente Ronald Reagan ha contribuito a questa riscoperta, a questa ansia di rivivere e rivincere la brutta avventura indocinese: In Vietnam non abbiamo perso, ama dire il presidente, la verità è che non abbiamo voluto vincere”. Proprio durante la presidenza Reagan, tra il 1981 e il 1989, le produzioni cinematografiche in cui il Vietnam ha avuto un ruolo importante sono cresciute e i maggiori festival europei hanno apprezzato anche gli “episodi minori” del filone. Come Birdy – Le ali della libertà (1984) di Alan Parker, vincitore del Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes, che parla del post-guerra traumatico, e Fandango (1985) di Kevin Reynolds, primo successo di Kevin Costner, che mette in scena il pre-guerra, le emozioni prima della partenza, ed è stato ben accolto alla Settimana della Critica di Venezia. Entrambi i titoli, inoltre, negli anni seguenti hanno goduto di vari passaggi televisivi.

È però stata la saga di un reduce-supereroe, Rambo, con i primi due capitoli del 1982 e del 1985 (al secondo e al primo posto dei box office italiani stagionali), a riscuotere un successo popolare: l’attore protagonista, Sylvester Stallone, con i primi tre film di Rocky aveva avuto alterne fortune in sala, ma la trasmissione massiccia di entrambe le epopee sulle reti commerciali lo aveva reso idolo incontrastato dei più giovani. La tv, inoltre, dava un ulteriore contributo perché dal 1982, prima su Canale 5 e poi su Italia 1, è andato in onda – per anni subito dopo pranzo – un telefilm molto seguito, Magnum P.I., che per molti studenti costituiva il primo svago dopo la scuola e subito prima di mettersi a fare i compiti a casa. Oltre a essere un investigatore privato, il protagonista, come i suoi due migliori amici, era reduce dal Vietnam e in più puntate questo passato diventava ingombrante, con flashback che raccontavano traumi vissuti e conti in sospeso con quella drammatica esperienza. Discorso simile per A-team, arrivato su Rete 4 nel 1984 e poi passato a Italia 1, telefilm con protagonista un “simpatico” commando di reduci membri di un gruppo di forze speciali e pronti ad aiutare i più deboli: anche le loro ombre legate al passato in Vietnam ogni tanto ricomparivano. 

La Generazione X, anche in Italia, insomma, faceva parte degli spettatori più coinvolti in queste visioni. Attratta dalle forti emozioni degli horror, dalla possibilità di fantasticare o svagarsi delle commedie, dalla forza degli eroi d’azione, dimostrava molta curiosità anche per un tragico evento storico che sembrava così importante per il Paese di provenienza di molti dei suoi idoli (del cinema, della tv, ma anche della musica). Sicuramente l’ascendente degli Stati Uniti negli anni Ottanta era invasivo, e magari influiva la sensibilità ancora incantata verso quello spirito di gruppo – la solidarietà umana tra commilitoni – sottolineato in più racconti su questa guerra. Ma c’è dell’altro: questo conflitto era importante anche per i genitori che, con queste visioni, rivangavano una serie di ricordi personali e di immagini Rai rimaste impresse nella collettività, anche perché trasmesse in un periodo storico in cui, da poco, in ogni casa era entrato un televisore. 

Magnum P.I., oltre a essere un investigatore privato, il protagonista, come i suoi due migliori amici, era reduce dal Vietnam e in più puntate questo passato diventava ingombrante, con flashback che raccontavano traumi vissuti e conti in sospeso con quella drammatica esperienza. Discorso simile per A-team, con un simpatico commando di reduci membri di un gruppo di forze speciali e pronti ad aiutare i più deboli: anche le loro ombre legate al passato in Vietnam ogni tanto ricomparivano.

La guerra in Vietnam, infatti, è anche stata la prima a essere raccontata principalmente dalla tv e ancora oggi su Rai Play si possono vedere molti servizi dell’epoca firmati, tra gli altri, da Piero Angela e Furio Colombo. Da un reportage che testimonia da vicino azioni militari statunitensi anche con riprese in pseudo-soggettiva (con ogni probabilità comprato dalla tv americana) si passa a un servizio su come la guerra ha coinvolto tragicamente i bambini locali (di Colombo) e a un documento che prova il quadro complesso della realtà (di Angela), fino allo speciale sui pacifisti in cui appare John Kerry, arruolatosi volontario ma, dopo l’esperienza in Vietnam, impegnato nella grande manifestazione di protesta dei reduci nel 1971 a Washington DC, davanti al Congresso. Nel documentario Steinbeck e il Vietnam in guerra (2020) di Francesco Conversano e Nene Grignaffini, Furio Colombo ha rimarcato che “la guerra del Vietnam è stato un fatto che ha polarizzato l’attenzione del mondo”, e Lidia Ravera ha aggiunto che “il pacifismo diventò di massa all’epoca” e che in quell’epoca il Vietnam era servito alla sua generazione (“lo abbiamo utilizzato per i nostri scopi perché era una guerra di popolo, la prima guerra di popolo di cui abbiamo avuto contezza, e la cosa ci faceva impazzire”).

Adesso, guardando indietro

Oggi, nell’era degli smartphone e dei social, gli adolescenti italiani potrebbero mai appassionarsi al racconto di una guerra così lontana dalla loro realtà quotidiana? La differenza fondamentale tra il presente e gli anni Ottanta è la mediatizzazione dei conflitti, diventata molto comune: la prima guerra del Golfo è esplosa nel 1991 in seguito a mesi di tensioni e subito dopo il periodo di grande successo dei film sul Vietnam, ed è anche passata alla storia per essere stata la prima raccontata in diretta televisiva, non solo con reportage. È così che è entrata anche qui da noi nelle menti della Generazione X – all’epoca composta da liceali e universitari – complice il fatto che l’Italia era coinvolta attivamente con il suo esercito. Da qui in poi le immagini reali delle guerre sono diventate sempre più familiari alla massa e i videogame a tema bellico, con l’aiuto delle simulazioni studiate proprio a inizio anni Novanta per gli addestramenti dei soldati americani, hanno iniziato a perfezionarsi, diventando un’esperienza virtuale sempre più definita che ha riscosso grande successo tra i più giovani. E poi sono arrivate anche le guerre raccontate su internet, dagli anni Duemila, seguite in modi diversi a seconda dei social in voga.

Quando il Vietnam è diventato un soggetto ossessivo per il cinema e amplificato dalla tv, gli adolescenti italiani potevano conoscere qualche pellicola sulla seconda guerra mondiale, evento raccontato loro dai nonni, e avevano un quadro generale del pacifismo, ma non avevano dimestichezza con le immagini belliche. Per i nati tra i primi anni Sessanta e la fine dei Settanta, dunque, si trattava dell’esplorazione di un fenomeno ignoto che attraeva per la sua drammaticità e per la consapevolezza diffusa di quanto nonni e genitori fossero stati segnati dal rapporto, diretto o indiretto, con le guerre. Oggi i figli della Generazione X perlopiù ignorano i racconti di finzione bellica scritti per il piccolo e grande schermo, soprattutto quelli che si rifanno a guerre reali del passato (anche recente). Ma la guerra ora più coperta dai media occidentali, quella in Ucraina, è la prima a essere raccontata su TikTok, il social più ludico, con musiche pop montate a caldo su immagini tanto reali quanto tragiche. La popolarità trasversale del filone sul Vietnam, insomma, sembra aver costituito soprattutto un’anticipazione.


Luca Gricinella

Ha scritto due saggi per Agenzia X: il primo, Rapropos (2012), esplora il legame tra la società francese e il rap, il secondo, Cinema in rima (2013), ripercorre la storia della presenza dell'hip hop nei film, con qualche accenno alle prime serie tv in cui ci sono tracce di questa cultura. Ha collaborato con varie testate e attualmente scrive soprattutto su Rumore, Alias (Il Manifesto), CheFare e WU magazine. Lavora anche da ufficio stampa in campo musicale.

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